Leo Strozzieri
"La trascendenza del reale”
Dal 12 maggio al 6 giugno 2012 presso la Galleria Arteitalia (viale Regina Margherita, 64) a Pescara, diretta da Paola Dhui Perrone, si terrà una mostra personale dell’artista pugliese Carmen Manco, della quale la nostra rivista qualche anno fa si è interessata con un ampio servizio dello scrivente, chiamato in questa occasione a redigere un saggio critico sull’illustre personaggio. E lo ho fatto di buon grado vuoi per la validità della pittrice, una delle protagoniste al femminile più rappresentative della pittura figurativa nel nostro paese, vuoi per il prestigio della sede espositiva che promuove sempre mostre di rilevante livello e lo fa con puntuale costanza nonostante le difficoltà che incontra oggi ogni iniziativa culturale. Perché va rilevato che la direzione di Arteitalia mira innanzitutto alla qualità più che all’aspetto mercantile delle varie importanti proposte che si susseguono.
Ma veniamo a Carmen Manco nata e residente a Taranto, che dopo aver affrontato gli studi superiori ed universitari all’Università di Lecce, si dedica completamente alla pittura approfondendo il suo già rilevante bagaglio culturale per quanto concerne le arti visive appassionandosi in particolare all’esperienza impressionista che le permetterà di affrontare in chiave luministica le tre tematiche in lei ricorrenti, quella paesaggistica, delle nature morte e della figura femminile, quest’ultima per la quale ha assunto una rilevanza nazionale vincendo anche numerosi concorsi.
Ho dato al mio saggio critico il titolo “La trascendenza del reale” a significare proprio la sua capacità di spiritualizzare quanto la circonda e le offre stimolo di creatività.
E’ nella trattazione della figura femminile però che maggiormente si esplicita questo suo interesse a rendere quasi gravitazionali i corpi, nonostante permanga la volumetria delle parti anatomiche e direi la dovizia della carne che mai però sfiora il perimetro della voluttà dannunziana.
Carmen Manco in questo modo si pone in antitesi netta con la pessima consuetudine della prassi massmediatica contemporanea che si serve del corpo femminile come oggetto per ogni campagna pubblicitaria mirata a promuovere la frenesia dell’esasperato consumismo. La donna nella sua pittura riacquista quella dignità che le compete, sicché anche il suo corpo diviene luministicamente evanescente, come fosse etereo. Per giungere a questo effetto lei lo avvolge di una patina sognante di nebbia luminosa che ne attutisce la prorompente plasticità.
Va ancora notato come la trattazione del nudo femminile avrebbe potuto indurre la pittrice a degli sconfinamenti esasperati entro l’ambito decorativo o sentimentale. Nulla di tutto questo grazie alla sobrietà del disegno e delle posture in perenne riflessione su se stessa. Una certa compiacenza per i sentieri estetici intesi come esaltazione della bellezza che seduce esiste, ma totalmente controllata. Basti pensare alla produzione paesaggistica e alle numerose nature morte da lei dipinte nelle quali opera scientemente una selezione di un campionario di frutti appetibili solo per il loro aspetto fisico.
Invece fortissimo è dato rilevare un sentimento elegiaco ed una sofferente angoscia esistenziale dovuta alla solitudine che queste figure e queste scene esibiscono a chiare lettere. Ho rilevato trattarsi della solitudine che seduce per la vastità degli orizzonti, che lasciano intravedere una misteriosa profondità di pensieri che va ben oltre l’attrazione edonistica che le levigate e suadenti forme anatomiche possono suscitare. In tal modo Carmen Manco ci insegna a leggere con giudizio la realtà e soprattutto il pianeta donna, trascendente e al tempo stesso latore di un senso profondo di appartenenza alla terra; spiritualità quindi, ma legame solido alla contingenza storica, all’ambiente in cui questo essere trova la sua concreta dimora.
Un’ultima annotazione che funge da pass par tout ad ogni figurazione immortalata nelle sue tele riguarda il colore, mai espressionistico ed orgiastico, ma sempre estremamente lirico e attutito nel loro tonalismo morbido e quasi vellutato con delle suadenti trasparenze: una colorazione crepuscolare che però non sconfina nel decadentismo a dimostrazione di una robustezza tecnica ed umana che è a fondamento della sua ricerca.
