UNA CENA SENZA TEMPO(parte prima: l'arrivo))
UNA CENA SENZA TEMPO
Sarebbe stata una serata memorabile!
Una cena come quelle di una volta che finiscono all’alba tra vino e discussioni interminabili dove ognuno vuol dire la sua ed affermare con determinazione le proprie idee senza cedere di un millimetro, aggrappato con forza a convinzioni sostenute e maturate nel corso della vita. Niente televisione, tanto meno telefonini.
Questo era il mio pensiero mentre mi aggiravo tra i banchi del supermercato in cerca di qualcosa che potesse accontentare tutti. A Leo sarebbe sicuramente piaciuta una bella bistecca alla fiorentina, quella alta quattro dita cotta alla brace con una insalata mista.
Non potevo stare a pensare! Da lì a poco sarebbero arrivati tutti e dovevo farmi trovare a casa, e così afferrai la bistecca e passai oltre in cerca di un buon vino che ne esaltasse il gusto. Per il vino da abbinare alla zuppa di pane che mi avevano esplicitamente richiesto Paul e Claude e che io avevo preparato la sera prima per non trovarmi preso da mille incombenze ci avrebbe pensato Francesco.
A Vincent andava bene tutto, era sempre perso nei suoi pensieri e di solito mangiava quando gli capitava e quello che gli capitava.
Piuttosto non capivo come mai non arrivasse con Carel e Jan, così avrebbe almeno risparmiato il costo del biglietto ma si era intestardito ad arrivare con i due Paul e Claude ed Henry.
Al pesce ci avrebbe pensato Amedeo, così almeno eravamo rimasti d’accordo, mi aveva assicurato che avrebbe portato una paranza freschissima che degli amici avrebbero pescato appositamente per noi la mattina del giorno della cena. A mezzogiorno si sarebbe incontrato con Giovanni e sarebbero venuti insieme alla cena.
Mi accorsi che si era fatto tardi e spinsi con forza il carrello per avviarmi alle casse.
Tamara sarebbe arrivata da lì a poco e volevo farmi trovare a casa anche perché si era offerta di preparare il dolce tipico della sua città natia. E già, ma quale città, Varsavia o Mosca? Era sempre stato un mistero sapere dove era nata e anche l’anno ma oggi ero intenzionato a fare luce su tutti questi misteri ed altri…
Non ci sarebbe stato Salvador, si era scusato mille volte, ma proprio non poteva venire perché impegnato in Germania, ma aveva comunque assicurato che avrebbe mandato una sorpresa che in qualche modo avrebbe contribuito a rendere interessante la conversazione.
Peccato! Ci avrei tenuto particolarmente ad averlo a tavola se non altro per farmi raccontare in prima persona come mai fu espulso dall’Accademia per indegnità.
E poi… per sentire le discussioni tra lui e Vincent e capire chi dei due fosse il più paranoico.
Non avevo invitato Michelangelo e non era stata una mancanza e più avanti capirete il perché di questa mia decisione.
Mi avviai di buon passo verso casa e mi accorsi che era già pomeriggio inoltrato, il sole cominciava a calare all’orizzonte e l’umidità della sera iniziava a velare il cielo che fino ad allora era stato limpido e luminoso.
Dopo circa quindici minuti arrivai a casa e vidi Tamara che già mi aspettava con la sigaretta accesa sul lungo bocchino nero lucido e quell’aria da nobildonna. Mi aveva sempre incuriosito l’alone di mistero che l’avvolgeva.
TAMARA LEMPICKA
Tamara Lempicka non era certo nata nel 1902 come dichiarava, perché nei documenti è riportata la data 1898. Per quanto riguarda il luogo, ha sempre dichiarato di essere polacca nata a Varsavia mentre sulle carte risulta Mosca.
Aveva perso il padre presto, e non si sa se in seguito al divorzio o, se si era suicidato. Di certo è che Tamara aveva assimilato la forte identità polacca della famiglia materna e il culto della nobiltà.
A vederla così minuta e schiva non riesco a capacitarmi di come con Marinetti avesse deciso di andare a incendiare il Louvre. So da tempo che fa abitualmente uso di cocaina, frequenta locali notturni, alternando sedute estenuanti di lavoro a lunghe dormite indotte dalla valeriana.
Il marito e la figlia non rientrano fra le sue preoccupazioni. Ha insomma un ritmo di vita non proprio tranquillo.
Appena si accorse della mia presenza agitò la mano in segno di saluto abbozzando un mezzo sorriso.
Teneva in mano una tela che mi porse appena entrammo in casa dicendomi: questo è il mio contributo alla cena.
Gli ricordai che aveva promesso di fare il dolce. Scoppiò in una gran risata e mi confessò che in vita sua non aveva mai cucinato.
Appesi il quadro alla parete e fui subito colpito dalle tonalità blu del quadro e dal volto della donna che vi è dipinta.
E’ ripreso di tre quarti, gli occhi e la bocca sono pesantemente truccati, i capelli biondi fuoriescono dal basco, una sciarpa a strisce si perde in volute. E’ un volto di grande intensità, in cui gli occhi allungati e lo sguardo distaccato contribuiscono a disegnare un’espressione glaciale.
L’immagine ha tutte le connotazioni di un manifesto pubblicitario, di una foto sapientemente costruita.
La tipologia femminile presentata in questo quadro è quella della donna moderna e sportiva, appassionata di vela.
Gli chiesi di che anno fosse e mi rispose del 1930.
LEONARDO DA VINCI
Sentii bussare alla porta e mi avviai per aprire.
