Caterina Leoni
“A..mare”
mostra personale
2000
Art Point Gallery Firenze
Con questa sua prima personale Elisabetta subito ci dichiara di volersi esprimere a 360 gradi, di avere un bisogno estremo di comunicare, e sembra aver trovato nell’arte un medium, anzi più mezzi espressivi: la pittura, la scultura e la poesia.
Questa mostra propone in modo originale un ambiente, creato in collaborazione con l’arch. Raffaele Zappalà, interprete esecutivo dell’installazione, per riprodurre una particolare dimensione, per suscitare delle emozioni, ma anche per stimolare la fantasia di chi si addentra, cercando qualcosa di Elisabetta e trovando qualcosa di sé. Percorso libero, che spinge l’osservatore a muoversi, alla ricerca di emozioni che si dis-velano.
Ad Elisabetta interessa indagare le possibilità dello spazio e del suono in rapporto al corpo umano, la natura come riflesso di un’armonia che appartiene anche all’uomo. Importante per la sua ricerca sul training corporeo è stata l’esperienza svolta nel laboratorio teatrale di Pontedera, ove ha potuto conoscere il teatro povero di Grotowski, fondato sul contatto fisico-emozionale dello spettatore con gli attori, che rompendo col tradizionale distanziamento rassicurante dello spettatore dalla vicenda rappresentata, ha voluto coinvolgerlo fisicamente e quindi anche sul piano emozionale.
La base di partenza dei suoi quadri polimaterici è un’idea, un riferimento alla natura, all’ambiente che la circonda e suscita emozioni forti… così è nata la ricerca sul mare, il grande contenitore di vita che copre buona parte del pianeta e che da sempre ha ispirato letterati ed artisti di vario genere.
Il mare nella letteratura e nell’arte ha suscitato, infatti, molteplici associazioni: c’è chi vi ha visto una rappresentazione dell’umanità per cui ciascuno è come un’onda, unica, ma inseparabile dal mare; c’è chi invece vi ha visto la profondità dell’inconscio, chi il potere della Natura sull’uomo, chi il rifugio per gli esiliati della terra, uomini soli ma padroni assoluti di se stessi in mare.
Nell’immaginario di Elisabetta il mare, la luce e le vele, coi loro effetti di trasparenza, rappresentano il processo di conoscenza che l’uomo-artista esercita per osservare in modo lenticolare la superficie viva delle cose, perciò le sue immagini nascono dalla stratificazione di vari elementi che sembrano autogenerarsi.
Elisabetta è una ragazza curiosa, sensibile, desiderosa di dire e lasciare un segno, colpire al livello emozionale, proponendo sotto forma di immagini i propri sentimenti elaborati, con particolare intensità il sentimento di amore.
Le paure, il dolore sono come superati dalla forza dell’amore, che si traduce in immagini di serenità, legate al pulsare della vita (forme che rievocano la crescita embrionale, il mare come metafora della maternità, liquido amniotico in cui siamo generati e protetti, nuclei di vita che si schiudono nell’atto della genesi); in una gamma cromatica vivace e di tonalità accese, in immagini di vita e movimento, l’onda che s’infrange sulla riva e che non a caso nella fantasia degli antichi Greci ispirò di una divinità, Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, nata appunto dalla spuma del Mar Mediterraneo.
Elisabetta coglie del mare le qualità che sorridono di più alla vita, non le interessa affondare negli abissi delle tempeste sottomarine, le considera necessarie perché si realizzi un ritmo molto più vasto, che possiamo toccare con mano. L’onda esemplifica bene questa continua ritmicità del divenire, somma dei momenti separati tra loro, ma poi fusi insieme. Elisabetta vuole piegare la materia sorda e inerte delle cosiddette arti plastiche, come il gesso, il mastice, i colori ecc. all’essenza ritmica della musica e della poesia.
Per un’arte ritmica non ci sono regole proporzionali che tengano, essa nasce da un’esigenza fisiologica prima che estetica, dal bisogno di proiettarsi al di fuori di sé in forme che traducano la vita, perciò dinamiche, pullulanti, germinanti, in crescita.
Anche là dove i supporti sono cosparsi in modo apparentemente caotico e casuale di frammenti di vetro, conchiglie, preziosi tasselli di un mosaico mai composto, le sue superfici stratificate non comunicano mai un senso di lacerazione, anzi lasciano che la luce cada colpendone la materia frantumata, creando una molteplicità di riflessi, un’irradiazione che si propaga dando l’impressione di un nucleo vivo che dilatandosi sia esploso, di un gorgo di vita che, incontenibile in una forma, si effonda.
Questa giovane artista sembra dirci che l’equilibrio dato dalla staticità è un bluff, è fasullo, come la nascita è un’irruzione nel mondo, così l’dea creativa, l’embrione formale che è all’origine dell’opera d’arte, s’impone, irrompe come un ritmo, poi si organizza in concetto, e infine si esprime. Appropriata mi sembra una frase di Gillo Dorfles: «la funzione dell’artista è, oggi come ieri, quella di insufflare vita nella morta materia, di spiritualizzare il materiale cieco e muto; di immettere la formatività entro una forma che era amorfa».