Ivan Caccavale
Testo critico per il Maestro Franca Fabrizio
Se si dovesse assegnare una forma al repertorio artistico di Franca Fabrizio, questo sarebbe sicuramente una parabola i cui punti corrispondono alle sue diverse esperienze, dall’infanzia ad oggi. Un quadro complesso, dunque, all’interno del quale la padronanza dei vari strumenti – il pennello, la spatola, la tecnica mista – corrisponde a progressive maturazioni stilistiche, alla luce di una inusitata capacità di rinnovamento, dettata dalla sua innata curiositas.
La tensione più feconda nell’universo della Nostra deriva da una sollecitudine, da un progetto - da una cura, in sostanza - che scaturisce da una vita vissuta coltivando, orizzonte nello sguardo, un senso. È così che dietro il suo bagaglio esistenziale fa capolino la saggezza serena, il brìo, l’entusiasmo per la realtà, quella tangibile e quella celata; oltre l’informazione sta invece l’affezione per la conoscenza; dietro ogni suo progetto, l’amore.
Come un magma incandescente la creatività del Maestro investe e ingloba ogni cosa su cui si cade la sua attenzione: ciò la porta ad inserire oggetti desunti dal quotidiano nel gesso, sulla scia dell’Arte Povera, in maniera giocosa, seppur l’autrice sia, ad onor del vero, foriera di contenuti elevati. Come un mare diversamente increspato, la sua fantasia ora culla ora agita i cavalli e le imbarcazioni che solcano le sue tele.
Questo filone risulta intriso di diverse atmosfere, tutte riunite sotto l’egida di una evidente componente psicologica/introspettiva: onirismo, esistenzialismo, espressionismo, simbolismo e primitivismo.
Sorprende infatti la freschezza, l’immediatezza di certe figure equine, che si animano a partire da un tratto semplificato quanto incisivo, sintomatico di una produzione non adulterata, piena di fiducia nei riguardi delle proprie capacità.
Si segnalano delle tangenze con le nebulose di Chagall, responsabili di quell’effetto trasognato, e con talune tele di Bruno Rovesti, contemporaneo di Ligabue e non giustamente tributato.
La succitata sintesi, tuttavia, non è da amputarsi ad una presunta ignoranza dell’impianto prospettico e delle sue regole: al contrario, le licenze poetiche della Fabrizio sono una dichiarata manifestazione di libertà, di insofferenza al preesistente, all’ordinario, una ribellione condotta nel suo atelier, luogo della mente all’interno del quale al silenzio riflessivo fa da contraltare un vigore cromatico espressivo, che traccia un moto ondivago. D’altronde i dotti riferimenti succitati alle correnti del passato lasciano intendere quanto, invece, ella non sia a digiuno di storia dell’arte. In tal senso, l’esecutrice non è dissimile da uno studente di filosofia che studia il pensiero altrui per maturarne uno personale.
Tra cieli e acque, a volte indistinti, l’artista dipinge illuminata da un terzo occhio grazie al quale riesce a trasportarsi e a trasportare in mondi interiori, sostenuta da una vena lirica in cui la tavolozza obbedisce incantevolmente all’emozione e alle invenzioni del suo ingegno.
Indubbio è il dato narrativo, descrittivo ed esplicativo della sua arte; in taluni casi il reale risulta legato a doppio filo all’irreale, senza soluzione di continuità. Ecco quindi le vette delle montagne valdostane – ove ha stabilito da tempo la sua residenza – profilare paesaggi di sentore fantasy riconoscibili da coloro i quali sanno individuarli nella propria psiche. Non mancano tuttavia concessioni, virate verso un maggiore naturalismo, come visibile nei manufatti a spatola cui da poco si sta dedicando.
Ivan Caccavale
Curatore e critico d’arte