Buonasera maestro dissi appena riconobbi Leonardo. Lui entrò e senza salutare cominciò con gli occhi a perlustrare la stanza, vedendo solo me e Tamara mi chiese con voce tagliente: non avrai mica invitato anche quel bischero di Michelangelo Buonarroti! Feci di no col capo e mi accorsi che le rughe del suo viso cominciavano a distendersi e l’espressione diveniva meno accigliata. Sapevo bene che i due non andavano d’accordo ed avevo seppur a malincuore fatto la scelta di non invitare Michelangelo per evitare che la cena degenerasse in rissa.
È leggenda che s'incontrarono sul Ponte Vecchio e il giovane Michelangelo si mostrò beffardo verso il più anziano maestro, Leonardo rispose a suo modo: piegò con due dita una moneta e gliela porse.
Michelangelo gliela restituì dicendogli che non era suo compito mettere a posto ciò che gli altri avevano rovinato.
E’ invece storia che nel 1503 le autorità fiorentine indissero una gara per la decorazione interna del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, sede principale del governo cittadino.
Al concorso parteciparono anche Leonardo Da Vinci e Michelangelo Buonarroti, risultati agevolmente vincitori delle prime selezioni, i due uomini si trovarono ben presto faccia a faccia per l’incarico finale, da stabilirsi tramite l’affresco preventivo delle pareti del Salone dei Cinquecento: a Leonardo venne affidata quella di destra, con soggetto la battaglia di Anghiari del 1440, mentre Michelangelo ricevette quella di sinistra su cui rappresentare la battaglia di Cascina, storica vittoria di Firenze su Pisa nel 1364. Le dimensioni affidate ai due artisti erano praticamente le stesse (17 metri di larghezza per 7 di altezza).
I due uomini che nutrivano una sincera antipatia l’uno per l’altro, dovuta a profonde differenze personali e stilistiche accettarono la gara solo dopo essersi assicurati posti di lavoro ben distinti, così da evitare possibili screzi o litigi.
Leonardo si mise subito al lavoro nel Salone dei Cinquecento, mentre Michelangelo iniziò a stendere i suoi cartoni preparatori in una stanzetta dell’Ospedale dei Tintori di Sant’Onofrio, in collaborazione con l’allievo Bastiano da Sangallo.
Sfortunatamente, però, nessuno dei due grandi geni rinascimentali riuscì ad ultimare il lavoro nell’arco di tempo assegnatogli: nel tentativo di utilizzare una nuova tecnica di asciugatura del colore, Leonardo finì infatti per distruggere il primo affresco della battaglia di Anghiari, rinunciando poi sconsolato a produrne un altro; Michelangelo invece rinunciò al concorso perchè chiamato urgentemente a Roma da papa Giulio II.
La decorazione definitiva del Salone dei Cinquecento venne affidata a Giorgio Vasari, che riutilizzò i cartoni originali di Leonardo.
Insomma, vite diverse, personalità incompatibili e difficilmente comparabili.
Mentre facevo queste riflessioni Leonardo si avvicino alla parete prese il martello, un chiodo, lo conficcò sul muro e vi appese un quadro.
Io ho portato questo disse con aria stanca, mi raccomando tienilo con cura perché l’ho già venduta in Francia a Francesco I.
Avevo già avuto occasione di vederlo, ma mi sembrava più piccolo.
Era il ritratto di Lisa Gherardini cioè "Monna Lisa", moglie di Francesco del Giocondo. Leonardo lo aveva dipinto nel periodo del suo terzo soggiorno fiorentino e gli ci erano voluti ben dieci anni per portarlo a termine dopo varie correzioni e rifacimenti.
Invitai Leonardo a sedersi ed appoggiare quei rotoli di carta che teneva in mano e chiesi cosa fossero. Sono passato dal Padule e questi sono gli ultimi miei disegni che studiano la meccanica del volo degli uccelli.
Feci per uscire in giardino ma si avvicinò e tenendomi per un braccio mi disse che prima di ridiscendere si era fermato in paese ed era andato in chiesa.
Poi avvicinandosi ancora di più mi sussurrò: ma di chi sono gli affreschi? Gli risposi che erano di Romano Stefanelli un grande pittore fiorentino allievo di un altro pittore ancor più grande di nome Pietro Annigoni.
Mi guardò negli occhi e mi confessò che erano veramente belli, tecnica antica, impostazione moderna. Fai sapere a questi di paese che hanno un tesoro di notevolissimo valore e di averne la massima cura che non tutti hanno questa fortuna.
Certo, sarà fatto gli dissi ed uscii fuori in giardino per controllare il fuoco che avevo preparato per l’arrosto, tutto procedeva a dovere.
JEAN VERMEER e CAREL FABRITIUS
Stavo per entrare in casa quando scorsi in fondo alla via Jan Vermeer e Carel Fabritius. Aprii il cancello e andai loro incontro, appena mi videro accelerarono il passo e mi salutarono con un cenno del capo.
Carel mi strinse la mano con forza e si complimentò del meraviglioso paesaggio che si godeva da questo poggio, Jan mi abbracciò con calore e mi confessò che non vedeva l’ora di arrivare perché il viaggio da Amsterdam gli era sembrato non avere mai fine.
Il sole era ormai all’orizzonte, le ombre allungate e… accidenti dovevo ancora finire di preparare la cena!
Entrammo in casa e li presentai agli altri ospiti.
