UNA CENA SENZA TEMPO(parte seconda:le partenze)


LE PARTENZE

Se ne andarono quasi tutti alla spicciolata. Così mi raccontò la signora Nibandi che si era intrattenuta tutta la notte un po’ per ascoltare l’interessante discussione tra artisti di indubbia fama e un po’ per sparecchiare e riassettare la casa.

Mi svegliai d’improvviso, con la testa pesante e la mente confusa: «Accidenti a me e a quando bevo troppo!». Pensavo di essermi appisolato sulla poltrona per una decina di minuti, così mi era parso, ma invece avevo dormito pesantemente per due ore e avevo pure russato.

I miei ospiti, per non disturbarmi, avevano incaricato la signora Nibandi di ringraziarmi dell’ospitalità.

Tamara, come era arrivata per prima, per prima se ne era andata. Salutò distrattamente gli altri commensali e si avviò a passi svelti lungo il viottolo che portava in paese. Aveva parcheggiato la sua Bugatti verde nel parcheggio antistante la chiesa. Dopo una notte insonne, pur avendo bevuto come una spugna e fumato una sigaretta dopo l’altra, aveva un viso riposato e fresco come una rosa appena sbocciata. Salì in macchina, indossò un paio di guanti, un caschetto in pelle ed un foulard e dopo essersi messa il rossetto e guardata allo specchio mise in moto e partì a tutta velocità diretta a Parigi.

Giovanni Fattori aveva sonnecchiato e, appena visto il primo raggio di sole, dopo aver chiesto alla signora Nibandi un robusto caffè, aveva preparato la sua cassetta dicendo che aveva notato degli scorci interessanti e che avrebbe approfittato per andare a fare qualche schizzo. Aggiunse che forse sarebbe passato più tardi per salutarmi e prendere un altro caffè.

I francesi Gauguin, Matisse, Monet e Cezanne con la scusa del lungo viaggio si erano riempiti le bisacce con i resti della cena, un prosciutto e due salami toscani, dodici uova fresche e tre forme di pane appena sfornato.

Salutarono con calore la signora Nibandi e si avviarono in fila indiana e in silenzio verso la Francigena.

Van Gogh, che tanto per cambiare aveva litigato con Gauguin per via di un prestito negato di pochi denari, aveva deciso di tornare in Olanda con Fabritius e Vermeer.

Pensando di non essere visto, aveva nascosto la bottiglia del Tocai dentro la tasca interna della giacca che, pendendo in maniera strana, aveva fatto assumere a Vincent una postura grottesca.

Anche lui aveva chiesto qualcosa da mangiare per il viaggio, ma la signora Nibandi alzando le spalle gli aveva risposto che la dispensa era stata presa d’assalto e ripulita dai francesi.

Sentendo questo, aveva cominciato a snocciolare un rosario di imprecazioni e bestemmie, tanto che sia Fabritius che Vermeer cominciarono a ridere a crepapelle, e più ridevano e più lui ci dava dentro con le peggiori parolacce e maledizioni.

La signora Nibandi, brava cristiana timorata di Dio, non ci vide più, prese la scopa di saggina e cominciò a picchiarla in testa a Van Gogh che, sorpreso, fece per ripararsi l’orecchio ferito e si fiondò fuori dalla porta continuando a smoccolare a denti stretti.

Uscirono anche Carel e Jan, dopo aver ringraziato dell’ospitalità ricevuta.

Francesco Hayez, seduto al tavolo, ascoltava Leonardo, che aveva disegnato su un foglio di carta un carro coperto e ne spiegava i particolari e l’uso. Il progetto di Leonardo rappresentava un carro armato a forma di testuggine, rinforzato con piastre metalliche, sormontato da una torretta interna di avvistamento e armato di cannoni. Il movimento e la direzione del carro era garantito da otto uomini che azionavano dall'interno un sistema di ingranaggi collegato alle quattro ruote.

