Andrea Tagliaferri

Quando, ormai qualche mese fa, Elisa mi ha chiesto un’introduzione al catalogo delle sue opere dedicate a De André, la mia risposta iniziale, mentalmente, è stata negativa. Mi sono comunque preso del tempo per pensarci. I motivi principali del mio rifiuto erano due. Il primo, è che non credevo di comprendere il senso delle opere di Elisa, le consideravo difficili, inaccessibili. Secondo, De André è un cantautore troppo alto per me, abituato come sono ad ascoltare band dalla poetica scialba e certamente poco impegnata.

Tuttavia, dopo aver assistito in anteprima alla presentazione della mostra e alla spiegazione -una per una- delle opere e del loro significato, ho risposto in maniera affermativa e, questa volta, non mentalmente. Eccoci dunque qui.

 Da che parte partire? Partiamo da una data che fa da spartiacque, da punto di arrivo e di partenza. Questa data è l’11 gennaio 1999. A Livello mondiale, quell'anno è stato sicuramente segnato dal vaticinio: speranze che il terzo millennio potesse portare una cura per l’HIV, l’azzeramento del debito del terzo mondo, l’estensione dei diritti sociali; ma anche tanta paura per l’apocalisse, la fine del mondo e il Millennium Bug (nulla di tutto questo, a quesi venti anni di distanza, nel bene o nel male, è avvenuto). Il clima finanziario di quegli anni aveva appena subito uno shock da cui, peraltro, non si è ancora ripreso. La New Economy, col suo sapore di pixel, fibre ottiche e silicio, aveva portato la borsa americana al punto più alto di rendimento ma, a causa di un meccanismo innescato dalle borse asiatiche, iniziò una rapida e inesorabile discesa che, dalle stelle, in breve tempo, la condusse alle stalle. Il rumore dell’esplosione della bolla stordì un pò tutti, costringendo ad andare a tentoni. Lo stesso, certamente in maniera più indelebile per la crudeltà delle immagini trasmesse dalle televisioni, accadrà nella coscienza collettiva con l’attentato del settembre 2001, o coi fatti, avvenuti qualche mese prima, del G8 di Genova.

Ma torniamo all'11 gennaio 1999, data che segna la fine della vita del cantatore genovese e l’inizio, nella vita di Elisa Marianini, di una riflessione più profonda sulla sua poetica. Un cantautore, De André, che da sempre accompagna Elisa. È proprio di questo periodo, infatti, la prima opera che apre la mostra e questo catalogo. Si è davanti ad un dipinto diverso da tutti gli altri, dal titolo Ricordando Fabrizio (1999), ideato e prodotto dopo aver saputo della morte di De André.

 Il catalogo che avete tra le mani, copre un arco cronologico di quasi un ventennio. Sono qui elencate e spiegate in ordine di creazione le opere che Elisa ha dato alla luce con tecniche artigianali quali l’encausto e la malta. Elisa, con la sua pittura materica, sottolinea a reinterpreta i temi cari al cantautore: l’antimilitarismo, l’attenzione agli esclusi, agli oppressi, ai reietti, agli ultimi e ai diversi.

 Alla diversità, è dedicata la seconda opera di questo catalogo dal titolo, appunto, La diversità (2010) e “diversi”, come ad alcuni piace chiamarli, sono considerati anche i Rom, tema al centro dell’opera 20, il cui titolo è emblematico: A forza di esser vento. Dico che è emblematico poiché nell’opera emerge un movimento costante, una fluidità, una dinamicità e una compenetrazione di colori e forme e questo, a mio avviso, sottolinea, come fa l’odierna antropologia culturale, all’opposto di quello che continua a propinarci una becera retorica politica, che la fluidità e il movimento sono il tratto essenziale dell’umanità. Culture e razze non esistono come entità discrete, le culture sono persone che si muovono e s’incontrano. Il lavoro di decostruzione di queste due categorie è lento ma darà i suoi frutti. Il razzismo non è morto col passato, è ancora vivo e vegeto, e continua ad autogiustificarsi, come il sessismo, su legittimazioni biologiste. Un trucco semplice, legato alla confusione fra due termini, quello di natura e quello di cultura. Razza, fa pensare a qualcosa di naturale, e ciò che è naturale appare come non modificabile (un sorta di substrato) che legittima e riproduce una gerarchizzazione le cui conseguenze hanno sempre portato a dominio e subordinazione. Le razze non esistono, c’è solo una razza ed è quella umana, nella sua fluidità, nel suo movimento costante, nel suo esser vento.

 Ma torniamo ai temi centrali della poetica del cantautore genovese, anzi, al tema centrale, al perno attorno al quale si sviluppa tutto il resto: l’uomo. L’uomo e le sue debolezze, immerso nella caducità delle cose, nella mutevolezza dei suoi sentimenti, effimero come la vanità. Risuona la locuzione latina vanitas vanitatum et omnia vanitas nell'opera numero 12 di Elisa, dal titolo, appunto, Vanitas (2016), ispirata dalla canzone La morte del 1967.

Ecco l’umanesimo del cantautore nell’epoca in cui l’umanesimo è finito, nell’epoca della tecnica, in cui il soggetto della Storia non è più l’uomo ma appunto la tecnica, con la sua cinica ragione strumentale che impone di raggiungere il massimo dei fini con l’impiego minimo di mezzi, evitando così ogni ridondanza cara invece agli umanisti.