Carel tirò fuori un quadro che aveva per soggetto un cardellino e dopo un sospiro carico di malinconia mi raccontò che l'esplosione di un magazzino di polvere da sparo in vicinanza del suo studio aveva causato la distruzione dell’intero quartiere e solo una dozzina di suoi dipinti erano scampati al disastro. Allievo di Rembrandt, Carel era stato l'unico a sviluppare uno stile artistico originale.
Con fare rassegnato l’attaccò al primo chiodo che vide libero sul muro.
Jan intanto guardava con curiosità i disegni di Leonardo sparsi sul tavolo quando tirò fuori da una bisaccia in pelle un quadro raffigurante una ragazza con l’orecchino.
Il volto idealizzato della fanciulla e il suo insolito abbigliamento conferiscono al dipinto un carattere di atemporalità, di mistero.
Un’aura di pace e di armonia pervade l’immagine, che sembra cogliere un momento arrestato nel tempo. Il modo in cui la giovane donna, con la bocca appena socchiusa, porge il suo sguardo volgendo il capo suscita in noi quasi la sensazione di aver disturbato i suoi sogni.
Il quadro invita alla congettura e questo aspetto ha sicuramente contribuito alla straordinaria popolarità del più famoso dipinto di Vermeer.
Dipinto che divenne famoso solo dopo la sua morte grazie ad un noto storico dell’arte Victor de Stuers, che riconobbe la qualità del dipinto tenuto in una soffitta seppur danneggiato dalla grave incuria e disse all’amico Arnoldus des Tombe di acquistarlo. Des Tombe riuscì ad aggiudicarsi il quadro per due soli fiorini, più trenta centesimi per commissione d’acquisto: un incredibile affare.
Si sostiene che Vermeer, come molti altri pittori della sua epoca, facesse largo uso della camera oscura per definire l'esatta fisionomia dei personaggi raffigurati e la precisa posizione degli oggetti nella composizione dei dipinti.
L'utilizzo di questo strumento ottico giustificherebbe ampiamente la mancanza di disegni preparatori precedenti ai dipinti di straordinaria precisione "fotografica" e fisiognomica di molti artisti fiamminghi, Vermeer dipinge soprattutto donne, delle quali riesce a rappresentare l'intimità domestica femminile.
Esistono numerosi falsi di Vermeer, dovuti ad uno dei più noti falsari del secolo scorso, l'olandese Han van Meegeren. Questo abilissimo falsario, utilizzando le stesse tecniche pittoriche dell'artista, creò numerosi dipinti con composizioni del tutto originali riuscendo a spacciarli come opere autentiche di Vermeer. Jan mi chiese da bere ed appese il quadro al muro raccomandandomi di averne cura.
Mentre andavo a prendere l’acqua vidi Leonardo che esaminava in modo attento uno per uno i quadri appesi. Tornato con la brocca feci il giro largo del tavolo apposta per passare accanto a lui e sentire cosa bofonchiasse a mezza voce.
Davanti al cardellino annuiva e diceva sorridendo “bene, bene”. Davanti alla “ragazza con l’orecchino di perla” sorrideva: si avvicinava e si allontanava di qualche passo poi di nuovo si avvicinava. Mentre versavo l’acqua per Vermeer sentii Leonardo che diceva “molto, molto bene! E’ avanti! Molto bene!”.
Finii di versare l’acqua e porsi il bicchiere a Vermeer che soddisfatto dei giudizi del grande vecchio sorrideva con la bocca fino alle orecchie.
Stavo per tornare in cucina quando vidi Leonardo spostarsi sul quadro di Tamara. Rallentai il passo fino a fermarmi dietro di lui. Scuoteva il capo mentre sussurrava “interessante, molto interessante…! Ma è troppo avanti! Troppo!”.
Stavo per fargli una domanda ma suonarono alla porta.
I FRANCESI
Tutti e cinque con una tela sotto mano, sembravano i moschettieri e non solo perché arrivavano dalla Francia, ma per quel loro modo di incedere austero e sicuro. Avanzavano pieni di sé, con passo da parata, risoluti nel difendere il proprio concetto di arte dalle critiche dei loro colleghi stranieri.
Accesi la luce esterna del giardino, erano rimasti gli ultimi raggi di sole ad illuminare le campagne di Massarella o come la chiamava Leonardo di Massapiscatoria.
Per di più si stava alzando un fastidiosissimo vento di tramontana e, a mano a mano che il sole calava, all’orizzonte montavano minacciose nuvole nere.
Paul Gauguin, Vincent Van Gogh, Henry Matisse, Paul Monet, Paul Cezanne. Paul Gauguin guidava il gruppetto dei “francesi”, il viso cotto dal sole, come solo i marinai possono avere. Aveva toccato tutti i porti più importanti del mondo, era un moto perpetuo tra l’Europa, il Sud America e l’Oceania.
Lo seguiva a ruota, come un cagnolino il suo padrone, Vincent Van Gogh l’unico olandese del gruppo con una vistosa fasciatura in testa. La loro amicizia si sapeva era turbolenta, anzi proprio drammatica, come testimonia l'orecchio di Vincent.
So per certo che Vincent aveva assalito Gauguin con un rasoio e fallito l'attacco, in preda ad una crisi di nervi, si era tagliato il lobo dell'orecchio sinistro.
Paul Monet era il terzo della fila. Barba bianca e sguardo serio. Arruolato nel Reggimento dei Cacciatori d'Africa, di stanza ad Algeri, rimase affascinato dalla luce di quei luoghi.
