Vittorio Sgarbi

Poteva nascere in un'altra epoca,Danilo Curcelli,forse anche in una terra diversa.Un secolo prima, magari anche due, e non a Brescia, ne nella sua ammaliante e ammaliata Valle di Lozio, presso il borgo montano di Sucinva,adottato come proprio luogo d'elezione.Poteva nascere benissimo anche in area germanica, valicando quindi, il confine geografico e culturale delle Alpi, spartiacque storico fra due modi diversi di concepire la natura.Al di sotto di quel divisorio , la natura come specchio rasserenante della perfezione divina e fonte inesauribile di godimento, alla base della lettura umanistica che a luogo influenza l'intera cultura Europea, cercando la conciliazione spirituale fra antico e moderno, pagano e cristiano.Al di sopra di esso, invece la natura come specchio dell'incommensurabilità divina, fonte di contemplazione  riflessiva, anche inquietante  nel concepire il senso del sublime, alla base della lettura romantica che nell'ottocento diventa la preponderante, superando definitivamente il retaggio umanista che ancora condiziona non poco la stagione dell'illuminismo.Nella visione della natura umanistica, nessun dubbio sul fatto che l'uomo debba essere considerato al suo centro, secondo quanto stabilito dal volere divino, prevedendo per esso anche la facoltà di sottometterla, nell'intento di soddisfare i propri bisogni, sfruttando adeguatamente lo strumento della ragione.Nella visione romantica, il dubbio che i ruoli vadano riordinati è forte e immensa è la natura, come fosse dotata di spirito  autonomo, anche oscuro nei suoi intendimenti, per pensare di poterla soggiogare, e più che la ragione, sono i sensi, l'immaginazione, lo slancio dei sentimenti a poter farci stabilire un rapporto, di tipo evidentemente emotivo, con qualcosa che altrimenti risulterebbe troppo più grande di noi, nella convinzione che non il superamento, ma il suo assecondamento favorisca in noi lo sviluppo delle migliori virtù. Se gli umanisti intravedono nella natura la possibilità di soddisfare il piacere e il bisogno, i romantici vi cercano la purezza, il ritorno a uno stato di bontà primordiale in cui poter preservare l'anima dall'insana corruzione del mondo evoluto.Quale natura contemplata nelle pitture di Curcelli, umanistica o romantica, mediterranea o nordica?A vedere certi suoi paesaggi invernali o primaverili, dipinti con calligrafica perizia tecnica che sembra soffermarsi intenzionalmente in ogni ramo e foglia, in ogni bagliore di neve o luccichio radioso tra le frasche, paesaggi rigorosamente privi di presenza umana che distoglierebbero dall'immersione mistica nella totalità dell'elemento di natura in cui l'autore si lascia coinvolgere, come un druido, un sacerdote silvano farebbe nei confronti del suo dio panico, auspicando la nostra partecipazione al culto, saremmo portati a ritenerlo un perfetto romantico post litteram, discepolo ideale di Caspar David Friedrich.Certo,Curcelli non realizza solo dipinti da cavalletto, tutt'altro;si avrebbe un'idea limitativa della sua arte se non si considerassero le sue applicazioni le sue applicazioni en pleir air a Sucinva, come in quella fontana pubblica, con il fondo a cassone come in un lavatoio, sormontata, a sorvegliare sulle acque, dall'immagine di una ninfa alpestre con un bimbo appresso nudi e beati come natura vuole, che già sembrano evocare un momento successivo a Friedrich, il simbolismo di Arnold Bòcklin, che rappresenta, in qualche modo, la riconciliazione del nordismo romantico con il mito mediterraneo.E' vero, peraltro, che il Curcelli che rimane più impresso è comunque quello"neo-fridrichiano", per il quale ogni dipinto è un continuo rito di scoperta e riscoperta dell'oggetto contemplato, come un mantra, una preghiera ripetuta per inerzia, reazione istintiva a uno stesso stupore, ma che ogni volta trova la forza di cambiare le cadenze verbali, pur non mancando di esprimere le medesime sensazioni.Ogni raffigurazione diventa cosi , un atto di amore incondizionato, uno spontaneo riconoscimento di inferiorità  nei confronti dell'entità naturale, che non deprime, ma, anzi, nel rispetto del più ortodosso concetto del sublime, tempra lo spirito alla più nobile emulazione.Più ci si annulla, più ci si immedesima in ciò che si guarda, come se quei rami fossero nostri rami e la neve ci toccasse umida in superficie, come se quella luce venisse a scaldare la nostra rugiada, intrufolandosi benigna fra si sterpi di un castagneto.Più ci immedesima, più ci si sente parte di una stessa , unica anima, infinitamente più ampia delle povere umane.     Vittorio Sgarbi

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