Gianfranco Bartalotta
LA RICERCA POLIMATERICA DI GIÒ CASCONE
“Da bambino – scrive Giò Cascone – costruivo macchine, carriole, chitarre, burattini, i miei giochi, le mie creature, con il legno di scarto dell'attività di mio padre: il falegname. A volte con materiali di scarto, trovati per strada, legnetti, fili di ferro, cartone. Mi piaceva molto, mi riempiva l'esistenza di quella materia”. È forse qui la genesi dell'ispirazione dell'artista calabrese, tra il fresco profumo del legno tagliato, la colla che cattura la segatura volante intrisa di arcani raggi di sole, i chiodi sparsi qua e là come stanchi guerrieri del nulla. Una pittura polimaterica (colore, trucioli di legno, cortecce di alberi, scheletro di palette dei fichi d'india, schede di computer, ferro, stoffa, plastica, frammenti di reti...) vissuta con emozione, in cui l'essenza invisibile della materia viene svelata (epifania dell'oggetto) all'interno del costrutto estetico, punto d'incontro con il soggetto, esplicazione visiva di un pensiero o un sentimento, scenario dello sguardo. L'espressione materica diviene in Cascone ruvida e aspra e con volumi cangianti in relazione al taglio e all'intensità della luce, l'opera d'arte (che per Bergson è il punto d'incontro tra mente e materia) un luogo della memoria, una categoria del pensiero e del ricordo. “Un mondo che possa essere spiegato sia pure con cattive ragioni – scrive Camus nel Mito di Sisifo - è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l'uomo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta e della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l'uomo e la sua vita, fra l'autore e la sua scena, è proprio il senso dell'assurdo”. Uno dei problemi dell'artista del Novecento è dunque quello di riuscire a dare una forma al caos del mondo. E proprio questo Cascone pone in “essere” nelle sue opere: l'enigma della vita, la scomparsa dell'uomo, la degradazione della natura, la solitudine e l'incomunicabilità, il senso di malinconia per la perdita di valori e sentimenti. Human Synthesis è l'emblema di questa ricerca dell'artista calabrese, in esso viene rappresentato un mondo che ha smarrito la sua umanità, un magma caotico (pur nella razionalità della composizione) in cui gli oggetti, realistici e casualmente accostati, sono residui del tempo, ricordo delle attività umane e privi della loro funzionalità: le scale non servono per salire o scendere, le chiavi non aprono o chiudono porte, armadi o cassetti. Sono simboli della sospensione dell’azione, espressione della loro inessenzialità. È la scomparsa dell'umano (esausto o degradato) che talvolta balena come un ectoplasma grazie alla luce “radente o soffusa” che fa immaginare palazzi, chiese o croci cimiteriali nel crepuscolo della trascendenza. Dendriti catarifrangenti, labirintica e indefinita zona della mente che, nell'antropomorfizzazione dei segni, suggerisce qualche presenza di vita. Gli oggetti sono ricordi in grumi, organizzati dall'artista con un rigore geometrico che ne accentua il nonsense. Stesso discorso in Libero, un’opera in cui è raffigurata una città con presenze robotiche che tentano di liberarsi dall’involucro metallico per riumanizzare le proprie sagome. Personaggi titanici che cercano di uscire dalle macerie di una città oscura per aggrapparsi a una forma di luce. Ma la libertà è solo un’illusione e l’immagine - Disillusione - di un uomo pensoso (seduto su una pila di libri che interseca in perpendicolare una struttura libresca nello stile dell’espressionismo astratto) non è rassicurante in quanto emblema della sconfitta a cui neppure la cultura è di conforto. Un Pierrot lunare tra desolati soli albini incapaci di illuminare i sogni. Un’opera esteticamente raffinata sorretta da una forza espressiva che riscatta la speranza semanticamente negata. In Luce su in paese i buchi neri non riescono invece a turbare la serenità della comunità dormiente così come ne Il vecchio albero, luogo magico e fiabesco, nelle cui radici si immaginano invisibili elfi nati dalla fantasia dell’artista. Il borgo ricorda, nella verticalità del risveglio estivo e nella quiete dell’atmosfera, il clima di Rio Bo di Palazzeschi (in Luce su in paese le morbide linee curve delle case suggeriscono l’abbandono del riposo notturno). Molto significativa la tela dedicata a Schiele (Frammenti di vita), dalle forme stilizzate, in cui la tenerezza dell’abbraccio permea di sensualità il bosco circostante. In Tripudio e ne La ballata, entrambi dedicati a Tim Burton, acrobati, ballerini e personaggi eccentrici riproducono la dimensione onirica dei film del regista statunitense. Sugli stessi toni cromatici Don Chisciotte dove lo stralunato eroe, con un cappello collodiano (Pinocchio), si accinge a lanciarsi su mulini a vento con le pale irretite da sacchi. Molto interessante è Dannati che mostra tre figure in piedi, con le braccia protese verso il cielo in cerca di salvezza, ma impossibilitati a farlo in quanto chiusi in gironi circolari pronti a sprofondarli nelle fiamme. La ricerca dell’artista è continua come si evince nelle due opere Fiori d’inverno e Fiori di primavera, quasi tridimensionali per la corposità dei materiali a più livelli, oltre il liscio per la “forza dei tratti ruvidi e scabrosi”, come spiega lo stesso artista. E ancora gli oli su tela (anch’essi polimaterici), dal grande occhio piangente di Oltre la siepe trasformato in un canto materico a … di notte, un dipinto di pregio che propone arie sognanti che si liberano come musica nello scenario rappresentato (si pensi alla pittura musicalista di Kupka e Čiurlionis); i colori accostati come in una partitura destano in chi li osserva una sensazione di placida armonia. Quasi un fotogramma del cinema neorealista (Il cammino della speranza di Germi) o del cinema sovietico degli anni Trenta (La terra di Dovženko) è La fuga dove le figure umane – la cui evanescenza esprime l’universalità del dolore di chi lascia la propria terra – ricordano per analogia estetica ed emotiva la pittura di Fattori o di Silvestro Lega. Un esercizio di stile con una capacità di controllo dei propri mezzi espressivi è Il Toro, in cui trapela la divina irruenza dello splendido e fiero animale.
Malinconia mostra invece la tristezza della perdita dell’amore, il cuore è lontano e la solitudine ha per compagnia solo la lunga ombra della sera, mentre in Lo spaventapasseri innamorato, il delicato fantoccio dei campi prova ad afferrare invano il suo amore in fuga: una farfalla, l’essere più effimero della terra. Fragile, ma capace di sconvolgere i sistemi costituiti (Teoria del Caos) tra cui quello dell’amore. Una ricerca originale questa di Cascone che talvolta paralizza l’azione in una staticità temporale che si rivitalizza con l’uso ingegnoso dei colori e dei materiali, dai quali emergono i sentimenti più profondi. “Non dipingo le cose - scriveva Franz Kline - ma i sentimenti che essi suscitano in me”. L’artista calabrese è interessato alle emozioni fondamentali che, attraverso i suoi quadri, vuole trasmettere anche alle generazioni future. Ma forse il pensiero più vicino all’estetica di Cascone è quello di Harold Rosenberg che definisce l’atto artistico inseparabile dalla biografia di chi lo realizza, un “momento nella miscela adulterata della sua vita”. Un “istante” che diviene emblema della condizione umana nel (vano) tentativo di svelare il senso della vita.
GIANFRANCO BARTALOTTA - Scienze della Formazione – Università Roma Tre