Umberto G. Tessari | Verona 2001
Da sempre la pittura di Gilberto Colzato si attua nel contesto di logiche diaframmature luminose, rilevando strani intarsi di flussi in cui il suo autore determina le coordinate necessarie alla corretta lettura finale delle opere. Colzato ama, anzitutto, il paesaggio; non un tipo di paesaggio, o vedutismo, generico, ma sentito o subito come ambiente, luogo il più opportuno per la rappresentazione iconica delle sue composizioni; cerca, cioè, nel taglio visivo, scenografie semplificate, in grado di sostenere il testo pittorico come fossero fondali sui quali si disegna il profilo silenzioso delle “cose” descritte. E tra spazio e le cose che lo caratterizzano, crea stabili equilibri compositivi. Nel repertorio di Colzato compare anche la figura umana. Nel dipingere le “sue” donne, l’artista cerca rifugi verginali in cui custodire il segreto di quella fiaba dell’eterna giovinezza, dove il timbro alto della ricerca poetica sconfina nell’indefinito di silenzi sempre più fragili, rispettosi di tutto, che rendono indifesa l’innocenza propria dell’arte. Colzato non ha bisogno di interventi concettuali o filosofici per comunicare col pubblico; affida alla lunga esperienza di mestiere l’opportunità di utilizzare di volta in volta, confini dialettici ben precisi e circostanziati. I suoi dipinti più significativi sono icone di un viaggio pur fantasioso, ma che non vuole avere capolinea condizionanti, né apparentamenti settoriali di dipendenza. Un grande bisogno di tenerezza pervade le sue opere; allora la luce, quella dei colori, non nasconde più segreti di rifrazione, né denuncia quadrilateri di sequenze dinamiche; si trasforma magicamente in luce dell’anima, luce della coscienza: caleidoscopio di valori culturali inalienabili, che aggettivano, qualificandolo, il prodotto artistico delle immagini.