I RACCONTI DEL CAMINO
Giosuè Cino Eugenio Cino
I RACCONTI DEL CAMINO
Dedicato a chi non ha il camino…ma vorrebbe averlo. G. & E
Premessa
Ad avercelo il camino!
Perché ormai quasi nessuna casa lo possiede. Un tempo la casa veniva costruita intorno al camino, perché è intorno al camino che si trovava la famiglia dopo una giornata di lavoro.
Dopo cena, si intrecciavano i resoconti della giornata appena trascorsa, ognuno diceva la sua, magari si leggeva un racconto o si riportava una storia sentita al mattino.
Dopo si andava a letto, noi bambini a fantasticare su ciò che si era sentito, gli adulti a pensare e ad approntare le fatiche del giorno dopo.
Questa che vi sto dicendo non è una novella ma è la coda del vivere contadino di un tempo di cui noi autori di questo libretto siamo stati testimoni.
Ora tutto è cambiato!
Ora, chi ha il camino, non ha la voglia di accenderlo, anche perché è diventato solo un pezzo di arredamento da non usare perché sporca e fa fumo.
Chi ne ha voglia non trova il tempo, presi come siamo da mille incombenze “che non possono essere rimandate” quasi ci allungassero la vita, quasi che questo correre frenetico, migliorasse la qualità delle nostre relazioni.
Non c’è più tempo per godere di quegli attimi di compagnia che solo la fiamma di un focolare sa dare.
“Ad avercelo il camino”, vuol avere un duplice significato: il rimpianto di ciò che non è più, e questo vale per quelli che come noi sono stati testimoni delle serate intorno al camino, ma ha anche, cosa per noi più importante, l’esortazione per i più giovani a lasciare da parte per qualche momento telefonini, smartphone, tablet, play station ecc… a trovare quegli spazi per fantasticare o per riflettere che solo la lettura ha il privilegio di offrire.
Ad avercelo il camino!
Ecco, qui si inseriscono i nostri racconti brevi che vogliono essere l’occasione per riappropriarsi di quegli spazi che tanto fanno bene allo spirito. Abbiamo stampato in un piccolo formato in modo da facilitarne l’uso al lettore.
I racconti sono volutamente brevi, come breve è il tempo che oggi abbiamo per la lettura. Si leggono d’un fiato, in cinque minuti, nella pausa pranzo, in treno prima di arrivare a lavoro o per strada in attesa del tram.
Ma se è breve il tempo per la lettura, non è quantificabile né collocabile nel tempo la riflessione personale che ogni lettore potrà fare.
La riflessione va in automatico in maniera inconscia, non ha tempo e non ha bisogno del camino.
Gli autori
AVEVO CHIESTO UN CAFFÈ D…...
E’ veramente brutto sognare di precipitare. Somiglia a quando sei sulle montagne russe, arrivi nel punto più alto e via a capofitto, ma… è molto più brutto.
Senti il cuore battere all’impazzata e lo stomaco che ti arriva in gola, quasi volesse uscire dalla bocca come un urto di vomito irrefrenabile.
Poi ti svegli, apri gli occhi, ti tiri su di scatto, e ansimando tutto sudato, maledici quello che hai mangiato a cena con gli amici e ti penti soprattutto per quello che hai bevuto. Fai un bel sospiro, ti aggiusti il guanciale e ti riaddormenti ascoltando il cuore che batte sempre forte.
Ma io non stavo sognando, e quando ho aperto gli occhi non vedevo niente, non capivo dove fosse il sopra o il sotto, stavo semplicemente precipitando da non so dove verso il non so dove. Sentivo solo il cuore andare a mille, la bocca impastata da uno strano sapore di caffè, nausea ed una gran voglia di vomitare.
La caduta non durò molto, caddi di spalla ed un dolore lancinante al braccio mi fece fare una smorfia di dolore. Aprii gli occhi per cercare di vedere dove fossi, ma era buio pesto, nessuna luce, neanche un barlume che potesse aiutarmi a capire dove ero. Provai ad aprire la bocca, nel tentativo di urlare il mio dolore, ma il grido mi morì in gola e l’unica sensazione che sentii fu uno strano sapore di caffè.
Ormai sveglio, cercai di mettermi in piedi, ma non riuscivo a muovere neanche un muscolo, ero come paralizzato non capivo che posizione avevo nello spazio, non avevo riferimenti che mi indicassero dove ero.
Un po’ per la spalla che mi doleva, un po’ per il buio e soprattutto per l’impossibilità di muovermi, rimasi fermo a pensare…
Forse ero morto…di una di quelle morti fulminee che arrivano quando meno te lo aspetti, quando sei a casa tranquillo a leggere o a farti quattro risate con gli amici. Sensazioni di morte che ti risucchiano in un vortice senza fine dove non esiste un inizio, un sopra e un sotto. Mi doleva la spalla sinistra, era un dolore reale, ne ero certo, quindi scartai questa lugubre ipotesi.
Forse ero diventato cieco e questo poteva spiegare il perché non riuscissi a vedere e fossi circondato da un buio nero pece, ma poi mi ricordai che i ciechi vedono tutto grigio e non nero come vedevo io in quel momento, quindi non era l’improvvisa cecità il problema che dovevo affrontare.
Chiusi gli occhi per un attimo cercando di concentrarmi per capire dove, come e perché mi trovassi in quella situazione.
Niente.
Provai ad urlare, ma un conato di vomito mi salì su per la gola facendomi sussultare e tutto quello che riuscii ad emettere fu un suono disarticolato e sgradevole che si materializzò nella mia bocca con un fiotto di liquido acido dallo strano sapore di caffè.
Decisi allora di mettermi in ascolto per cercare di captare suoni o rumori che potessero aiutarmi per capire dove diavolo ero finito. Non si udiva niente, neanche un piccolo rumore, un brusio, niente di niente.
Con la mano del braccio che non mi doleva provai a tastare l’ambiente circostante, toccavo qualcosa di freddo, di liscio, ma non riuscivo a muoverla e non capivo cosa stessi toccando. L’unica cosa che avvertivo, e percepivo come reale erano dei colpetti sulle mie labbra e la sensazione che qualcosa o qualcuno mi toccasse il collo.
Venni preso dal panico.
Mi venne in mente la scena di quel film in cui grossi topi si accaniscono sul barbone moribondo, strappandogli lentamente brandelli di carne. Provai con un sforzo disperato ad alzare la mano per allontanare quei maledetti roditori, ma gli unici muscoli che si mossero furono quelli del viso che scolpirono sul mio volto una maschera di terrore.
Poi cominciò a piovere, così almeno mi sembrò, poche gocce d’acqua fresca mi bagnarono il viso. Dopo, d’improvviso, uno scroscio violento mi fece rimanere senza fiato facendomi spalancare la bocca in cerca d’ossigeno.
Aprii gli occhi e quello che vidi appena riuscii a mettere a fuoco furono i visi di gente sconosciuta che mi scrutavano preoccupati. Percepii una mano che mi allentava il nodo della cravatta e un’altra che asciugava la bava che mi colava lungo la guancia. Notai, con la coda dell’occhio, che una persona in piedi con una brocca d’acqua semivuota scuoteva la testa, come per dire: guarda che stupido. La nebbia nella mia mente cominciò velocemente a diradarsi, e ricordai di trovarmi in un bar reduce da una notte insonne. Stavo sorseggiando un caffè doppio, e poi….poi il nulla.
Udii il cameriere che mi aveva servito, dire ridacchiando ad un cliente: glielo avevo detto che di mattina presto, a digiuno, un caffè d’oppio può fare brutti scherzi.
DOIING E TUNZI TUNZI
Che il periodo non fosse proprio brillantissimo me ne ero già accorto prima di andare in ferie. Avevo sbagliato settimana. Poi ne ho avuto la conferma al rientro quando ho sbagliato altre due date: quella per una visita medica e il corrispettivo giorno di permesso.
Naturalmente i colleghi non si son lasciati sfuggire l’occasione per farsi due risate e siccome io sono autoironico ho riso molto di me stesso.
Tuttavia tornato a casa mi prese un po’ di sconforto perché se era successo di queste dimenticanze e confusione di date voleva dire che avevo davvero bisogno di riposo e soprattutto di sonno. Il dottore era stato chiaro: minimo 6 ore di sonno tutte intere senza interruzioni altrimenti non se ne usciva.