Dal 12 maggio al 6 giugno 2012 presso la Galleria Arteitalia (viale Regina Margherita, 64) a Pescara, diretta da Paola Dhui Perrone, si terrà una mostra personale dell’artista pugliese Carmen Manco, della quale la nostra rivista qualche anno fa si è interessata con un ampio servizio dello scrivente, chiamato in questa occasione a redigere un saggio critico sull’illustre personaggio. E lo ho fatto di buon grado vuoi per la validità della pittrice, una delle protagoniste al femminile più rappresentative della pittura figurativa nel nostro paese, vuoi per il prestigio della sede espositiva che promuove sempre mostre di rilevante livello e lo fa con puntuale costanza nonostante le difficoltà che incontra oggi ogni iniziativa culturale. Perché va rilevato che la direzione di Arteitalia mira innanzitutto alla qualità più che all’aspetto mercantile delle varie importanti proposte che si susseguono.
Ma veniamo a Carmen Manco nata e residente a Taranto, che dopo aver affrontato gli studi superiori ed universitari all’Università di Lecce, si dedica completamente alla pittura approfondendo il suo già rilevante bagaglio culturale per quanto concerne le arti visive appassionandosi in particolare all’esperienza impressionista che le permetterà di affrontare in chiave luministica le tre tematiche in lei ricorrenti, quella paesaggistica, delle nature morte e della figura femminile, quest’ultima per la quale ha assunto una rilevanza nazionale vincendo anche numerosi concorsi.
Ho dato al mio saggio critico il titolo “La trascendenza del reale” a significare proprio la sua capacità di spiritualizzare quanto la circonda e le offre stimolo di creatività.
E’ nella trattazione della figura femminile però che maggiormente si esplicita questo suo interesse a rendere quasi gravitazionali i corpi, nonostante permanga la volumetria delle parti anatomiche e direi la dovizia della carne che mai però sfiora il perimetro della voluttà dannunziana.
Carmen Manco in questo modo si pone in antitesi netta con la pessima consuetudine della prassi massmediatica contemporanea che si serve del corpo femminile come oggetto per ogni campagna pubblicitaria mirata a promuovere la frenesia dell’esasperato consumismo. La donna nella sua pittura riacquista quella dignità che le compete, sicché anche il suo corpo diviene luministicamente evanescente, come fosse etereo. Per giungere a questo effetto lei lo avvolge di una patina sognante di nebbia luminosa che ne attutisce la prorompente plasticità.
Va ancora notato come la trattazione del nudo femminile avrebbe potuto indurre la pittrice a degli sconfinamenti esasperati entro l’ambito decorativo o sentimentale. Nulla di tutto questo grazie alla sobrietà del disegno e delle posture in perenne riflessione su se stessa. Una certa compiacenza per i sentieri estetici intesi come esaltazione della bellezza che seduce esiste, ma totalmente controllata. Basti pensare alla produzione paesaggistica e alle numerose nature morte da lei dipinte nelle quali opera scientemente una selezione di un campionario di frutti appetibili solo per il loro aspetto fisico.
Invece fortissimo è dato rilevare un sentimento elegiaco ed una sofferente angoscia esistenziale dovuta alla solitudine che queste figure e queste scene esibiscono a chiare lettere. Ho rilevato trattarsi della solitudine che seduce per la vastità degli orizzonti, che lasciano intravedere una misteriosa profondità di pensieri che va ben oltre l’attrazione edonistica che le levigate e suadenti forme anatomiche possono suscitare. In tal modo Carmen Manco ci insegna a leggere con giudizio la realtà e soprattutto il pianeta donna, trascendente e al tempo stesso latore di un senso profondo di appartenenza alla terra; spiritualità quindi, ma legame solido alla contingenza storica, all’ambiente in cui questo essere trova la sua concreta dimora.
Un’ultima annotazione che funge da pass par tout ad ogni figurazione immortalata nelle sue tele riguarda il colore, mai espressionistico ed orgiastico, ma sempre estremamente lirico e attutito nel loro tonalismo morbido e quasi vellutato con delle suadenti trasparenze: una colorazione crepuscolare che però non sconfina nel decadentismo a dimostrazione di una robustezza tecnica ed umana che è a fondamento della sua ricerca.