Luigi Caramiello
Il paradiso dell’arte e della vita.
Cos’è l’arte, signore? E’ la natura concentrata. Balzac
L’espressione graffiti, oggi, indica, in genere, quelle testimonianze di aerosol-art, che arredano taluni squarci urbanistici, dal centro alle periferie del mondo, rendendoli forse un po’ meno desolati, meno anonimi. E non sono pochi i muri che portano i segni vistosi del passaggio di una qualche individualità, fieramente protesa a rivendicare il suo diritto a manifestarsi, a esistere, portando fuori la propria gioia o la propria rabbia, in ogni caso “firmando” il proprio racconto esistenziale.
Forse non è un caso che la gioventù metropolitana marginale e creativa delle frontiere hip-hop abbia scelto questo codice privilegiato. In fondo, come Enzo Marino sa bene, il graffito è, sin dalle origini, “Mito, Eros, Magia”, cioè materia integralmente e profondamente umana. Edgar Morin ha chiarito bene che quando nei siti paleoetnologici si trovano quegli utensili, segnali dell’avvenuto passaggio del primate alla condizione di homo, il più delle volte si ritrovano anche i rituali di sepoltura e i graffiti dipinti sulle pareti delle grotte (1). E’ tipico dell’uomo, che è tale anche perché ha scoperto la morte e comincia a fabbricare attrezzature magiche e spirituali per sconfiggerla: il sacro, la droga, l’arte (2).
E i grandi animali parietali del paleolitico sono lì a ritualizzare non solo l’auspicio di una caccia fruttuosa, ma anche a dirci delle nostra possibilità di governare il caos, di dare un senso al mondo, di fabbricare un ordine. Sono insieme vittime e divinità. Come al solito. Dispositivi avvezzi a interpretare gli interrogativi più profondi e fornire risposte.
Anche di questo Enzo Marino, nel suo percorso creativo, ha sempre mostrato di avere piena consapevolezza.
Ma, l’artista ha una sua maniera di interpretare i dilemmi antichi dell’uomo. Il corpo e la sessualità, l’estetica e la magia: natura e cultura, sono i territori di un sentiero espressivo e dialettico che Marino percorre per lunghi tratti. Si tratta di un itinerario che bisogna seguire con attenzione, di un percorso creativo che va indagato, almeno nelle sue tappe essenziali, se si vuole veramente cogliere il senso e il valore delle soluzioni cui l’artista perviene oggi, apportando così il suo ulteriore contributo alla vicenda dell’arte.
Marino di certo, non disdegna il dialogo con la dimensione storica concreta della pittura, e sul suo sentiero creativo sono disseminate moltissime tracce della sua ricerca, delle sue infatuazioni come dei suoi amori. Il suo universo estetico rivela più di un indizio delle passioni nutrite dall’artista per certe “tradizioni”, per certe avanguardie, d’oltralpe, futuriste, mitteleuropee. Ma forse l’influsso che si manifesta più intensamente è quello di una classicità essoterica, popolare persino, che è fra le matrici più tipiche dell’immaginario collettivo (3), sempre costellato di visioni suggestive, di “fantasie”, sensuali o inquietanti, “segrete” oppure o-scene.
La teoria dei falli, eretti, a riposo, camuffati, che punteggiano il suo itinerario estetico è terribilmente debitrice di quel priapismo che, dall’ellesponto, passando per la Magna Grecia, viene incorporato nel culto delle italiche genti, fino a divenire romana simbologia domestica, icona popolare. E così il grembo femminile, che si rivela in tutte le sue possibili messe in scena: avido e casto, muliebre e sensuale, scoperto o mascherato, in ogni modo è lì, sempre e spudoratamente a narrare, “l’origine del mondo”.
Il fatto è che il pensiero di Marino è irrimediabilmente dualistico. Ma, quando il maschile e il femminile si propongono quali “monoliti”, in chiave rigidamente idealtipica, come avviene in certi suoi lavori di fine millennio, allora i caratteri della relazione non possono che proporsi in termini brutalmente stereotipati: il cacciatore, con le sue armi, sovrasta la preda sconfitta.
Certo, la silouette dell’antica scena venatoria si propone sommessamente, come una “decorazione”, timida e tenue, eppure, a guardarla con più attenzione si scopre la presenza indiziariamente potente, di una sensibilità che è già quella che, oggi, si propone compiutamente con i “graffi sull’eden”.