Insomma quella sera, tornato a casa decisi di sistemarmi tutte le cose per l’indomani e andare a letto prestissimo.
Alle otto e mezzo ero già a letto, “mangiato” e “pasticcato”.
Sì, era vero, avevo proprio bisogno di riposo. Sentivo una sensazione buona a stare steso a letto al buio nella quiete della mia stanza con vaghi e tenui rumori di sottofondo. Questo fino a quando è arrivata mia moglie che, avete presente un elefante in un negozio di cristalleria, beh, non dovete pensare alle dimensioni dell’elefante ma … all’eleganza dei movimenti. Parla a piena voce e sento che chiede: dov’è babbo?. Poi porte che si aprono e chiudono in modo … soldatesco!
Io mi rigiro dall’altra parte sperando in cuor mio che la risposta di mia figlia sia sufficiente invece no. Si affaccia nella stanza: sei già a letto? Ma che caldo che fa qui dentro, apro tutta la finestra. La quale finestra si apre solo, io lo so, lei lo sa, con un gran fracasso sferragliante di maniglie incriccate. Per completare l’opera” via questa tenda”, aria.
“Vorrei dormire presto perché è stata una giornata pesante” dico io.
Ah va bene, scusa, vado di là. Esce e sbam la porta di mezzo, “scusa”.
Io mi rigiro ancora e cerco di smorzare il nervoso che sale. Erano già le nove e io non riuscivo a dormire. Alle nove in punto parte la campana della chiesa, che dista trenta metri da casa mia, e che rimbalzando tra le case arriva lo scampanio dritto dentro camera mia. Suona nove tocchi. Mi rigiro. Dopo un minuto riparte uno scampanìo come a festa che non vi dico, apritevi cieli, la resurrezione, il paradiso. Mi metto il cuscino sulla testa. Poi finito.
Alle nove e mezza un cane abbaia, gli risponde il suo amico con un vocione più basso. Poi abbaia di nuovo l’altro gli risponde, no fate pure, com’è andata oggi? Quante pisciatine hai fatto? Ma gatti ne hai trovati e come sta Zizzi ( Zizzi? Sì c’è un cane che nella loro lingua canesca si chiama Zizzi, non è mica colpa mia). Verso le dieci gli argomenti di questa conversazione che si stava allargano ad altri anche più distanti pian piano si esaurisce e i rumori si attenuano. Forse ci siamo. Invece no. Mia moglie ha la brillante idea di cambiare canale ma becca una pubblicità a tutto volume. Io mi giro di scatto e con rabbia pigio il pulsante sopra il comodino che fa da campanello per avvisarla che mi dà fastidio. “Si scusa, ora abbasso”
Le undici e trenta. Ma è mai possibile che una volta che decido di andare a letto presto ci sia tutta questa confusione. Mi rigiro dall’altra parte, sistemo il cuscino e cerco di rilassarmi. Guardo l’orologio, mezzanotte, forse ci siamo. Sento i dodici tocchi e poi fine. Tornano i rumori di sottofondo. Sento i rumori del traffico della superstrada che dista circa trecento metri da casa mia e che si vede distintamente dalla mia finestra. In fondo, mi dico questo continuo rumore sembrano le onde del mare che tranquillo si muove sul bagnasciuga poi fa un po’ di risacca e poi d nuovo l’onda ritorna. E via così sempre di continuo. Leggero, lontano, un sottofondo cullante.
La mia casa dall’altra parte si affaccia sulla strada principale del paese e accanto alla mia porta d’ingresso hanno installato un bancomat quindi di notte è normalissimo che qualcuno con la radio a tutto volume TUNZI TUNZI TUNZI HMAIEEEIEEEE SFNMADIEEEEEE HAMR, HAMR DIEEEEEE. Una volta prelevato dal bancomat si sente sbattere la portiera e via con una bella sgassata a tutta velocità … la discoteca lo aspettaaaaaaaa.
La mia pazienza è messa a dura prova. Ho gli occhi pesanti un po’ mi bruciano. Sono stanco, molto stanco, lo stare a letto tutte quelle ore non mi ha portato granché sollievo.
Il fatto di girarmi continuamente ha surriscaldato le lenzuola e ho caldo nonostante la finestra aperta. Basta per carità.
Torna la quiete.
Un quarto all’una sento un cigolio di un carrettino gnighi, gnighi (si faceva proprio gnihi gnighi forse perché era arruginito). Io ascolto. Faccio un calcolo veloce e capisco che abbia percorso circa venti metri, allora intuisco cosa e chi fosse. Il barista con il suo vecchio porta pacchi portava un bussolo alla campana di vetro. Le ho contate. 74 birre medie 5 birre grandi e 23 bottigliette di aperitivi. Ogni volta uno schianto.
Basta! Non ne potevo più.
Mi alzo e con cattiveria sbatto la finestra e la chiudo facendomi pure male ad una mano.
Rivado a letto con il fiatone. Mi rilasso, faccio training autogeno, come ho visto fare nei film quando deve partorire una donna, ma io non devo partorire! E’ uguale! Funziona lo stesso! Mi rilasso.
Questa volta sento la campana che suona l’una ma dolce, ovattata, un solo colpo.
Mi stendo meglio, ora sì che ci siamo. Trovo la posizione giusta. È tutto chiuso e c’è davvero silenzio. Mi concentro sul mio respiro. Sempre più lento, lento.
Poi …
DDOIIIIING
Parte una molla del letto.
Vi giuro, non ho mai riso tanto da solo come quella notte!
IL MIO AMICO MAX
Appena arrivò in cima alla montagna, guardò l’orologio. Segnava le 15,12
Aveva impiegato poco più di un’ora per arrivare fin lassù, da quando aveva lasciato la macchina poco fuori Cutigliano e si era inerpicato per il monte Cuccola .
Che magnifico spettacolo si godeva da lassù!
Era arrivato in paese in mattinata con la famiglia, moglie, due figlie e quello che ormai si era aggiunto ai quattro componenti: il cane Grisu, un dogo argentino, un giovane maschio dal temperamento esuberante.
Avevano scaricato i bagagli, sistemato casa e acceso il camino. Si respirava aria di vacanza e le splendide giornate previste dal meteo promettevano un soggiorno all’insegna delle escursioni e delle abbondanti libagioni.
L’orologio del campanile suonò le 13,00.
Un certo languorino allo stomaco si faceva strada nei quattro, che partiti digiuni cominciavano a sentire fame. Dalla porta della camera del ragazze si affacciò Victoria, la più piccola che rivolgendosi con voce implorante alla mamma esclamò: si va a mangiare, io ho fame! Gli fece eco la sorella: “Anch’io ho fame!”
Va bene, disse la madre, finisco di sistemare le provviste in cucina e poi andiamo a mangiare, anzi se volete far presto venite ad aiutarmi. L’esortazione non produsse l’effetto sperato. Dalla camera non arrivò nessuna risposta né tanto meno uscì una delle due sorelle.
Finalmente uscirono e si avviarono a passo svelto alla trattoria “Da Fagiolino”.
La Trattoria fu aperta nei primi anni '50 da Alvaro Innocenti figlio di Cecco, detto "Fagiolino", perché lungo e smilzo come un fagiolino in erba, "nomignolo" che fece da spunto per dare il nome al ristorante. Oggi la trattoria è gestita dalla terza generazione della stessa famiglia, da Luigi figlio di Alvaro e Pierina, coadiuvato nel suo lavoro dalla moglie Paola e dalle figlie Stella e Diletta.
Appena entrati si avviarono lungo il corridoio che portava ai tavoli, a metà strada venne loro incontro la signora Paola che li salutò con calore e li guidò un tavolo libero.
Ordinarono una polenta con cinghiale e un arrosto misto, acqua gassata, due Coca-Cola per le ragazze e una bottiglia di rosso del luogo.
Era sempre uno spasso per la signora Paola quando aveva gli “americani” come chiamava lei la famiglia Esposito, famiglia di chiare origini italiane ma trapiantati ormai da generazioni in Nord America che si sforzavano di parlare Italiano storpiando in maniera buffa quasi tutte le parole del menù.
Mangiarono in fretta e di gusto, ordinarono il caffè, pagarono il conto e uscirono.