Quando venne chiamato a prestare il servizio militare, che sarebbe dovuto durare sette anni, il padre trovò un giovane che, in cambio di una somma di denaro, continuasse il servizio militare al posto suo, la qualcosa peraltro consentita dalla legislazione francese del tempo gli permise di continuare la sua formazione artistica.
Chiudevano la comitiva Henry Matisse, il più giovane dei quattro e Paul Cezanne.
A Matisse, la barba e gli occhialini , conferivano un’aria da professore universitario. Egli cominciò a dipingere durante la convalescenza seguente ad un attacco di appendicite.
Scoprì così "una specie di Paradiso" e decise di diventare un artista, con grande disapprovazione del padre. Paul Cézanne, Gauguin, Van Gogh ne avevano influenzato la formazione, ma piano piano tale influenza era andata scemando, nonostante fosse rimasta tra loro stima ed amicizia.
Ci salutammo con calore ed entrarono in casa.
Sotto l’occhio attento di Leonardo cominciarono ad appendere al muro le loro tele.
Paul aveva portato le “due donne tahitiane”. I contorni delle due figure sono segnati con un nero deciso che ne irrobustisce i tratti. I volti sono malinconici e creano un’atmosfera intima, quasi sacrale. La posizione dei corpi dà un senso di armonia e di equilibrio creando un’atmosfera di serenità e tranquillità.
Che profonda bellezza! Così bella ma così diversa dal nostro mondo disse a voce alta Vermeer.
Vincent aveva letteralmente strappato di mano il martello a Cezanne. Voleva essere lui il prossimo ad appendere il proprio quadro al muro. L’ho chiamato “Notte stellata”.
Questa tela l’ho dipinta durante il mio ricovero all’ospedale Saint-Remy, sono stato sveglio tre notti per poter osservare la campagna e cogliere appieno il pulsare di Venere all’alba.
Ho persino mangiato i colori direttamente dal tubetto, ma quando i dottori se ne sono accorti mi hanno fatto smettere di dipingere perché pensano che la mia malattia mentale è imputabile all'arsenico contenuto nel verde smeraldo, al piombo della biacca e al mercurio del vermiglio.
Molto interessante disse Leonardo lisciandosi la barba.
Quei cipressi fanno da immaginario ponte tra la terra e il cielo e traspare un evidente dualismo: calma e tranquilla la terra assopita nel buio e nel sonno, pulsante di energia e di vitalità il cielo notturno solcato dalla luce vibrante delle stelle.
Paul Cézanne, aveva con se una tela “Natura morta con cassetto aperto”, dove si intravedeva il suo genio eccentrico, i suoi esperimenti sulla percezione visiva, la semplificazione geometrica e la frattura delle forme.
La tela la voleva appendere in alto.
Salì su una sedia ma mise un piede in fallo e sarebbe caduto per terra, se Leonardo non lo avesse afferrato per un braccio.
Rimessosi in piedi, si divincolò furioso gridando: “Nessuno può toccarmi”.
Leonardo ci rimase malissimo, si guardò intorno, come per dire, ma cosa ho fatto di male. Se non lo acchiappavo al volo si rompeva l’osso del collo.
Non sapeva che Cezanne odiava essere toccato!
Henry trovò un chiodo già nel muro e vi appese la sua tela.
“Questa danza era in me; non ho avuto bisogno di stimoli esterni, ho attinto a qualcosa di vivo” disse in tono che non ammetteva replica e non necessitava di commenti ma solo di profonda riflessione.
Claude Monet sprofondato nella poltrona chiese cortesemente ad Herry di appendere anche la sua tela.
Raffigurava una “Donna col parasole” in un campo, nel mezzo di una giornata ventosa.
Che meravigliosi colori si lasciò scappare a denti stretti Matisse, e che contrasti aggiunse Tamara: vestito bianco della donna con chiaroscuro celeste.
“Che movimento: l’erba e le nuvole che vengono spostate dal vento” disse Fabritius.
Leonardo osservò che guardandolo da vicino le immagini sono decomposte in una molteplicità di tratti di colore, stesi a rapide pennellate; la figura è priva di contorni e di rifiniture.
Sembra un abbozzo sommario e approssimativo. “Ma, se mi sposto di un passo, le macchie prendono forma e godono di una certa autonomia, per poi ricomporsi e armonizzarsi tra loro, così l'insieme suscita impressioni profonde. Percepisco il soggetto come una cosa viva, animata, vedo la luce nell'aria, sento il vento che scompiglia i capelli e il rumore dell'acqua che scorre poco lontano”.
ARRIVA HAYEZ
Nella confusione, non mi accorsi che la porta era rimasta aperta ed era arrivato Francesco fermo sulla porta ad osservare i quadri appesi.
Francesco Hayez sembrava proprio un gran signore.
La barba bianca gli conferiva un aspetto da nobiluomo anche se lui in realtà era di origini umili.
La sua famiglia originaria - che comprendeva altri quattro fratelli - era poverissima, e segnata da vicissitudini e sofferenze: per questo motivo, il piccolo Francesco fu affidato a un'agiata zia materna di Milano sposata con Francesco Binasco, disinvolto antiquario e collezionista di opere d'arte, che ne intuì il talento e lo introdusse nell’esercizio della pittura.
Gli andai incontro, chiusi la porta chiedendogli come era andato il viaggio, ma non mi rispose. Mi porse invece due bottiglie di vino dicendomi di metterle al fresco.
Una era uno spumante adatto per un aperitivo, il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore e l’altro un vino rosso, il Tocai, prodotto col vitigno autoctono e indistinguibile dal Cannonau.