Per il resto è ancora il trionfo di una dialettica dura e senza ambiguità. Se il maschile e il femminile abdicano alla propria differenza, se sublimano la loro rispettiva irriducibile natura in un’improbabile territorio omogeneo e omologante dello spettacolo e della conoscenza, dell’estetica e della comunicazione, l’esito non può che essere una distorta ibridazione di stampo mediatico, manipolata, ambigua, perversa. Forse che, ancora una volta, il sonno della Ragione genera mostri? E questo che l’artista vuol dirci? Non credo. Marino non è solo l’ermeneuta di una tragedia, il testimone di un dramma. L’artista è sinceramente portatore di un “punto di vista”, di un’opinione. Il suo luogo di osservazione non è riconducibile al pluralismo cubista delle angolature, all’ambiguità molteplice, infinita, di traiettorie dello sguardo. La sua “prospettiva”, al contrario, è chiara, definita, leggibile, a tratti persino ortogonale.
Egli interpreta l’avventura dell’uomo concentrando il suo sguardo sui congegni simbolici della produzione e della comunicazione, contemplando gli utensili della tecnica e della cultura: la ruota, la chitarra, la razionalità e le passioni, sapiens e demens che convivono e coesistono, per forza e per amore.
Alla seconda metà degli anni ’90 l’attenzione di Marino verso le “macchine” dell’uomo si accentua. L’umano è territorio sociale, dialogico, ma dentro la relazione irrimediabilmente si annida l’inganno. Agamennone è solo un possibile reperto, ma é l’umano in generale a fondarsi sulla dimensione della maschera. Non è solo l’attore a invocare la mimesi, è il soggetto ad averne una irriducibile necessità cosmetica, così come ha bisogno del cibo, della musica, della fede. La convenzione, la codifica, il travestimento, sono le premesse di un’ermeneutica infinita, senza la quale non può esistere dialogo, in alcun senso.
E l’errore, la decodifica aberrante, il malinteso, dalla scena biologica al sociale, sono le condizioni irrinunciabili del mutamento, il caso e la necessità del divenire, la materia prima dell’evoluzione.
L’Istituzione non ha mai saldato il suo debito col mito, e l’invenzione, la scoperta, devono quasi sempre qualcosa al gioco, Enzo Marino lo racconta alla sua maniera. Non è importante chiedersi quanto velocemente Pegaso galoppa sui sentieri del cosmo, l’importante è sapere che quella fantasia ha sciolto le briglie a una progressione concreta, materiale, tecnica, un’avventura che dalla biga giunge fino alla Formula uno, così come il sogno di Icaro ha riscaldato per secoli l’energia della “macchina desiderante”, finché questa non è riuscita a fabbricare il jet. E l’artista coglie acutamente nell’origine del conio, un momento decisivo. Si tratta di leggere nella moneta un livello alto di razionalizzazione, l’astrazione che si materializza, una frontiera filosofica avanzata, l’idea della totale traducibilità, della generale equivalenza, che si rivelano, vorrei dire che si trasfigurano nel danaro. Ma è consapevole l’artista che quelle “citazioni” ci costringono, come è giusto, anche a retrodatare la benjaminiana riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (4) a qualche migliaio di anni prima?
Come che sia, Enzo Marino canta l’evoluzione tecnica e culturale. Una frontiera perenne, una sfida, una tensione, il territorio di una convergenza o di una collisione fra pragmatismo e senso, fra meccanismo e valori. Per questo, nei suoi graffiti possono convivere e coesistere, non so se armonicamente, ma non è importante, il pentagramma e gli ingranaggi, le crociate e la belle époque, macchine da guerra e simbologie cristiane, pacifiste, topolino e l’anarchia, il formalismo egizio, Toulose Lautrec e la Coca Cola. E’ semplicemente la vita, cioè l’arte e forse qualcosa di più.
E’ il percorso della comunità umana, delineato a squarci. Purtroppo, é una vicenda dura, terribile: il mattino dell’uomo è anche l’alba dell’aggressività intraspecifica, sanguinaria, omicida, è la genesi dell’agonismo, della competizione, della guerra.