Si avviarono tutti e quattro verso casa, la moglie Silvia e le due figlie entrarono dentro infreddolite, mentre Max sciolto Grisu salì in macchina e si avviò verso l’uscita del paese. Vado a fare quattro passi, disse rivolgendosi alla moglie.
Era più forte di lui, l’attrazione per quei luoghi di montagna era irresistibile, forse perché gli ricordava la sua fanciullezza, quando dall’America in estate veniva a trascorrere le vacanze in Irpinia dal nonno, con il quale era solito fare lunghe passeggiate durante le quali era venuto a conoscenza di varie piante medicinali e era rimasto affascinato dal loro utilizzo.
Ora era lì, lo sguardo perso nell’immensità delle montagne, un panorama mozzafiato. Si sfilò lo zainetto, ne tirò fuori un berretto di lana e si chiuse il blusotto. Il venticello fresco e piacevole che gli soffiava alle spalle e che lo aveva accompagnato lungo l’ascesa in cima era diventato freddo e pungente.
Si mise a sedere e cominciò ad ascoltare il silenzio.
Il silenzio pensava è una zona oscura, un vuoto che cerchiamo di riempire perché ci ricorda la nostra nullità. Io questo vuoto lo riempio con i ricordi dei miei cari, mio padre e mia madre che soleva dirmi che solo con il tempo avrei compreso che l’importanza di una persona nella mia vita sarebbe dipesa non da quanto l’hai avuta vicina ma da quanto ti ha lasciato dentro.
Proprio per questo sentiva l’esigenza di isolarsi, di ritrovare la sua umanità, di riscoprire che il silenzio è il luogo dove riusciva a esprimersi senza reticenza aprendo il suo cuore. D’altronde il grande filosofo Seneca sosteneva che il bravo oratore sa parlare ma soprattutto ascoltare.
E la montagna, con i suoi sentieri impervi che tolgono il respiro, insegna il silenzio, elimina le chiacchere inutili, non ammette errori, ti fa riflettere.
Pensava anche a quanta strada aveva fatto. In poco tempo era diventato un imprenditore di successo, uno che partito dalla gavetta era arrivato in cima alla piramide. C’era arrivato con il duro lavoro, e nonostante fosse il capo era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo la sera a chiudere il portone.
Dentro era rimasto quello di trent’anni fa, una persona curiosa che cercava sempre il perché delle cose, non accontentandosi di ciò che apparivano, scrutando sempre nel profondo per capire ciò che erano.
Mentre era perso nei suoi pensieri, si scosse ed ebbe la sensazione fastidiosa come di essere osservato. Girò la testa a destra a sinistra ed indietro: nulla.
Si mise nuovamente a rimirare le rocce ed il bosco davanti a lui. Fu allora che scorse davanti a lui più in basso a circa cento metri la testa di un lupo che lo guardava annusando l’aria.
Fu un attimo, lo vide infilarsi nella boscaglia seguito da altri due esemplari.
Involontariamente con la mano andò a toccarsi la piccola cicatrice che aveva sulla tempia sinistra l’unico ricordo visibile sul suo corpo dell’incontro che aveva avuto con un lupo che lo aveva assalito circa dieci anni prima. Socchiuse gli occhi come per sforzarsi di mettere a fuoco i ricordi, ma il film terminava sempre con l’immagine del lupo che si avventa alla sua gola.
Poi il buio più totale. Il risveglio, in ospedale dopo quattro giorni di coma farmacologico con la diagnosi di schiacciamento di due vertebre dorsali, fratture multiple e lesioni lacero contuse al viso e alle braccia. Il lupo lo trovarono in un dirupo con il collo spezzato.
Non si seppe mai il perché ed il per come.
Gli ci vollero ben quattro mesi per riprendersi, nonostante fosse un uomo sano, uno sportivo alto circa un metro e ottanta, forte e muscoloso.
Le lunghe passeggiate, le estenuanti sedute in palestra unite alla sua caparbietà nel voler continuare la “sua vita”, furono un’efficace terapia che l’avevano portato ora, anche se i cinquant’anni erano già passati da un pezzo, ad avere una forma invidiabile.
Fece un sospiro come per scuotersi, guardò l’orologio che segnava le 16,10 e decise di ridiscendere e tornare a casa.
Lasciò la sommità e si inoltrò nel bosco di castagni ed abeti. La luce era cambiata, il sole cominciava a calare e nonostante la bella giornata le ombre erano già allungate. Da lì a poco nel bosco sarebbe stato buio.
Tenendo a guinzaglio Grisu scese i primi quattrocento metri a passo svelto nonostante la pendenza fosse elevata, ed in poco più di dieci minuti si trovò in mezzo ad una radura, il vento era cambiato, sferzandogli il viso.
Grisu improvvisamente puntò le gambe anteriori e digrignò i denti con fare minaccioso, guardando fisso in avanti. Aveva i muscoli tesi pronti a scattare.
Guardò anche Max in quella direzione.
Si accorse che a poco meno di cinquanta metri fermi a sbarrargli la strada c’erano i tre lupi. Stentava a tenere Grisu agitatissimo a guinzaglio.
Prese due pietre e le tirò verso i lupi. Il capobranco annusò l’aria e con aria indifferente sflilò sulla destra della radura e sparì tra le rocce seguito dagli altri.
Max si sfilò lo zainetto dalle spalle, tiro fuori il suo cellulare e cercò di chiamare i soccorsi, ma in quel punto non c’era segnale. Cercò di pensare velocemente, aveva il cercapersone GPS con sé, ma non gli era di conforto sapere di venir trovato dopo essere stato sbranato. Lo accese comunque per poter essere localizzato. Decise di inviare questo messaggio a tutti i numeri che aveva in rubrica: “sono seguito da tre lupi, temo un attacco, chiedo soccorsi”. Appena il cellulare avesse avuto linea sarebbe partito.
Più avanti dopo la radura c’era un bivio con due viottoli sterrati, decise di prendere quello di sinistra per allontanarsi di più dai lupi.
Continuò a scendere procedendo a zig zag nel bosco che in quel punto era particolarmente ripido. Grisu era sempre più agitato e tirava con forza il guinzaglio.
Ormai erano vicini all’auto, mancavano circa quattrocento metri alla strada. Ancora poco e sarebbero stati al sicuro.
Uscirono dal bosco e si ritrovarono allo scoperto, il rumore dell’acqua di un ruscello si confondeva con il rumore del vento tra le fronde degli alberi.
Fu un attimo!
Max mise inavvertitamente un piede in una buca ricoperta di foglie secche rese scivolose dalla pioggia mista a nevischio che era scesa qualche giorno prima, e si ritrovò per terra dolorante con il viso schiacciato su una roccia e insanguinato, e con la caviglia destra che sembrò in un niente gonfiarsi a dismisura, trascinato con forza da Grisu che sembrava impazzito. Cercò di tirarsi su, ma non ce la fece, ricadde.
Vide vicino a lui un ramo spezzato, allungò la mano, lo afferrò e facendo leva su di esso dolorante si mise in piedi. Si passò la mano sul viso per levarsi il sangue dagli occhi e riprendere fiato.
Grisù che sino a quel momento aveva tirato con foga il suo padrone si fece improvvisamente immobile. Max si chinò per guardarlo vide che si stava urinando addosso. Alzò gli occhi e capì
I suoi occhi incrociarono quelli del lupo che da poco più di venti metri lo guardava fisso, annusando l’odore del sangue fresco. Ebbe ancora la sensazione di essere spiato. Si girò di scatto e vide immobili alle sue spalle gli altri due lupi.
Non perse tempo, si sfilò lo zaino, si levò il blusotto, si strappò la camicia che avvolse a brandelli sulla cima del bastone assicurandola con un nodo. Intanto con lo sguardo seguiva il movimento dei tre animali che avevano cominciato a muoversi in circolo stringendo sempre di più il cerchio.
Grisu accucciato ai piedi del padrone guaiva ormai rassegnato.
Prese dalla tasca dello zaino la fiaschetta della grappa, cosparse l’improvvisata torcia e cercò di darle fuoco con l’accendino che portava sempre con sé.
Provò e riprovò disperatamente, ma il vento gli negò il fuoco. Buttò incazzato l’accendino lontano ed impugnò il bastone assumendo posizione da combattimento.