Stavo per avviarmi quando mi disse: “prima di andare dammi una mano ad appendere il quadro che ho portato”.
Annui, ed appoggiai per terra le due preziose bottiglie.
Sollevammo il quadro e lo appendemmo sopra il camino.
“E’ la mia prima versione de “Il bacio” - disse sottovoce -, quella a cui sono più affezionato; vi ho voluto raffigurare la forza della passione pervasa da una sensazione di quiete”.
Lo interruppi chiedendogli chi fosse quella sagoma in penombra sullo sfondo: una spia o un patriota? Mi guardò intensamente negli occhi, non disse nulla e si avviò a salutare gli altri commensali.
Sentii una voce affaticata che proveniva da fuori e pensai che fossero arrivati Amedeo e Giovanni.
DALI’
Sono il fattorino, mi aprite per favore? Mi affacciai dalla finestra per sincerarmi chi fosse, ma vidi solo un grosso pacco e due mani che lo tenevano per aria.
Andai alla porta ed aprii. Devo consegnare questo da parte di un certo Dalì, sì proprio così, Salvador Dalì disse il corriere inforcando gli occhiali da lettura per leggere meglio il nome aggiungendo: “che nome buffo!”.
Appoggiato il quadro sul pavimento stava per uscire quando tornò sui suoi passi e disse: “mi stavo scordando che insieme c’è anche questa lettera” e prontamente me la porse prima di salutare ed andare via.
Aprii subito la missiva, poche frasi: spiacente di non poter essere tra voi, vi invio questo quadro che vuol essere un omaggio a questi meravigliosi luoghi. Firmato Salvador.
Era un quadro di grandi dimensioni così chiesi a Fabritius di aiutarmi a sollevarlo e ad appenderlo.
Quando togliemmo l’incartamento ci aiutò anche Leonardo che con espressione ammirata disse ad alta voce: “si vede che conosce l’anatomia e che prospettiva audace!”
Originale poi inserire il Cristo nel Padule di Fucecchio.
Tutti gli altri che avevano assistito alle operazioni rimasero a bocca aperta tranne Vincent che piegava la testa e poi il busto per cercare di vedere la figura al contrario dato che il cristo era capovolto e quando Leonardo allontanandosi di qualche passo sussurrò: “Oh si!” Partì un applauso spontaneo.
Ora mancavano solo Amedeo e Giovanni ma siccome l’ora si era fatta tarda, invitai i commensali a cominciare a servirsi l’aperitivo e mangiare gli antipasti.
GIOVANNI FATTORI
Avevo appena afferrato una tartina che il campanello suonò in maniera insistente.
Era Giovanni Fattori che senza neanche salutare chiese se Modigliani fosse già arrivato. Avutone risposta negativa scosse il capo e disse: “Buonasera a tutti e scusate il ritardo ma ho atteso a Livorno Modigliani che non si è fatto vivo”.
I baffi e lo sguardo arguto confermavano il suo carattere ribelle e sanguigno.
Da giovane godeva la fama di essere il più sovversivo studente della scuola e che le sue burle e malefatte erano degne di nota.
Non aveva mai condiviso i valori della nobiltà che frequentava, ma siccome gli avevano dato fama e ricchezza si era abituato a convivere con quell’abominevole “aristocrazia di casta”.
Mise in terra la valigetta di legno che poi non era altro che una cassetta per i colori che fungeva anche da cavalletto da campagna e ne tirò fuori una piccola tavoletta e disse: “attenzione è fresco!”
L’ho dipinto stamattina dopo una lenta meditazione, ripensamenti ed osservazioni dal vivo alla rotonda dello stabilimento balneare di Palmieri, sul lungomare di Livorno.
Si avvicinò al camino e la appoggiò sopra.
Monet chiese chi erano quelle donne, se fossero delle signore “per bene” che facevano i bagni d’aria. Matisse aggiunse di apprezzare come ciascuna delle donne fosse colta in un diverso atteggiamento, in una sorta di ritmico andamento. Leonardo notò come il quadretto su cui era stata dipinta l'opera fosse stato ricavato dal coperchio di una scatola di sigari, ma lo tenne per sé.
Andai a chiudere la persiana che aveva cominciato a cigolare in modo fastidioso e continuo e mi accorsi che stava piovendo con una certa insistenza, tuoni e fulmini squarciavano il cielo rendendo il paesaggio dantesco.
Era l’ora di sederci a tavola e cenare. Afferrai il campanellino e lo feci suonare. Il brusio cessò e dissi ad alta voce: “Signori, tutti a tavola”
AMEDEO MODIGLIANI
C’eravamo appena seduti a tavola, con Leonardo al centro, alla sua destra Van Gogh ed i francesi con Cezanne capotavola e sulla sinistra Hayez, Fattori, Lempicka, Vermeer e Fabritius ed io che mi ero messo capotavola vicino alla porta che dà sulla cucina per poter aiutare la signora Nibandi mia vicina di casa ed ottima cuoca che amante della pittura si era offerta di darmi una mano per allestire la cena che sentimmo bussare alla porta.
Mi alzai da tavola e mi avviai ad aprire l’uscio. Mi trovai di fronte Amedeo Modigliani tutto bagnato, spettinato e con la giacca strappata.
Da tavola Giovanni Fattori che per primo si era accorto del suo arrivo gridò ad alta voce: “Deh, si può sapere che fine avevi fatto, ti ho aspettato inutilmente per quasi due ore”.