Agli archi e alle frecce si sostituiscono armi sempre più sofisticate e minacciose, ma una cosa è certa, l’umanità non è riuscita a espungere dal suo seno la violenza. E chissà se vi riuscirà mai. Certo, di passi avanti ne sono stati compiuti, e tanti, ma per troppi aspetti gli uomini sono ancora quelli rappresentati dalle meravigliose pitture rupestri centroafricane (5), con le quali le graffisculture di Marino intrattengono un dialogo intenso, che mostrano la guerra delle origini, il conflitto fra bande, la dimensione bellica primordiale (6).
Poi verranno simulazioni e regole, l’agonismo cruento si sublimerà nello sport, la caccia diverrà allevamento, la guerra si tramuterà in gioco politico, ma tutto resterà in qualche modo connesso alla sua turbinosa origine. Perché tutto questo? Difficile da dirsi, forse Dio non gioca a dadi, ma gli uomini sì, perché hanno il gusto e la necessità della sfida, perché vogliono superarsi, perché hanno bisogno di correre a velocità sempre più alta. E le macchine, tutte, fisiche e immaginarie, sono sempre e contemporaneamente, appagamento del bisogno materiale e risposta a un desiderio onirico, attrezzature produttive e simbologie di status, il velocipede dell’atleta, come il compasso dell’architetto palladiano.
Ed è necessario parlare dell’oro, che certo qui non serve a dislocare fuori dal mondo materiale l’immagine sacra, come era stato per un mondo culturale il quale sublimava così la residualità di quella furia iconoclasta che l’aveva attraversato. No, l’oro di Marino è attrezzatura classicamente mondana, e tragicamente moderna, segna un universo antropologico, un mondo reale di ambizioni, di avidità, di brama di potere. Eppure, per quanti travestimenti possiamo adottare, per quante maschere possiamo indossare, per quanti gioielli possiamo sfoggiare, siamo stati tutti espulsi dal grembo di una donna. Forse, un giorno, verremo fabbricati da qualche dispositivo ben programmato. Forse è inevitabile, persino giusto, che dopo il declino del padre si assista anche alla parabola discendente della madre.
Il replicante, il cyborg, sono, con ogni probabilità, già nel nostro orizzonte. Ma per ora, e forse per un po’ di tempo ancora, la nostra memoria, il nostro immaginario, la nostra nostalgia, ci ricondurranno ancora al grembo materno.
A quella dimensione del femminile che Enzo Marino ha splendidamente rappresentato, infinite volte. A quel corpo produttivo, meraviglioso e sublime a quella soggettività sensuale e lirica, metafisica e materica, che in tutte le possibili versioni, quando è nuda, vestita di stracci, rilucente di diamanti e di oro, “sempre e similmente vomita figli e mestruo, ingiurie e dolci parole” (7).
L’artista guida il nostro pensiero in direzione di quella Dea madre, che fu al centro di tutta l’espressività spirituale del mondo primigenio (8), prima che la uccidessero per sostituirla con un Padreterno implacabile e spietato. Si tratta forse del momento più alto della poetica figurativa di Enzo Marino, ma é una soglia critica, che anticipa, prefigura e prepara una svolta.
Mi sia concesso di semplificare: per lunghi anni, la sua attenzione prioritaria si é rivolta al senso, mentre l’immagine é puramente un veicolo, un medium di trasmissione di un discorso, di un valore, di un concetto. Ed ecco che, d’un tratto, Marino si accorge del segno, scopre, persino con stupore, vorrei dire infantile, una dimensione creativa nella quale il suo interesse può rivolgersi finalmente, liberamente, al codice. L’attenzione al “messaggio”, naturalmente, non scompare, ma oggi sembra essere molto di più un’attrezzatura, che gli serve per interrogare ancora più a fondo il sistema della comunicazione.
E qui Enzo Marino fa una scommessa veramente coraggiosa. La tradizione classica dell’arte si è dipanata, pressoché interamente, attorno alla ricerca della strumentazione, più efficace, per rendere la percezione (9) della consistenza, della massa, della profondità, della volumetria, sul piano, cioè, su come riuscire a dare l’impressione delle tre dimensioni, utilizzandone due. Enzo Marino tenta la sfida inversa, quella di usare la materia solida per evocare puramente un’idea che è prima di tutto segno, immagine. Insomma, utilizza un dispositivo a tre dimensioni per richiamare la realtà di una rappresentazione a cui ne basterebbero in fondo soltanto due.