I lupi erano a non più di dieci metri, si vedevano distintamente i denti affilati pronti ad azzannare la presa quando l’aria fu squarciata da un urlo disumano e i lupi furono colpiti con precisione millimetrica da tre fagotti su cui si avventarono furiosamente squarciandone il contenuto.
Dopo poco un quarto fagotto cadde a circa venti metri dai lupi che si fiondarono per azzannarlo. Il capobranco fu il più lesto, lo afferrò e corse nella boscaglia inseguito dagli altri due.
Max tirò un sospiro di sollievo e solo allora riconobbe il suo amico Giò Canino che continuando ad urlare a grandi passi, brandendo un bastone si avvicinava a lui.
Disse: “Tutto bene?”
Non ci fu risposta !
Si abbracciarono e Max, sostenuto dal suo amico, appoggiandosi al bastone si avviarono alla macchina seguiti da Grisu che aveva ripreso a scodinzolare.
Prima di entrare in macchina Max chiese all’amico: “Come hai fatto a mettere in fuga i lupi?”
Un ghigno di chi ne sa una più del diavolo si stampò sul viso di Giò che disse:
“Ero appena arrivato in paese quando ho ricevuto il messaggio, mi è venuta un’idea e senza perdere tempo sono entrato in macelleria, mi sono fatto incartare tre polli e un coscio di agnello”.
Con i primi tre ho distolto i lupi da te e con il coscio di agnello ho fatto in modo che allontanassero litigando tra loro.
IL REGALO DI NATALE
Mi seccava un po’ uscire la sera del 24 dicembre, ma il messaggio era molto chiaro: hai vinto un premio, vieni a ritirarlo la vigilia di Natale alle 23 firmato, Il delegato.
Anzi a dire il vero i premi vinti erano due perché anche a mia figlia era arrivato sul suo inseparabile tablet lo stesso messaggio.
Comunque, tutto sommato era un sacrificio accettabile, sicuramente meglio dell’anno scorso che si dovette passare il 24 a parlare con gli amici.
Il 2017 si chiudeva bene.
Ci avviammo all’incontro. L’appuntamento era in quella stanza del palazzo di fronte alla farmacia, sulla porta c’era scritto: entrata libera, non suonare.
C’erano altre quattro persone intente tutte ad armeggiare chi col telefonino chi con lo smartphone chi con un portatile.
Buonasera a tutti dissi ad alta voce appena entrammo.
Non solo nessuno rispose, ma nessuno sollevò gli occhi per vedere chi era arrivato.
Ci mettemmo a sedere, mia figlia accese il tablet, si mise le cuffie e cominciò a giocare.
Io cominciai a controllare la posta elettronica sul mio cellulare.
Di fronte a me c’era un prete. Seppi solo dopo che era conosciuto come padre selfie, che armeggiava col telefonino, lo montò sul bastone ed incominciò a scattarsi le foto, cambiando pose, assumendo a volte posizioni ridicole a volte grottesche.
Di lato c’era una coppia di giovani, probabilmente fidanzati che litigavano fra loro.
Il motivo: il telefonino.
Lui chiedeva a lei come mai c’erano degli strani messaggi ricevuti nel cuore della notte.
Voleva sapere chi glieli mandava.
Lei controllando il telefonino di lui chiedeva con voce alterata: perchè sul tuo screensaver non c'è la nostra foto, con chi hai fatto lo you&me prima di me.
I toni stavano diventando accesi ed il volume della voce dei due fidanzati era decisamente alto, quando intervenne la signora che stava lavorando sul portatile.
Pensai che volesse rappacificare gli animi dei due ragazzi.
Si rivolse a loro e disse: bello quel telefonino, ha lo schermo 3D? Ha la realtà aumentata? Di che marca è? Quanto costa?
I ragazzi tacquero scocciati.
In quell’attimo irreale di silenzi digitali la porta si apri.
Buonasera a tutti, disse un uomo vestito da babbo Natale.
Vi ho portato il regalo che avete vinto, e che tanto avete atteso. Potete goderlo per tutto il Natale.
Che cos’è chiese la bambina incuriosita senza staccare gli occhi dal videogioco.
Eccolo!
In quell’istante, sfiorando con un ampio gesto di mano tutti i presenti ,i telefonini, i tablet, gli smartphone ed i videogiochi si spensero.
Babbo natale si avviò alla porta.
Prima di uscire si girò e disse: Buon Natale a tutti
UN BRIVIDO LUNGO LA SCHIENA
Spesso leggiamo o sentiamo notizie o fatti che ci incuriosiscono, ci fanno arrabbiare, sorridere, piangere o riflettere. A volte ci immedesimiamo nelle situazioni o nelle persone che le hanno vissute, ma soprattutto non pensi mai che queste cose potrebbero accadere a te. Non pensi che tuo padre potrebbe perdere il lavoro, che tua madre potrebbe ammalarsi di cancro, che a te potrebbe venire l’infarto, o che tuo fratello potrebbe essere picchiato per il posto in un parcheggio.
Poi queste cose accadono, e quando accadono ti sconvolgono e ti segnano per tutta la vita.
Non ricordo bene se fui svegliato dal tintinnio della pioggia che cadeva copiosa sul tetto o dal ronzio del televisore che avevo scordato acceso quando i programmi sono terminati e. Ero solo in casa, mia moglie ed i figli erano partiti la sera prima per il mare, anche se le previsioni del tempo non promettevano niente di buono. Erano così eccitati di riaprire la casa delle vacanze e dare inizio ufficialmente alla stagione estiva, che incuranti delle nuvole si erano messi in viaggio.
Io li avrei raggiunti la mattina dopo, avevo da sbrigare alcune commissioni e parlare con alcuni clienti.
Il tempo di vedere una sagoma scura piegata su di me, che mi arrivò un pugno sul viso e ricaddi tramortito sul materasso,
In un attimo realizzai che c’era un ladro in casa.
Il tempo di mettermi seduto e valutare i danni, che la porta di camera si chiuse sbattendo e la figura si era dileguata. Il naso mi sanguinava copiosamente, il dolore era fortissimo, avevo la sensazione di gonfiare e quel senso di anestesia come quando si va dal dentista, tipico dei traumi violenti, ma per il resto mi sembrava non ci fosse niente di rotto.
Aprii il cassetto del comodino e tirai fuori la pistola, mi alzai dal letto e girai lentamente la maniglia della porta di camera che dava su un corridoio dove si affacciavano le camere dei ragazzi ed il bagno. Tutte e tre le porte erano chiuse, non avevo sentito scendere le scale , quindi il ladro non era sceso al piano terra, ma si era infilato in una delle tre stanze.
L’intuito mi spinse ad aprire la stanza del figliolo, quella che dava sulla terrazza e che poteva secondo me essere una comoda via di fuga.
Aprii con la mano sinistra la porta tenendo ben stretta nella destra la pistola, feci appena in tempo ad accendere la luce che venni spinto violentemente da dietro e rovinai per terra.
Urtai il ginocchio contro il pomello di un cassetto sentendo un crac che mi fece urlare di dolore.
Mi alzai rabbioso, zoppicando cominciai a massaggiarmi il ginocchio. Mi avvicinai al comodino, afferrai l’abat joure, strappai i fili e feci fare cortocircuito. La casa rimase al buio.
Io conoscevo la casa, il ladro no.
Pensavo di essermi procurato un piccolo vantaggio.
Uscii nell’andito e rimasi immobile in ascolto per captare un qualche rumore che potesse essermi utile per individuare dove fosse il ladro.
Percepii lo scricchiolio di una finestra che si apre. Proveniva dal bagno.
Impugnando la pistola a due mani, come si vede nei film detti un calcio alla porta che si apri. In quell’attimo per la prima volta vidi in controluce distintamente il ladro, corporatura esile, alto circa 1,70, vestito di scuro con un paio di scarpe da tennis ai piedi, teneva in una mano un sacco della spazzatura probabilmente pieno di refurtiva e nell’altra un piede di porco come capii a mie spese qualche attimo dopo.
Non feci a tempo a dire fermo o sparo, che prima di scavalcare mi scagliò addosso l’attrezzo da scasso che riuscii ad evitare per un soffio.