Amedeo ansimante e spaventato disse a bassa voce: “Ero andato in casa di una mia “amica” per mostrargli le mie ultime sculture, una testa di granito, e due blocchi di pietra serena scolpiti con tratti duri ed allungati che d’ improvviso è comparso il marito, un marcantonio di portuale livornese di quasi due metri.
Vedendomi in mutande avvinghiato alla sua signora ha preso un bastone e voleva menarmi.
Ho fatto in tempo ad arraffare i pantaloni e le sculture e a fiondarmi per strada, mi aveva pure chiappato per la giacchetta che meno male s’è strappata e lui è cascato lungo in terra.
Guardate qui! Deh o un s’è riarzato! Ha cominciato a rincorrermi lungo il fosso mediceo. Sentivo distintamente le bestemmie e le maledizioni che mi mandava mentre guadagnava terreno e io via gli davo di gamba e lui dietro che s’avvicinava, tanto che, spaventatissimo, nel tentativo di distanziarlo maggiormente ho dovuto sbarazzarmi delle teste gettandole nel fosso.
Poi ho svoltato l’angolo e non visto mi sono infilato in un portone e ci sono rimasto per più di un’ora, ecco perché sono in ritardo”. A questo punto il Fattori non si trattenne ed esclamò: “O te, di dietro un t’è sceso nulla ma davanti mi sa…” Amedo indicando fuori disse che era acqua. “Non sei cambiato per niente” lo incalzò Giovanni rimproverandogli la vita che conduceva, fuori dagli schemi, da bohémien, sregolata, dedito al bere, agli stupefacenti e alle donne.
Tutti rimasero ammutoliti.
Hayez che aveva seguito il racconto con molta attenzione sembrò perdersi nella nebbia del tempo, vagò con la mente e pensò con un leggero sorriso al periodo della sua giovinezza quando era stato accolto da Giuseppe Tambroni, console al servizio del Regno Italico, nell'elegante palazzo Venezia, ed aveva avuto modo di conoscere la giovane figlia sposata del maggiordomo dell'ambasciata, e di instaurare con lei una relazione clandestina; l'intera vicenda, quando la cosa si seppe, suscitò un tale scandalo che l'artista venne assalito proditoriamente dal marito della giovane amante.
Che bel periodo pensò tra se e se.
Solo Tamara portando la testa all’indietro con un movimento sensuale scoppiò in una fragorosa risata ed invitò Amedeo a sedersi accanto a lei. Io penso che volesse conoscere i particolari della vicenda, quelli più pruriginosi.
Amedeo aveva portato con se un ritratto di Jeanne, la moglie, che appese al muro, prese posto tra Tamara e Giovanni il quale non riuscì a trattenersi e gli disse con ironia che ora con tutto quel pesce sai che bella mangiata di aria fritta ci si faceva!
“Beviti una gozzatina, e ripigliati va’ ch’è meglio”. E così Amedeo si sedette e bevve un bicchiere di vino rosso e poi alzandosi si scusò di non aver portato il pesce ma gli accadimenti appena raccontati non gli avevano fatto ricordare dell’impegno preso.
LA CENA
Non sembrava di essere seduti a tavola in una comune sala da pranzo di una vecchia casa di campagna ma piuttosto in una galleria d’arte o in un museo. Di fronte a noi commensali appese al muro c’erano delle opere d’arte tra le più belle al mondo.
Dalla cucina comparve la signora Nibandi, con nella mano destra un vassoio di affettati: prosciutto crudo e finocchiona e nell’altra un vassoio di fettunte calde e profumate.
Buonasera a tutti disse sorridendo oggi vi farò assaggiare la specialità del posto, la zuppa di pane contadina, sostanzioso e gustoso piatto della nostra tradizione povera. E’ a base di verdure fresche dell'orto, pane raffermo e, per dare più sapore, un osso di prosciutto. Ma intanto per cominciare ho pensato bene di portarvi questi e tra un attimo arriveranno pure i crostini toscani, vera delizia per il palato disse appoggiando sul tavolo i vassoi.
Vincent non perse tempo e si avventò sul vassoio riempiendosi il piatto. “Chissà quando mi ricapiterà una cena così” disse a bocca piena. Hayez prese solo gli affettati perché era allergico all’aglio ed anzi chiese cortesemente che il vassoio con le fettunte fosse tenuto più lontano possibile da lui. Si servirono quasi tutti, solo Tamara non prese niente, sorseggiava assorta il suo bicchiere di vino.
La signora Nibandi intanto aveva portato a tavola i crostini alla toscana. “E’ tutto fatto in casa”, disse con una punta d’orgoglio.
Ottimi, proprio come piacciono a me esclamò Leonardo. Veramente squisiti gli fecero eco gli altri commensali. “A proposito - riprese Leonardo - ho sentito parlare spesso e bene di una sagra paesana, vorrei saperne di più”.
La signora Nibandi si sentì chiamata in causa e non si tirò indietro: «La Sagra di Massarella è nata nel 1971, su suggerimento del pievano dell’epoca allo scopo di animare il paese con un’iniziativa originale in occasione della festa patronale e per valorizzare un piatto povero della tradizione contadina. Da allora la manifestazione è andata sempre crescendo e ha attirato numerosi visitatori dai paesi vicini, favorendo incontri e la nascita di amicizie. Tra qualche anno festeggeremo il 50° anniversario. Per me, che sono stata una delle fondatrici, sarà motivo di grandissima soddisfazione».
“Mi perdoni, - fece Fattori - ma è vero ciò che ho sentito dire da alcuni colleghi livornesi, che in periodo di sagra ha luogo anche un concorso di pittura?”.