Gli rimuginavano nella mente le parole di Metternich che aveva asserito che l’Italia altro non era se non una semplice espressione geografica. Al ricordo di tale frase nei suoi occhi era comparsa una scintilla di odio e di rancore. Sapeva che più che un arrogante disprezzo nei confronti dell'Italia e di coloro che puntavano alla sua unificazione, a muovere Metternich era il calcolo politico di mantenere divisa la penisola, permettendo al suo paese di esercitare una stretta influenza sugli stati italiani. Appena rientrato a Milano, si riprometteva di incontrare Mazzini e di illustrargli il suo progetto di carro coperto o testuggine o come cavolo lo si sarebbe voluto chiamare. Gliela avrebbe fatta vedere lui a Metternich!

Hayez chiese a Leonardo se poteva tenere i disegni. Il maestro non solo annuì, ma aggiunse che se fosse passato da Vinci gli avrebbe fatto vedere altri disegni e prototipi di macchine da guerra.

L’autore de “Il bacio” lo ringraziò con una energica stretta di mano, indossò cappello e mantella, afferrò il suo bastone da passeggio e usci con passo malfermo in giardino. Una carrozza lo aspettava.

MODIGLIANI

In quel momento sentii tirare lo sciacquone e dal bagno venne fuori Amedeo con i capelli scompigliati ed il volto segnato da una notte insonne.

«Nottataccia?» gli dissi

Lui annuì senza proferire parola, si avviò con passo strascicato verso la caffettiera, si versò in un bicchiere una generosa porzione di caffè, poi sempre in silenzio prese una sedia, si sedette di fronte a me e con gli occhi persi nel vuoto cominciò a sorseggiare avidamente la calda bevanda.

Dopo un po’, con la voce ancora impastata, mi chiese se poteva trattenersi ancora qualche giorno da me perché le cose tra lui e Jeanne in quel periodo non andavano affatto bene.

Jeanne aveva conosciuto Modigliani all'Accadémie Colarossi quando ancora era determinata a fare l'artista. Lui era appena uscito da una storia d'amore con la poetessa Beatrice Hastings, ricca milady, poetessa e scrittrice indipendente, incline all'alcol e alle manifestazioni violente di gelosia. La diafana Hébuterne era tutto il contrario: timida, silenziosa, si teneva sempre in disparte e a stento riusciva a celare un senso di disprezzo per gli amici di Modì, che non vedevano in lei alcuna delle eccentricità delle femmine del loro giro di Montparnasse. Sopportava le notti che Modì passava ubriaco sulla panchina di fronte al Café de la Rotonde, i tradimenti e le persecuzioni delle sue ex amanti.

Ma a tutto c’è un limite: la goccia che aveva fatto traboccare il vaso ed esaurire la sopportazione di Jeanne era stata l’insistenza di Simone, che pretendeva il riconoscimento da parte di Amedeo del figlio che avevano messo al mondo, proprio ora che mancavano poche settimane alla nascita della loro figlia.

Da quel momento si era chiusa in un mutismo esasperato.

Gli misi una mano sulla spalla e gli dissi che questa era casa sua e che poteva trattenersi quanto voleva, a patto di non dimenticare che da lì a poco sarebbe diventato un’altra volta padre. Parve rincuorato.

Mi alzai per andare a lavarmi il viso e prendere una tazzina di caffè, quando realizzai che i miei ospiti avevano lasciato i quadri appesi al muro e non se li erano portati via.

«Porca miseria, e ora?» pensai tra me e me.

La signora Nibandi che aveva capito il mio stupore, si affrettò a spiegarmi il motivo di tale scelta. Mi riferì che Matisse, parlando a nome di tutti, aveva detto che mi avrebbero lasciato i quadri per qualche giorno, e che poi io glieli avrei potuti riportare con comodo.