Corsi verso la finestra per cercare di afferrare per le spalle il malvivente, ma fu lesto e saltò giù. Sentii il tonfo seguito da un urlo di dolore. Il ladro gettandosi dal primo piano era atterrato malamente su un piede probabilmente per via della pioggia lussandosi la caviglia.
Si rialzò in piedi e in quel momento commise l’errore che gli sarebbe stato fatale.
Decise di non uscire dalla mia proprietà e far perdere le proprie tracce per le vie del paese, ma si inoltrò nel bosco di noci che avevo dietro il giardino.
Scesi di fretta per le scale, e ad ogni gradino che scendevo aumentava si faceva sempre più forte un odore acre di bruciato. Riattivai la luce e solo allora mi accorsi dello scempio che aveva che aveva combinato il ladro. Era tutto sottosopra, cassetti aperti, documenti sparsi sul pavimento persino il salvadanaio di mia figlia spaccato e vuoto.
Ai miei piedi c’era il mio cane che giaceva agonizzante con il collo spezzato e la testa in posizione innaturale, e alzando gli occhi capii il motivo dell’odore di bruciato. Il microonde conteneva il mio gatto.
Brutto bastardo dissi urlando.
Che cattiveria!
Gliel’avrei fatta pagare a quello stronzo!
Con gli occhi iniettati di sangue, l’adrenalina a mille ed un desiderio di vendetta aprii la porta e mi misi all’inseguimento del ladro.
Lo vidi a circa trenta metri da me e cominciai a correre per acciuffarlo. Appena si accorse di essere inseguito buttò a terra la refurtiva per andare più veloce, ma la caviglia malconcia rendeva la sua andatura grottesca.
Quando fui a meno di un metro da lui gli gridai nuovamente: ”fermati o sparo”.
Fece per rallentare.
Si girò e i nostri occhi per un attimo si incrociarono. Nelle sue pupille solo la freddezza e la cattiveria di chi è avvezzo da molto tempo a queste situazioni. Scorsi lo sguardo beffardo di chi sa che comunque resterà impunito.
Mi tirò un pugno all’altezza della bocca dello stomaco che mi fece stramazzare al suolo privo di fiato.
Sentivo la sua risata, ma rise per poco perché non si accorse che c’era un ramo di un noce all’altezza del collo che lo colpì proprio all’altezza della carotide facendolo cadere a terra privo di sensi.
Mi alzai dolorante, mi avvicinai a lui che intanto sembrava riprendersi, mi chinai e gli premetti la canna della pistola su un occhio. Gemette e farfugliò qualcosa in una lingua per me incomprensibile, non so se implorava pietà o bestemmiava per la sorte avversa.
Sapevo che potevo decidere cosa fare, sapevo che dovevo decidere. E’ sottile la linea che separa la vita dalla morte, il bene dal male, la vittima dal carnefice.
Avevo deciso.
Chiusi gli occhi e premetti con rabbia il grilletto.
Non si udirono spari, ne uscì fuori soltanto un fiotto di acqua puzzolente.
Un brivido mi percorse la schiena.
Se io impugnavo la pistola ad acqua, riproduzione perfetta della mia beretta 22 di mio figlio tredicenne che fine aveva fatto la mia pistola?
DUE CADAVERI IN GIARDINO
Che pena mi fanno! Gli animali chiusi, costretti in un contenitore sempre inadeguato, sempre troppo piccolo mi hanno fatto sempre una gran pena. Non posso vedere gli uccellini in gabbia come non sopporto la vista di tutti gli animali costretti in cattività allo zoo
Quelli che mi fanno ancora più pena di tutti sono i pesciolini per i quali ci si danna l’anima per vincerli alla fiera solo per far contento il bambino. E’ accaduto anche a me. Però dall’alto della mia saggezza mi dicevo che non avrebbero fatto una brutta fine anzi fantasticavo che potessero addirittura riprodursi e avremmo avuto l’immensa gioia nel vedere la nostra piccola vasca piena di tanti piccoli pesciolini birichini.
Per cominciare i miei figli non li vollero rossi ma neri o gialli e neri. Mi rimase in gola un “Ma come”! Tornati a casa i due predestinati alla morte li mettemmo in una coppa per spaghetti con acqua del rubinetto. Ma la temperatura? Il cloro? Macché! Neanche ci vennero a mente queste stupidaggini. Noi genitori eravamo pieni di orgoglio nel veder i bambini così eccitati e contenti.
Il giorno dopo con passo da vero lupo di mare e grande intenditore di pesci scelsi tra gli scaffali di un supermercato il mangime, una misera vaschetta 20x30 e due alghette di plastica per rendere più verosimile ed accogliente il panorama marino.
Tornati a casa non vedevamo l’ora di fare il trasloco ai nostri piccoli amici diavoletti acquatici quindi ci mettemmo subito a lavoro e in un momento di delirio geniale ebbi anche la brillante idea di tirare fuori dei sassolini piccoli e grandi trovati al mare che avrebbero reso tutto veramente bellissimo.
Al nostro occhio attento ed esperto sembrava chiaro che i pesciolini si trovassero ora davvero bene.
Le nostre osservazioni giornaliere erano puntuali come anche versare il mangime, mettendone un pizzichino di più, e come cambiare l’acqua rimettendo sempre acqua nuova del rubinetto.
Dopo due settimane di questa terribile vita uno dei pesciolini lo trovammo morto e l’altro agonizzante.
Dispiaciuti facemmo di tutto per salvare l’ultimo superstite mettendo ancora più mangime e cambiando più spesso l’acqua. Non ci fu niente da fare. I bambini non versarono neanche una lacrima ma seppellirono i due cadaveri in giardino con una decorosa cerimonia funebre. A noi genitori prese prima lo sgomento e poi un profondo senso di liberazione. La vaschetta lavata e asciugata finì in soffitta in mezzo a mille altre cianfrusaglie polverose.
I bambini sono diventati grandi e più volte hanno tentato di convincerci di tenere animali in casa però abbiamo sempre eroicamente resistito salvando la vita … loro e la nostra!
LE GEMELLE
Era un po’ di tempo che eravamo state chiuse al buio in questo spazio angusto, che quasi non ricordavamo più la bellezza dei colori e non godevamo più dei piaceri dell’aria aperta.
Ci aveva rinchiuso dopo una notte brava passata fuori casa, dopo che si era approfittato di noi, ci aveva fatto camminare per ore sotto la pioggia al freddo noncurante del terreno pietroso su cui eravamo.
Avevamo capito che non gliene fregava niente di noi!
Ci usava per il suo tempo libero, si approfittava di noi nel fine settimana per fare i suoi porci comodi, quando mollava le altre due e si divertiva con noi.
Si avete capito bene, le altre due.
Durante la settimana usciva con altre due gemelle. Due nere da far girare la testa con una pelle liscia e morbidissima.
Era fissato con le gemelle!
Era innamorato di noi ma a modo suo, solo nel fine settimana e non tutti i fine settimana.
Spesso ci abbandonava fuori al freddo
Non ci aveva manifestato in maniera palese il suo amore.
Non ci aveva portato a letto, non ancora per adesso, ma sul divano ci eravamo finite spesso.
Poi quando si stancava di noi ci mollava, si girava e si addormentava.
Mi ricordo che una volta eravamo tornati a casa dopo una serata con amici, era nervoso, aveva bevuto, e mi prese con forza e mi gettò con cattiveria lontano da lui, sbattei contro la madia, ma per fortuna non mi ruppi nulla. Alla mia gemella non andò meglio, finì sotto il tavolo di cucina, dove il cane ringhiando l’azzannò lasciandogli il segno dei denti.
Noi accettavamo tutto, soggiogate da quel misterioso legame sottile che unisce vittima e carnefice.
La mattina seguente ci rinchiuse al buio senza darci una spiegazione senza permetterci di darci una ripulita.
Lo spazio ci sembrava più angusto del solito, quasi non si respirava.
Le pareti erano piene di carta e non riuscivamo neanche a girarci.
Dopo un po’ di tempo udimmo un rumore.
Si aprì una porta, non proferì parola ma potevamo sentire il suo alito, e percepire il battito del suo cuore.
Chiudemmo gli occhi, per vivere più intensamente quel momento, forse ci avrebbe liberato.
Invece come spesso accadeva rimanemmo al buio con la nostra angoscia.