Umanesimo, dicevamo. Le opere 7, 25 e 26 (rispettivamente del 2011, 2018 e 2018) di questo catalogo, sono quelle a me più care: il loro titolo è Idillicamente opaco, dove l’opacità ha valore positivo, nasconde qualcosa, cela una verità; come celato è il vero titolo dell’opera (Elisa ci sa fare con gli anagrammi e il simbolismo). Infatti, è nell’anagramma di Idillicamente opaco che troviamo il vero titolo dell’opera e il senso di questa serie: Il risultato dell'anagramma è Il camaleonte di Pico.

Ma cos’è il camaleonte di Pico? Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), il più filosofo e il più colto degli umanisti fiorentini, di formazione neoplatonica, paragona l’uomo ad un camaleonte nel De hominis dignitate, un’opera intesa come Oratio, come prefazione alla discussione che questi intendeva avere coi grandi prelati di Roma all’apertura del congresso filosofico da lui organizzato nel 1487, in cui si sarebbero dovute discutere le sue novecento Conclusiones, contenute in un’opera programmatica dal titolo Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche. Tuttavia, il congresso non ebbe luogo a causa della condanna di alcune tesi da parte della Chiesa, l’Oratio non venne quindi presentata e apparve postuma. Il titolo con cui ora la conosciamo noi fu utilizzato per la prima volta nel 1504.

Nel De hominis dignitate, emerge l’unitarietà della domanda filosofica: cos’è l’uomo? qual è la sua essenza? L’uomo è la sua mente, ed è un grande miracolo, scrive Pico: magnum miraculum et admirandum animal. Il miracolo (forma sostantivata derivata dal verbo miror, che significa meravigliarsi), è un fatto contrario alle leggi della natura, è il prodotto di una potenza sovrannaturale. L’uomo è dunque un qualcosa di straordinario rispetto agli altri esseri. Tutti gli altri esseri hanno una natura fissa, immutabile, sono tutti posti in un ordine gerarchico determinato da Dio. L’uomo è stato invece creato per ultimo perché guardasse e ammirasse l’opera divina, e ha inoltre la possibilità di decidere di se stesso: può abbandonarsi agli istinti più ferini o innalzarsi alla divinità. Il tono di Pico, a mio parere, è tragico. L’uomo è possibilità, una possibilità mostruosa, fuori dall’ordine dell’universo. Pico sta forse esaltando l’uomo come centro dell’universo o come microcosmo? Ne sta esaltando la libertà? No, sta dicendo che l’uomo non ha una casa, che la sua libertà è un dramma, che la nostra esistenza è esodale, peregrinante. L’uomo, è il possibile: ha la possibilità di determinare la propria natura da un estremo a un altro, dall’essere meno di un animale a più di un angelo, è un qualcosa di indeterminabile tanto è ontologicamente dinamico e altalenante. Possiamo il divino, dice Pico, possiamo giungere al sapere assoluto grazie alle nostre capacità, senza aiuto di Dio, autonomamente, è tutto un meccanismo interno all’uomo, che quindi è un mostro libero. Sentite anche voi profumo di Averroismo? Non è questa la sede per discuterne..

Ma l’umanesimo di Pico non si pone in antitesi al cristianesimo. Questo lo si vede per l'attenzione che il filosofo riserva alla cabbala, considerata una sapienza per comprendere la natura e, soprattutto, per l'attenzione rivolta alla magia, strumento attraverso il quale la natura può essere dominata. Il sistema di valori è cristiano (contrapposto a quello greco): l'uomo è qui per dominare e sottomettere il creato.

 Questo ragionamento sulla vulnerabilità e la fragilità umana, mi conduce ad una serie di opere di Elisa che hanno come tema la debolezza umana. Mi riferisco alle opere dedicate all tetralogia del suicidio di cui fanno parte Il pozzo profondo, L’ultimo vecchio ponte, Ti regalerò una rosa e La voce della conchiglia (anni?). Elisa, vede nel suicidio non la voglia di morire, ma di rinascere. La sua prospettiva è ottimistica. Ottimistica è la visione di fondo che lei trasmette nei suoi quadri, in parte prendendo le distanze da De André, il quale è spesso pessimista nei riguardi e dell’uomo e della società.

Elisa ripone una grande fiducia nell’uomo e nelle sue capacità. Questo lo possiamo leggere fra le righe dell’opera numero 10, dal titolo L’ostinazione di Icaro (2012). Sappiamo tutti la storia di Icaro e quella che fu la sua fine, segnata dalla tracotanza e dall'ebrezza del volo. Elisa rilegge il mito: la vita è sì un labirinto, c’è sì il desiderio di andare oltre, di pensare con la propria testa, ma, contrariamente al mito, nell’opera di Elisa, Icaro tenta e poi supera l’impresa. Icaro, che può essere ognuno di noi, sicuramente impaurito (è quel mostro di cui parla Pico e di cui abbiamo parlato sopra?), si eleva sempre più in alto e si trasforma in un angelo perché è questo ciò che egli segretamente desiderava.

 Come avete sicuramente intuito, non mi sbagliavo nel pensare che le opere di Elisa fossero difficili come lo sono, in fondo, tutte le cose belle. Sono difficili perché sono un condensato di simbolismo, filosofia, storia ed esoterismo. A voi il compito ermeneutico, ma non spaventatevi, nelle pagine che seguono sarete guidati per mano.

Buona mostra e buona lettura.

Andrea Tagliaferri

Filosofo e scrittore

Venerdì 20 Luglio 2018