«Certo che è vero! Ogni due anni viene indetto un “Concorso di pittura estemporanea” al quale partecipano molti pittori, numerosi dei quali provenienti da Livorno, attratti forse dai premi in palio piuttosto sostanziosi riservati ai vincitori. Il concorso ha lo scopo di vivacizzare la festa e darle, per così dire, anche un risvolto artistico-culturale». La brava cuoca non disse altro e ritornò prontamente in cucina.
Tutti erano chini sul proprio piatto e, come per incanto, nessuno parlava.
A rompere il silenzio fu Modigliani che disse: “Certo che se penso a quello che mangiavo in Francia durante gli anni della miseria, mi stupisco di essere ancora vivo. Pensate che non avevo mai un soldo in tasca e per mangiare pagavo Rosalie, la proprietaria di un piccolo bistrot, con un disegno. Sì, proprio cosi - ribatté forte - barattavo un piatto di pasta con un mio schizzo. Mi ricordo anche che si rifiutava di servirmi da bere se prima non mangiavo”.
Beh, anch’io tutt’ora non me la passo tanto bene, intervenne Vermeer dopo aver ascoltato attentamente, visto che i pagamenti si allungavano ultimamente abbiamo cominciato a vendere i nostri prodotti al mercato di Delft: le uova, e la carne degli animali del nostro cortile.
Vendiamo anche i biscotti e i dolcetti preparati dalla nostra domestica che vi assicuro vanno letteralmente a ruba.
Venne servita la zuppa di pane. Fattori ne prese una porzione doppia dicendo che così buona l’aveva mangiata una volta sola, quattro anni fa sempre a Massarella durante la sagra del paese.
La signora Nibandi che aveva portato altre tre bottiglie di vino, s’impettì tutta e disse con una punta d’orgoglio: “ci credo quell’anno cucinavo io!”
“Io sono abituata al caviale e allo champagne” disse la Lempicka rifiutandosi di assaggiare la zuppa.
Gauguin mangiava in silenzio, vedendo bere oltre il dovuto Vincent gli era venuto in mente il periodo in cui viveva con lui e di quando dopo aver bevuto un bicchierino d’assenzio glielo aveva scagliato addosso e che spesso di notte se lo trovava in piedi accanto al letto che lo fissava. Scosse la testa come per allontanare questi brutti ricordi e chiese a Monet di passargli la brocca dell'acqua.
Cezanne stava pensando che gli sarebbe piaciuto raffigurare una tavola imbandita come questa ed era concentrato nell’ osservare non tanto le pietanze che c’erano sul tavolo quanto il riflesso della luce. Gli sarebbe piaciuto dimostrare la sua maestria nella resa dell’effetto vitreo sui bicchieri e le bottiglie.
Fu servita la bistecca alla fiorentina, degli arrosti misti e un’insalata d’erbe di campo. Leonardo fece un gran sorriso e allargando le braccia disse: “Oh eccola qui! La mia fiorentina!”
Tamara prese solo l’insalata. Aveva mangiato solo l’insalata, ma in compenso si era bevuta da sola una bottiglia di vino ed ora puntava a quella vicino a Fabritius.
Sapevo che beveva ma non pensavo così tanto. Speriamo che non si ubriachi e che non dia di fuori. Avevo notato come guardava la signora Nibandi, mi avevano raccontato di certe sue tendenze pensai tra me e me: “Mah, speriamo che non si lasci andare e non commetta qualche sciocchezza”.
Si giunse alla fine della cena e vennero portati i cantuccini e del vinsanto.
Fabritius fece per pulirsi la bocca alla tovaglia ma Leonardo lo fermò. La noncuranza e la sporcizia durante i banchetti di Ludovico il Moro nel suo soggiorno a Milano gli avevano procurato un senso di profondo fastidio che lo portò a realizzare una piccola tovaglia per ognuno dei commensali per pulirsi la bocca: il tovagliolo.
Al vecchio non sfuggiva nulla!
Io che avevo seguito la scena, dissi ad alta voce: “Scusatemi ma mi sono scordato di mettere i tovaglioli, provvedo subito. Accidenti a me! Quando apparecchio tavola comincio sempre dai tovaglioli ed oggi me ne sono scordato. Che figura di m…a!”
Notai che il vinsanto era molto apprezzato tanto che era già finito e quindi ne misi in tavola altri due fiaschetti.
L’ARTE
A quel punto Matisse, picchiettando con il coltello su un bicchiere vuoto, prese la parola e mi chiese ad alta voce: “Mi spieghi e ci spieghi perché ci hai invitato a questa cena?”
Si fece silenzio, notai che tutti gli occhi dei commensali mi fissavano incuriositi. Mi alzai in piedi e dissi: “Era tanto che ci pensavo, ad un convivio del genere, volevo ammirare le vostre opere e poi mi interessava sapere dalla vostra viva voce cos’è per voi l’arte della pittura”.
Tutti tacquero, come raccolti in religioso silenzio. Fuori imperversava il temporale, l’acqua cadeva a catinelle ed il vento era talmente forte che si sentiva distinto lo sbattere furibondo dei rami degli alberi intorno alla casa, squassati dalla bufera.
Parlò per prima la Lempicka, gli occhi persi nel vuoto ed il bicchiere tra le mani: “Per me la pittura è stata la risposta alla mia infelicità matrimoniale. I miei quadri e l’arte in generale devono rappresentare il disagio psicologico del mondo moderno, il malessere dell’uomo”.