Passavamo il tempo pregando, in attesa del fine settimana quando finalmente ci avrebbe liberato.
Dopo giorni di attesa, quando ormai tutto sembrava perduto, ed anche la speranza lentamente scemava nella disperazione ecco il momento tanto atteso.
Finalmente libere.
Ma la gioia durò poco!
Che puzzo disse la scarpa rivolgendosi alla sua gemella prima di infilarsi nel piede, neanche questo fine settimana si è lavato i piedi.
IL QUINTO PRIGIONIERO
“I Prigioni” di Michelangelo Buonarroti. Ecco, se qualcuno mi chiedesse di indicare l’opera d’arte che più mi è rimasta impressa nella mente e nel cuore coinvolgendomi al punto da farmi accelerare il battito cardiaco la risposta sarebbe appunto “i Prigioni".
Frequentavo l’ultimo anno del liceo artistico di Via Cavour a Firenze ed io ero immerso nell’Arte dalla mattina alla sera fin sulla punta dei capelli.
Arrivavo con il treno alla stazione di Santa Maria Novella e a piedi percorrevo un tragitto standard che mi trasportava a ritroso nel tempo. Dalla modernità del treno all’antichità affascinante del rinascimento.
Imboccavo Via Nazionale e arrivavo fino a piazza dell’Indipendenza. Svoltavo in Via 27 Aprile e dopo aver incrociato Via S. Zanobi, S. Reparata e S. Gallo mi affacciavo su Piazza S. Marco. Poi percorrevo gli ultimi duecento metri di Via Cavour tornando al tempo moderno fino ad imboccare le scale del liceo in cima alle quali c’era il mio futuro.
Erano gli ultimi giorni di scuola e capitò che una mattina rimanessimo senza un insegnante e quindi uscimmo due ore prima. Decisi di andare alla Galleria dell’Accademia in Piazza San Marco per poi prendere il treno alla solita ora.
Entrai tranquillo.
Ai lati di un grandissimo corridoio ci sono i Prigioni, due per parte, mentre in fondo troneggia il fantastico Davide con le sue proporzioni perfette ed armoniose.
I Prigioni, queste quattro enormi statue chiaramente non finite dal Buonarroti, facevano parte di un grande progetto che contava inizialmente quaranta figure per il monumento funebre dei Della Rovere poi ridotte a ventidue ed infine, con un ultimo contratto, portate a sei. Quattro di queste erano appunto i Prigioni che però furono abbandonate nello studio di via Mozza quando Michelangelo andò a Roma per lavorare per Papa Clemente VII.
Avevo visto le foto sui libri ma non c’era assolutamente paragone con la possibilità di ammirarli dal vero, girarci intorno e guardarli da qualunque angolazione e distanza.
Mentre osservavo attentamente la curiosità veniva sorpassata dallo stupore e poi dall’emozione.
Potevo vedere i segni di ogni singolo colpo dato da Michelangelo per sbozzare il marmo. Poi mentre con lo sguardo ci si addentra nel blocco molte parti cominciano ad essere più definite e già si vedono i movimenti dei muscoli che avvolgono corpi possenti.
In particolare in un blocco,”Atlante” , la tensione dinamica del corpo è stupefacente. Michelangelo interruppe il suo lavoro e quindi la sua idea originaria non trovò mai compimento ma nonostante questo ciò che ne è rimasto ha assunto autonomamente un valore simbolico dato dai posteri.
Questi esseri umani erano prigionieri della materia che li circondava e tentavano disperatamente di liberarsi. Questa considerazione mi scosse non poco. Io ero lì davanti a loro e quella forza, quella violenza quasi la vedevo viva e palpitante.
L’Uomo che tenta di liberarsi della materia che lo avvinghia, lo costringe, lo appesantisce era ciò che di più attuale e moderno avessi visto fino allora. Contemplare in quel blocco di marmo le braccia forti e in piena azione che tentano disperatamente di liberare la testa dalla materia che l’avvolge fino a non farla vedere, quasi mi sconvolse.
La materia teneva al buio il pensiero, essenza e valore assoluto dell’essere umano. Nella contrazione e nello spasmo di tutto il corpo vedevo l’ultimo disperato tentativo dell’uomo di liberarsi dalla schiavitù, dall’oppressione di qualcosa che gli è estraneo.
Grazie a quell’esperienza eccezionale la mia visione della vita passò da quella di ragazzo a quella di giovane uomo. Mi si schiusero gli occhi al mondo reale. Fu così che mi accorsi che quel prigioniero ero io, era l’umanità schiava delle abitudini, dei luoghi comuni, del pressapochismo e del superficiale. Ero chiuso nel tran tran di una vita standardizzata benché gli studi sull’arte avrebbero dovuto farmi pensare tutto il contrario. Forse non ero ancora pronto a fare il grande salto prima di quel giorno.
Io ero il quinto prigioniero.
IL MOTORE DEL POZZO
Mi ero assopito sulla sdraio in giardino sotto la quercia grande in cerca di un po’ di refrigerio. Questo è il lusso della domenica, quando mangio un po’ di più e mi concedo un buon bicchiere di chianti.
Ma era un’estate troppo calda, nulla dava sollievo. Da quaranta giorni una calura soffocante fiaccava il corpo e lo spirito privandoli di tutte le energie.
Anche il solo pensare faceva sudare.
Cercavo di stare immobile, con gli occhi chiusi, aspettando quel refolo di vento che ogni tanto arrivava da sud. Nelle orecchie sentivo un ronzio, un borbottio come di un motore che arranca in salita.
Mah! Pensai, chi sa che cosa era.
Ebbi un sussulto, scattai in piedi e mi ricordai che la mattina mentre stavo innaffiando l’orto mi avevano chiamato al telefono di casa.
Una telefonata interminabile. Fui trattenuto per trentacinque interminabili minuti alla cornetta.
Mi ricordo di essere uscito di casa subito dopo perché avevo finito il mangime per i polli e dovevo far fronte a varie incombenze.
Ecco che cosa era quel rumore che veniva dal giardino, era il motore del pozzo. Avevo lasciato aperto il rubinetto della fontana che avevo messo in giardino. Il pozzo si era prosciugato ed il motore girava a vuoto.
Mi incamminai a passo lento, sconsolato, sotto quel sole implacabile verso il pozzo seguito come un’ombra dal mio cane, un jack russel terrier a pelo ispido. Più mi avvicinavo e più sentivo l’odore acre delle guarnizioni surriscaldate come di gomma bruciata ed il lamento sempre più chiaro del motore ormai agonizzante.
Girai la levetta e misi l’interruttore su automatico in modo che si mettesse in moto solo dopo che il pozzo si fosse riempito d’acqua, e la pompa fosse sommersa. Il borbottio smise e tirai un sospiro di sollievo.
Il motore era salvo.
Mi avviai verso la fontana, il cane che mi scodinzolava a fianco si impuntò all’improvviso cominciando a ringhiare.
Feci qualche altro passo e mi chinai per raccogliere il tubo di gomma che serve per innaffiare, anche se mi sembrava di ricordare di avere usato il secchio.
Appena afferrato il tubo sentii che era viscido e l’occhio andò automaticamente al rubinetto.
Solo allora realizzai che attaccato al rubinetto c’era la testa di un grosso serpente in cerca d’acqua.
Un pitone reticolato, di quelli che gli snob tengono come animali da compagnia, e quando sono grandi non si sa che fine facciano lungo circa cinque metri con la testa grossa quanto un pallone da rugby.
L’animale appena si sentì toccato ritrasse la lunga e grossa coda, si staccò dal rubinetto, si alzò sulle spire e mi guardò con fare minaccioso. Aprì la bocca fendendo l’aria con la lingua. Ne usci fuori un fetore di morte che si sparse nell’aria. Il cane annusando quel respiro velenoso guaì e scappò via.
Mentre riflettevo sul da farsi scivolai e caddi.
Fu un attimo, mi sentii la gamba destra avvolta dalle spire del rettile, e girandomi nel tentativo di rimettermi in piedi vidi che le spire cominciavano a serrarmi l’addome. Il serpente con fare fulmineo portò la bocca spalancata sopra la mia testa pronto a cominciare il banchetto. In ginocchio sulla gamba sinistra, con le mani e le braccia ancora libere afferrai il serpente e cercai di tenerlo più lontano possibile dal mio viso.
