Filippo CACACE

Emanuele CIAVARRELLA in arte De Rè, si propone sulla scena dell’arte, già abbastanza affollata, con una sua dinamica tale da non confonderlo con la massa informe e ridondante, bensì con una sua collocazione.

Se Baudelaire sostiene: “Moltitudine, solitudine, termini uguali e convertibili per il poeta (pittore) attivo e fecondo. Chi non sa popolare la propria solitudine nemmeno sa essere solo in mezzo ad una folla affaccendata“ Emanuele contorna di simboliche attenzioni le sue figure in solitudine: palesi immagini dell’attesa, motivo pittorico che si veste di connotati poetici. Nel gioco di sguardi appare e scompare una apertura di natura psicologica tesa a scandire i più diversi momenti e le più vibranti onte della vita umana. C’è un’attesa che emerge metafisica fisicamente come tensione pronta a trattenere la luce e le ombre della costituzione formale, sia dei luoghi che degli stessi stati d’animo. La donna tra l’inquietudine enigmatica e malinconica, in realtà sembra sfuggire a quell’atteggiamento di chi tende a risolvere ogni realtà solo con l’io. Il suo è un osservatorio privilegiato di volti, scene quotidiane e drammi della nostra storia recente, periferia atipica adatta alla raffinata dignità che non si cala nel pietismo, piuttosto i luoghi ne determinano il viaggio esistenziale dentro quella ristretta realtà e podio, dal quale collocare il punto di osservazione per elevare il silenzioso canto di due occhi raccolti in un velo blu. CIAVARRELLA, credo, stia approdando alla narratività, nel senso che le sue tele tendono una dopo l’altra a costruire una storia di intimità e abbandoni, piccole storie quotidiane e intenzioni, che si intersecano e divergono, tornando ad intrecciarsi e a sovrapporsi, a fondersi come rigagnoli di una torbida pozza: la pozza della condivisione umana.