Hayez ribattè con ardore: “La pittura deve rappresentare la realtà, la società, i sentimenti propri e degli altri uomini, aggiungendo che l’opera d’arte deve essere rivolta al popolo intero ed ha una funzione educativa. Ecco perché la mia pittura propone temi ispirati alla storia nazionale ed i miei colori sono spesso veicolo di messaggi patriottici”.
“Non sono d’accordo” ribatte Modigliani: “l’arte deve mettere a nudo l’anima senza farsi coinvolgere, mantenendosi distante dal soggetto raffigurato in modo da non essere condizionata ed in un certo senso alterata. Per me l’arte è sintesi formale, semplificazione ed espressione immediata”.
Prese la parola Van Gogh, gli occhi lucidi e la voce impastata, sussurrò solo poche parole: “L’arte deve esprimere solo quello che si possiede dentro la mente e il cuore”.
Gli fece eco Gauguin: “La pittura non è la copia del vero e l’imitazione della natura. E’ intima ricerca che si esprime sinteticamente con i puri colori accostati a contrasto sulla tela”.
Vermeer a sentire queste affermazioni divenne rosso paonazzo, si alzò in piedi: “L’arte deve rappresentare il vero, l’immagine dipinta deve essere quanto più possibile reale. Deve fissare sulla tela il tempo storico ed il senso della vita, illuminandolo e rendendolo cosa viva”.
Fabritius annui con la testa dicendo: “Proprio così, tutto vero!”
“Secondo me, non è importate riprodurre il vero, quanto fissare sulla tela l’emozione e l’impressione visiva della realtà. Dipingere è osservare e restituire le sfumature generate dalla luce e le sensazioni provate”. “E’ arte cogliere l’attimo fuggente”, asserì Monet.
Cezanne che aveva ascoltato con attenzione disse che a suo parere è l’interpretazione razionale che porta a riconoscere le forme e lo spazio. Nel colore noi dobbiamo sintetizzare la visione ottica e la coscienza delle cose. Nella pittura ci sono due cose: l’occhio ed il cervello ed entrambe devono aiutarsi tra loro.
“E’ l’uso del colore per la creazione di sagome e per l’organizzazione di piani spaziali, è questo il nocciolo della questione” disse Matisse. “Il colore diventa lo strumento principale per la riuscita dell’opera d’arte e secondo me aggiunse, siccome l’artista non possiede il completo controllo sul colore e sulle forme, nella creazione di un’opera d’arte l’istinto e l’intuizione sono due capacità fondamentali”.
Fattori che sino ad allora aveva preso appunti su un foglio di carta ed annotato il parere dei colleghi disse: “La forma non esiste, ma è creata dalla luce, come macchie di colore distinte o sovrapposte ad altre macchie di colore, perché la luce, colpendo gli oggetti, viene rinviata al nostro occhio come colore.
Quindi l’arte consiste nel rendere le impressioni che si ricevono dal vero con macchie di colori, con i chiari e con gli scuri”.
Ci fu nuovamente silenzio, gli occhi di tutti erano puntati su Leonardo che sembrava quasi assente, assorto nei suoi pensieri nell’intento di raccogliere idee quando cominciò a parlare.
“Vi ringrazio, avete detto tutti delle verità che custodirò con me come un prezioso tesoro. Vorrei semplicemente dire che per me la pittura è scienza, anzi la vera scienza si identifica proprio con la scienza della pittura: la quale pittura è prima nella mente del suo speculatore e non po’ pervenire alla perfezione senza la manuale operazione. La scienza della pittura con l’invenzione della prospettiva rende “vedente” la geometria e dunque la scienza della pittura è vera scienza, coinvolgendo il discorso mentale, la razionalità matematica, l’esperienza e l’operazione manuale: occhi, mente, mani”.
Cominciai a battere le mani, a me si unì Matisse, poi Fattori e Van Gogh seguito da tutti gli altri. Ci alzammo in piedi in segno di rispetto a Leonardo che ci guardava divertito. L’applauso non accennava a cessare anzi divenne ancor più fragoroso ma si smorzò di colpo quando andò via la luce e la porta si aprì all’improvviso.
Un lampo squarciò il buio della notte, fece intravvedere la pioggia insistente che per la spinta del forte vento cadeva obliqua ed illuminò la sagoma di un uomo, vestito di scuro, fermo sull’uscio.
Lo riconobbi subito: statura media e spalle larghe, capelli neri e ricci e una barbetta che gli incorniciava il viso scarno ed austero: era Michelangelo Buonarroti, toscanaccio bizzoso e prepotente, uomo solitario e ombroso che puntando minacciosamente il dito verso di me disse: “Noi due faremo i conti in un altro momento, ma ora davanti a tutti dovrai spiegarmi perché non sono stato invitato a questa cena”.
Poi, senza attendere la mia risposta, rivolgendosi a tutti i presenti e fissando con astio Leonardo, disse con tono strafottente: “Ho ascoltato da fuori tutto ciò che avete detto. Le vostre chiacchiere lasciano il tempo che trovano. Rammentate sempre: il più grande artista sono io! Avete voglia di parlare, vi basti solo ricordare che il Padreterno ha voluto che fossi io e non uno qualsiasi di voi ad affrescare la Cappella Sistina”.
Non aggiunse altro, si voltò di scatto, sbatté l'uscio e sparì nella notte.
Restammo esterrefatti. Ripresici commentammo l’accaduto, riprendemmo a chiacchierare d’arte e a sorseggiare del buon vino fino all’alba, quando con le prime luci del giorno ognuno riprese la strada del suo tempo.