Mi resi conto che aveva una forza incredibile le sue spire cominciavano a serrarmi lo stomaco.
Il peso del serpente mi fece perder quell’equilibrio instabile e caddi proprio sotto la fontana.
Il pitone serrava sempre di più le sue spire. Cominciavo a fare fatica a respirare. Avvertivo dolore. Un dolore forte, violento come mai avevo provato. Un dolore senza un luogo, un punto specifico e definito.
Era come avere un peso enorme sul torace ed ogni respiro si faceva più corto e meno profondo, sentivo il viso gonfiare e sembrava che gli occhi mi uscissero dalle orbite
Sentii il motore del pozzo girare e dal rubinetto della fontana cominciò ad uscire copiosamente l’acqua.
Facendo ricorso alle mie ultime risorse spinsi violentemente la bocca del serpente nel rubinetto.
Il pitone cominciò a gonfiare.
La stretta sul torace si fece insopportabile, sentì il fragore come di un palloncino che scoppia, poi mi mancò il respiro e si fece buio.
Quando ripresi i sensi, tossivo e respiravo a fatica. Avevo fame d’aria. La lingua del il mio cane mi leccava il viso.
Tutto intorno un odore nauseabondo, i brandelli del serpente sparsi qua e là ed il rumore del motore del pozzo che girava a vuoto.
TUTTA CURVE E SENTIMENTO
La prima volta che ne ho posseduta una tutta mia avevo dodici anni. Ne avevo visto anche di più belle ma quando i miei me la regalarono diventò lei la più bella in assoluto.
Era una chitarra non tanto grande, da studio, leggera, legno naturale chiaro, cassa leggermente bombata, e corde in metallo. Mio padre, maestro elementare, ne aveva una simile che usava per insegnare musica a scuola, ma era molto, molto più brutta. Lo aveva avvicinato a questo strumento un suo amico di liceo che la sapeva suonare molto bene. Mio padre faceva l’accompagnamento non riuscendo ad andare più in là degli accordi base e di qualche piccolo fraseggio nonostante sapesse leggere la musica. Il suo amico invece suonava a orecchio ma con le dita ci volava sulla tastiera e faceva sempre le frasi soliste in modo eccellente.
Ora le parti si erano invertite. Mio padre faceva i fraseggi leggendo la musica ed io accompagnavo a orecchio con quei pochi accordi che mi aveva insegnato lui. La sera me la guardavo, toccavo le corde, le chiavette, il legno. Non che ci passassi tutto il tempo libero che avevo, però sentivo che nasceva un legame e ne ebbi la certezza quando imparai da mio padre il sistema per accordarla.
Aveva un cilindretto di metallo dal quale, soffiando, usciva un suono ben preciso, il La, e tramite questa nota, premendo le corde nei tasti giusti si poteva accordare la chitarra con valori sonori corretti.
Partendo dalla corda più grossa in alto e finendo con la più sottile. Mi, la, re, sol, si mi.
Quest’operazione richiede il continuo battere sulle corde e lo stringere o allentare le chiavi per arrivare a un suono preciso. Bisogna avere pazienza, sensibilità e orecchio. Io le avevo e imparai in fretta. Fu questo continuo ascoltare il suono delle corde e il loro espandersi nel silenzio che mi aiutò ad affacciarmi in un mondo nuovo fatto di vibrazioni di ogni genere, gravi o squillanti, lunghe e malinconiche o corte e cortissime per un ritmo allegro e vivace. Avevo imparato che la chitarra, come tutti gli strumenti musicali, sono come una tavolozza per il pittore. Il suono è colore e la sua armonia o disarmonia esprimono il sentimento, l’originalità dell’espressione, la sensibilità che in quel momento è vissuta da chi suona. Ho passato ore, giorni ad ascoltare le infinite variazioni possibili che offre la chitarra e mi rendevo conto che i miei erano solo dei piccolissimi passi in quel mondo sonoro.
Infatti, dopo aver preso dimestichezza con i primi accordi suonati decentemente cominciai a capire che se li mettevo in una certa sequenza costruivo delle concatenazioni di movimenti sonori che all’inizio erano piccole storie semplici, brevi passaggi di sensazioni. E più continuavo e più scoprivo cose nuove.
Riuscivo a mettere sequenze di note su questo tappeto di suoni e sentivo che potevo raccontare delle cose, fare uscire delle sensazioni, delle energie come mai mi era successo. La mia prima vera canzone risale al 1977.
In quegli anni ci passavo ore e ore a suonare e scoprivo sempre cose nuove. La mia chitarra stava anche diventando vecchia e quando la suonavo non la risparmiavo mai.
Un giorno sono persino riuscito a farla suonare come le campane di San Pietro. Proprio così. Si sentono davvero le campane ed è anche spettacolare da vedersi perché per ottenere questo effetto, non si usa un metodo propriamente ortodosso.
Con gli anni era diventata la mia “piccola chitarra” perché io ero cresciuto e lei si era letteralmente consumata. La portavo dovunque e sempre mi dava grandi soddisfazioni. Direi che una buona metà delle canzoni e delle musiche che ho composto, fino a ora sono più di cento, le ho fatte traendo forza e ispirazione da lei. A volte la tenevo come una spada.
Altre volte suonando e cantando mentre camminavo con i miei amici mi sentivo un menestrello medievale. Una delle ultime composizioni che ho scritto con lei è stata una canzone che ho dedicato a mio suocero, morto quando mia moglie aveva sei anni. Gli chiedevo se ero degno di stare con sua figlia e forse lo chiedevo anche a me stesso.
Più di una volta comunque ho avuto il sospetto che mia moglie, quando eravamo ancora fidanzati, fosse gelosa di questa chitarrina tutta curve e sentimento.
Continuavo a prendermi cura di lei e gli comprai pure un microfono per suonare con un amplificatore.
Poi mi sposai e vennero i figli e lei, la mia chitarra, aveva il suo posto nella nostra casa. Con orgoglio faccio vedere le foto dove i miei bambini di pochi mesi e di pochi anni battono con la manina sulla cassa. Lei come una vecchia saggia si lascia scuotere e sembra che sorrida con le mille rughe del suo legno. In seguito, con gli anni, si formarono delle crepe nella fiancata e il suono sentivo che non era più quello di una volta.
Piuttosto si avvicinava a quello di un banjo e nonostante tutto riusciva ancora a spalancarmi finestre su nuovi ambienti, su nuove situazioni.
Scoprii che ci si divertiva un sacco suonando e cantando un simil- coutry americano con tanto di spari e frustate sui cavalli lanciati al galoppo o nella calma di una notte stellata seduti intorno al fuoco in mezzo al vecchio Texas.
Alla fine anche la rottura delle chiavette la rese definitivamente inutilizzabile e io, dopo vari e penosi tentativi di rimetterla in sesto, l’ho tenuta come un caro ricordo per molti anni, in casa mia, nella mia famiglia.
Fece in tempo a vedere l’arrivo di una gagliarda dodici corde e a sentire molte delle canzoni che composi con la nuova chitarra. Poi come una vera signora lentamente si è appartata ed è scomparsa dalla mia vita.
MONDO ANIMALESCO
L’unica testimonianza che si può trovare di me in cui sono vicino ad un animale è una foto che mi ritrae all’età di sette anni con in collo un micino di poche settimane.
La foto è tenerissima. Io bambino con i pantaloni corti e questo piccolissimo gatto ancora più tenero di me. Perché, diciamoci la verità, la maggior parte degli animali quando sono cuccioli sono tenerissimi poi, però passato questo idilliaco momento diventano grandi, non solo nel senso di animali adulti ma proprio grandi di dimensioni e allora finisce tutta la tenerezza soprattutto quando si pensa a quello che ingeriscono e a quello che evacuano.
Ma, direte voi, ci sono degli animali, anche domestici, che rimangono piccoli pure quando diventano adulti.
Su questo ho la mia visone del modo animalesco. Trovo ridicolo se non proprio orrendo vedere cani adulti molto, ma molto più piccoli di un gatto di taglia media o un cane adulto più grosso di un cavallino pony o cani più lanosi di una pecora o gatti senza pelo che sembrano più nudi di una pecora appena tosata.
