Paolo Levi

CONTAMINAZIONI OLTRE L’IMMAGINE

Lo sguardo verticale dell’artista

L’atto di guardare non è mai neutro: chi lo compie, e poi ne fa resoconto, restituisce alla cosa guardata la sua soggettività, persino la sua biografia. Il che è tanto più vero quando l’atto di guardare non appartiene all’uso quotidiano che tutti fanno della propria vista, ma quando la cosa guardata trova la ragione stessa del suo esistere, nel fatto di essere oggetto e spettacolo della visione altrui. È questo, ovviamente, il caso dell’arte visiva e, nel nostro specifico, del complesso rapporto che intercorre fra uno sguardo specializzato, quello del critico d’arte, e l’oggetto che l’artista gli propone. E non può essere altrimenti, poiché ogni azione creativa si rivolge non solo al suo pubblico, ma anche a interlocutori capaci di condivisione, e quindi di risposte congrue alle domande che pone, sempre, l’autore di quella stessa azione. In questo rapporto così intimo non c’è quindi la spontaneità di un incontro, ma mediazione culturale, intendendo per culturale tutto ciò che appartiene all’elaborazione dell’intelletto e ai riflessi psicologici dell’esperienza di ambedue gli interlocutori.

 Questa premessa è anche un modo di rispondere e di sintonizzarsi, da parte di chi scrive abitualmente di pittura dipinta, con il lavoro di Angelo de Francisco, il quale, in una bella intervista a Giorgio Seveso, deplora l’incapacità di molta critica d’arte di guardare alla sue composizioni in verticale, liberandosi cioè dagli schemi abituali di analisi visiva. Quindi, giustamente, egli ci invita alla scoperta dei significati sottesi alla sua intenzione narrativa, tenendo conto che il suo mezzo espressivo parte dalla riproducibilità seriale dell’immagine attraverso le tecniche digitali, e alla possibilità di esplorare soggettivamente il reale, rivelandone l’alterità, tramite una manipolazione degli stessi mezzi di comunicazione di massa che quel reale impongono, oggi, in modo pervasivo.

 Quelli di Angelo de Francisco sono paesaggi urbani - di Milano soprattutto - sono ritratti, sono gesti esasperati di acrobati e atleti, sono, in una parola, realtà tangibili che appartengono al nostro immaginario collettivo, in quanto già fruite come icone mediatiche. È a questo punto che interviene l’artista, partendo quindi da un dato di fatto immediatamente riconoscibile, e operando proprio sulla sua riconoscibilità per trasformarlo in messaggio inimitabile, imponendo la voce narrante di un Ego che si impone con la sua cifra stilistica per intavolare un discorso sulla percezione visiva. In questo senso non è più necessario osservare le leggi della tradizione pittorica, quella che, dall’Impressionismo in poi, si è posta il problema non tanto della riproduzione, quanto della rivelazione contenutistica e psicologica del visibile. Lo spazio sperimentale di questa sorta di soggettivizzazione dell’immagine non si è ancora del tutto esaurito, sia nell’astrazione, che in tutte le altre coniugazioni possibili del segno e del colore; per il nostro autore è però diventato inevitabile confrontarsi con le innegabili potenzialità espressive delle tecniche digitali di riproduzione, cercando nuovi traguardi espressivi, e un nuovo modo di dirsi artista.

 Artista a pieno titolo, vorremmo dire, perché nella loro irriducibile diversità, queste opere parlano ancora di segno e di colore, dove la sovrapposizione e la deformazione delle immagini giocano otticamente creando panorami nuovi, leggibili come metamorfosi in divenire, e tanto più veritieri quanto più si discostano dalla loro originale funzione descrittiva.

 Così la serie Città – oltre l’immagine, mostra un universo fluttuante e fantasmagorico, assai prossimo a uno stato d’animo, a un’impressione visiva lacerata da stimoli cromatici, luminosi e sonori. Armonie dissonanti di clacson e di fari, architetture che si moltiplicano in fughe prospettiche, presenze umane grigie, o grandi fantasmi femminei che si stagliano come irraggiungibili oggetti di desiderio sui muri di una città impastata di colori artificiali. Ironia e disincanto pervadono queste composizioni, straziando le forme neoclassiche in immagini caleidoscopiche che ricordano le anamorfosi barocche.

 Allo stesso modo la serie dedicata alle Olimpiadi of Cina, dove la forma umana è resa in tutte le possibili posture legate alle discipline sportive, l’occhio dell’osservatore vede soprattutto macchie di colore e forme dinamiche in fuga prospettica, composte quindi non solo secondo le scansioni visive dell’espressionismo astratto, ma anche rimandando alla cultura della pop art angloamericana, dove il reale si scarnifica e si vanifica nella reiterazione e nella variazioni cromatiche di una stessa immagine.

 Ancora suggestivo e ironico è il gioco dei ritratti – autoritratti si direbbe - che intercalano l’intervista di de Francisco a Giorgio Seveso: qui è anche possibile leggere, nella stiratura dei lineamenti, nelle smorfie gommose dovute alle curvature che ricordano quelle carnevalesche degli specchi deformanti, e nella frequente fatturazione geometrica dei visi e dei corpi che trascolorano in ombre fantasmatiche, un preciso e sarcastico intendimento, una sottrazione di senso che rovescia la tradizione della ritrattistica, cacciando una volta per tutte la fisiognomica, per lasciare il posto solo all’artificio, e quindi all’irrilevanza del vivere in corpo e in spirito.


Scopri di più