Per questo, oggi, l’artista realizza manufatti e li propone come “writing”, fabbrica sculture e ce le presenta come graffiti. E’ la sua tag attuale. E’ un gioco, certo, ma può avere un profondissimo significato. Marino sa bene che il graffito oggi non è più riposto negli anfratti rituali, l’artista è consapevole che non è più una presenza parietale “segreta” sacralizzata nel buio di una grotta. Il graffito è da tempo uscito fuori dalla caverna. Si é definitivamente secolarizzato, ed oggi é pienamente dislocato sul terreno globale di un dialogo col mondo.
I “Graffi sull’Eden” sono, certamente, percorsi di un’arte “antropologica” (10), come l’avrebbe definita il compianto Josef Beuys, di un’arte, cioè, che mostra integralmente la sua cifra, la sua fibra di tela iuta “naturale”, la sua vocazione botanica, che dialoga, cioè, con le infinite manifestazioni di un’espressività biologica, che interagisce con una selvatichezza o una “coltura”, che non ha nulla da invidiare (anche perché è per molti aspetti la stessa cosa) alla “cultura”, nel senso spesso goffamente paludato che attribuiamo al concetto. Ma i graffi sull’eden sono anche le tracce che lasciamo su quell’autentico paradiso che accoglie il nostro vissuto, sull’eden della nostra contemporaneità, sul nostro mondo, in fondo il migliore fra tutti i mondi possibili. In ogni caso l’unico che abbiamo.
Non sono, ovviamente, ignaro, dei guasti, delle contraddizioni, degli orrori del tempo, e certo non lo è neppure l’artista, ma, in ogni caso, mi convince e mi piace che Marino usi la metafora dell’Eden. L’artista vuole dirci forse che c’è stato un equivoco, che in realtà non siamo stati mai scacciati dal paradiso? Vuole dirci che il migliore dei mondi possibili è proprio il nostro bellissimo pianeta, l’ecumene, il territorio che abitiamo, la terra-patria (11), lo spazio controverso e terribile dell’esistenza, la dimensione radicalmente imperfetta della vita, l’habitat dell’esperienza, del vissuto? Non possiamo escluderlo. E però, dobbiamo saperlo, oltre i confini di un’oasi meravigliosa, grondante di vita, immensamente ricca di piante, di alberi, di frutti, fuori dal giardino fiorito, aldilà di “questo” spazio sistemico, vi è ancora troppa irrazionalità, nichilismo, barbarie.
Stavolta non è una metafora, si tratta, purtroppo, di minacce che esistono realmente, con il loro carico di violenza negatrice dell’arte, dell’etica e dell’estetica.
Il pericolo è reale. Gli assassini della Dea sono di nuovo in campo. Marino lo sa, l’aurora della madre che ci propone stavolta somiglia troppo a quel fantoccio della “vecchia” che nei falò carnevaleschi viene ancora bruciato per evocare (celebrare?) l’olocausto della strega, della civiltà, della cultura, della libertà, dell’amore. Resteremo immoti a contemplare il gesto “banale” di chi vuole accendere di nuovo il rogo? Dobbiamo giurarlo: non permetteremo che accada mai più. Anche questo è arte, e Marino fa bene a ricordarcelo.
LUIGI CARAMIELLO
Docente di Sociologia dell’Arte e della Letteratura
Dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
Note
1) Morin E.,Il paradigma perduto, Bompiani, Milano, 1974.
2) Caramiello L., La droga della modernità, UTET libreria, Torino, 2003.
3) Abruzzese A.., La grande scimmia, Napoleone, Roma, 1979.
4) Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi,
Torino, 1966.
5) Adam L., Arte primitiva, Mondadori, Milano, 1964.
6) Moffa C., L’africa alla periferia della storia, Guida, Napoli, 1993.
7) Caramiello L., Da amore a zapping, Pironti, Napoli, p. 28.
8) Gimbutas M., Il linguaggio della dea, Longanesi, Milano, 1991
9) Sauvageot A., Sguardi e saperi, Armando, Roma, 2000.
10) Caramiello L., Il medium nucleare, Edizioni Lavoro, Roma, 1987, p. 119.
11) Morin E., Terra patria, Raffaello Cortina, Milano, 1984.