Per non dire che trovo veramente assurdo, a volte offensivo, l’avvicendarsi di pubblicità televisive sulla bontà di gustosissimi croccantini per cani o prelibati piattini di carne magra per gatti, con successive immagini dell’immancabile, non certo per sua colpa, anzi, bambino africano che muore di fame o dell’aiuto da portare a popolazioni che non hanno l’acqua nemmeno per i bisogni primari.
Chiusa questa parentesi scritta forse più che altro per mettermi la coscienza a posto, devo anche dire però che il mondo animal-domestico non lo vedo proprio del tutto negativo.
Per quanto mi riguarda infatti accetto la vicinanza degli animali solo nella misura in cui gli animali stessi possano vivere la loro vita degnamente e cioè integrarti nel loro habitat naturale quindi nella campagna, nel verde in cui nascondersi o la nella terra dove poter scavare o negli alberi su cui arrampicarsi.
Per esempio “certi” zoo dovrebbero essere chiusi e sostituiti da piccoli parchi naturali e neanche con troppe bestie dentro. E’ il massimo che sono disposto a concedere.
Per essere chiari fino in fondo non considero stupido il canarino che è stato chiuso in gabbia ma colui che ce l’ha messo. Ecco, gli uccelli, soprattutto quelli migratori sono per me l’emblema del modo animale libero come è giusto che sia.
LASCIATE LIBERO IL PASSO
Se avete acceso questo cellulare, aperto la cartella degli appunti e in questo momento state leggendo questo mio scritto vuol dire che finalmente posso raccontare come sono andate le cose. Posso far sapere la verità prima che muoia per la seconda volta e prima che si esauriscano le pile di questo stramaledetto telefonino.
Chiunque sarà a doverlo fare chiedo che avvisi i miei vecchi con assoluta delicatezza. Hanno, anzi avevano, solo me e sarà un colpo molto duro per loro sapere della mia morte.
Sono stato suicidato il ventiquattro agosto da Serino Fuodin a causa di un lungo susseguirsi di contrasti per la zona parcheggio del nostro condominio. Banale. Assolutamente banale, ma si sa, la goccia d’acqua scava la roccia.
Serino Fuodin è pazzo e il caldo torrido d’agosto ha peggiorato la situazione già gravemente compromessa del suo cervello. Più di una volta mi aveva minacciato in modo assurdo anche se lui aveva torto marcio. Pretendeva di lasciare la sua auto davanti al mio passo, tanto sarebbe stato per pochi minuti diceva, impedendomi di uscire.
Scommetto che ha messo in giro la voce che ero strano e che di punto in bianco sono andato via. In questo modo se nessuno mi ha più visto avrà finito per convincersi che il pazzo ero io. Naturalmente ho le prove di quello che dico. Per me non c’è più nessuna speranza di salvarmi ma almeno che si sappia la verità. Serino Fuodin mi ha colpito a tradimento, di sotto, nei garage. Sono svenuto, e ora sono qui dentro, sotto terra, sepolto chissà dove in una delle casse da morto che costruisce la SerinoFuodin S.r.l.
GIOSUE’ CINO
Biografia
Nato a Carbonia (CA) nel‘57, si trasferisce a Fucecchio nel ’76. Si laurea Pisa nell’83 in medicina e chirurgia ed esercita la professione di medico chirurgo odontoiatra Fucecchio (Fi).
Nel 1992 pubblica “Non solo di medicina”, che ottiene il secondo premio al concorso “Città di Lerici”.
Nel 1996 è la volta di “Cavatina in cavatina” che ottiene il premio speciale al concorso “Città di Lerici” e il premio speciale al concorso internazionale “San Marco-Città di Venezia”.
Nel 1997, a Lucca ottiene il premio speciale “Mario Tobino”.
Nel 1998 vince il primo premio “Maschera d’oro” al San Marco-Città di Venezia con la poesia “Voce d’un coriandolo” e il premio speciale alla manifestazione “Innamorarsi” di Montecatini Terme con la poesia “La mia età”.
Nel 1999, la giuria del premio “Riviera degli Etruschi” gli assegna il premio speciale per la poesia “Radici”.
Nel 2002 pubblica la raccolta di liriche “La Borsa del dottore” con la quale vince il terzo premio al concorso nazionale “Primavera Strianese” (Na), e il premio speciale della giuria al concorso nazionale “Histonium” a Vasto.
Nello stesso anno è finalista nella manifestazione “Racconti nella Rete” a LuccAutori col racconto pubblicato da Newton e Compton Editori Lenti nel sapere.
Nel 2004 con la poesia Storia e storie vince il terzo premio al concorso nazionale “Primavera Strianese”.
Nel 2004 realizza La Divina Commedia per immagini presentando al pubblico il videomontaggio dell’Inferno.
Nel 2005 pubblica “Il solco” storia di due giovani sopravvissuti nei campi di concentramento della Germania nazista.
Si è esibito come musicista con il gruppo “Medici in Concerto” in varie manifestazioni benefiche come pittore partecipa a numerose collettive in Italia e all’estero. Ha tenuto la sua prima personale “Impronte di vita” a Fucecchio nel 2001.
Nel 2002 vince il primo premio Ex aequo al concorso di pittura estemporanea “Tratto d’artista” a Ponte a Elsa (Pi).
Nel 2004 è terzo al concorso di pittura estemporanea a Massarella, e nel 2010 vince il quarto premio.
Dal 2003 socio cofondatore dell’associazione “Praesidium Culturae”, con sede a Fucecchio. Il Centro si propone d svolgere attività culturale, promuovendo studi, iniziative, manifestazioni di vario genere per una vasta e civile diffusione della cultura, l’amore per qualsiasi forma d’arte, soprattutto della poesia.
Dal 2013 si esibisce in teatro con il gruppo artistico polivalente “In GirodiDO” di cui è anche il regista.
Pubblicazioni:
- 1992 - Non solo di medicina – Ibiskos Editrice
- 1996 - Di cavatina in cavatina – Sambo Editore
- 2002 - La borsa del dottore – La Versiliana Editrice
- 2004 - La divina Commedia per immagini “Inferno” ¬
- Talos Multimedia
- 2005 - Il solco – Pacini Editore
- 2017 - Note di viaggio – Talos Multimedia
.-2017 - Una cena senza tempo ( parte prima) - Talos
Multimedia
-2018 - Una cena senza tempo (parte seconda) - Talos
Multimedia
EUGENIO CINO
Biografia
Eugenio Cino classe 1958
Diplomato liceo artistico di Firenze
Lavora come orafo incassatore presso un’azienda in Toscana.
Coniugato, tre figli.
Artista completo, creativo a 360 gradi ha al suo attivo diverse mostre di pittura tra personali e collettive, la realizzazione di una pala d’altare esposta nel santuario di S:Maria delle Vedute di Fucecchio, la realizzazione di micro sculture in metalli vari, la scrittura teatrale e messa in scena di 3 commedie e 2 musical, ha partecipato alla stesura di 2 romanzi storici e ha editato in proprio 6 libri di cui 1 romanzo breve e 5 tra racconti e “fiabole”.
Come cantante lirico tenore ha partecipato con diverse corali toscane a spettacoli e opere liriche di rilievo nazionale.
Compositore di musica leggera ha realizzato le musiche dei suoi musical e composto più di 80 canzoni tra genere pop, rock e religiose.
E’ anche un game designer con all’attivo la prototipazione di 23 giochi da tavolo.
Pubblicazioni:
- 2005 – Uomini dopo (musical)
- 2006 – La strana notte
- 2011 - Racconti 2011
- 2011 - Come cani randagi
- 2012 - Nera
- 2013 - Viaggi fuori di noi
-
- 2016 - Ciò che unisce nulla tolga a ciò che è unito
- 2018 – Storie di Babbi Natale e altri racconti
Indice
Premessa……………………………………......5
Avevo chiesto un caffè d…………………..........8
Doing tunzi tuunzi………………………..........12
Il mio amico Max……………………….......…17
Il regalo di Natale…………………………...…27
Un brivido lungo la schiena………………....…30
Due cadaveri in giardino……………………….36
Le gemelle……………………………………...39
Il quinto prigioniero…………………................42
Il motore del pozzo…………………………….46
Tutta curve e sentimento……………………….50
Mondo animalesco……………………………..55
Lasciate libero il passo………………………....58