Leonardo, che aveva intuito il mio disappunto, disse: «Il mio quadro lo porto via subito anche perché, come ti ho accennato ieri, l’ho già venduto e lo aspettano in Francia con trepidazione e ho un presentimento … che rimarrà per sempre là».

Così dicendo si affrettò a raccogliere i suoi schizzi e a riporli in una grande borsa di pelle e poi staccò la Gioconda dal muro.

«Veramente ottima quella fiorentina!» disse girandosi verso di me. Poi ci salutò con un cenno di mano e prese la via per Vinci.

IL MIO LUNGO VIAGGIO

In un attimo decisi il da farsi. Sarei partito l’indomani dopo essermi fatto prestare il furgoncino e caricato i quadri.

Per prima cosa avrei fatto tappa a Livorno, riaccompagnando Modigliani e consegnando il quadro a Giovanni Fattori, poi avrei proseguito per Milano per dare il quadro ad Hayez e in seguito mi sarei diretto a Parigi, dove avrei trovato quasi tutti gli altri, eccetto Carel e Jan che invece avrei incontrato in Olanda.

Partimmo di mattina presto e in un amen ci trovammo alle porte di Livorno L’aria tersa e l’odore del mare ci dettero il benvenuto.

Il quartiere Venezia costruito sui canali pulsava come ogni giorno di vita e nel Mercato delle vettovaglie, il mercato coperto più grande d’Europa, si poteva ritrovare tutto lo spirito di Livorno, le sue battute e il suo buonumore. Ci dirigemmo in via Roma 38, dove abitava Eugenia Garsin, la madre di Modì, e dove in quel periodo erano ospiti Modigliani e Jeanne. Appena ci vide, l’anziana signora ci venne incontro e, tutta agitata, rivolgendosi ad Amedeo rivelò che, nonostante l’insistenza per farla restare, Jeanne era voluta partire a tutti i costi per Parigi. Non era valso a niente ricordarle che in quelle condizioni sarebbe stato meglio portare a termine la gravidanza a Livorno.

DA HAYEZ

Dopo aver gustato, al dire il vero in tutta fretta, gli spaghetti con le vongole cucinati dalla signora Eugenia e averla pregata di consegnare il quadro al Fattori, salutammo e ci avviammo alla volta di Milano.

Modigliani era tesissimo e nervoso, fumava una sigaretta dopo l’altra. Era preoccupato per Jeanne, e molto seccato di dover passare per Milano e non poter andare direttamente in Francia. Dissi che mi dispiaceva e che, d’altronde, non potevo fare diversamente.

Arrivammo a Milano all’imbrunire. Ero curioso di vedere lo studio di Hayez, sapevo da quello che aveva scritto Mazzini che:

“L’ Hayez è lavoratore assiduo; trascorre le intere giornate solo, nel suo studio, di cui apre egli stesso la porta, e non ha nulla di quell'affettata apparenza che è prediletta da tanti pittori. Le sue maniere sono semplici, franche, talvolta rudi e burbere, ma che tradiscono sempre la bontà. Il suo viso bruno è aperto e pieno d'espressione: la sua fronte serena, i suoi occhi brillanti”.

Venne ad aprirci Angela Rossi, incantevole figlia adottiva di Francesco che ci fece accomodare direttamente nello studio. Appena Amedeo la vide, si sistemò la sciarpa di seta che portava al posto della cravatta e cominciò ad assumere quell’atteggiamento da … “pittore maledetto” che tanto piace alle donne.

«Che bischero! E pensare che due minuti fa piagnucolava e si disperava per la sua Jeanne! Mah! Aveva ragione Giovanni Fattori, era proprio uno scapestrato donnaiolo», ma - aggiungo io - che piaceva.

Lo studio era assai semplice: una stanza non troppo grande ingombra di vari leggii sui quali posavano i quadri a cui stava lavorando, le pareti erano spoglie senza disegni, carte, o abbozzi. Hayez, seduto ci salutò e mi ringraziò di avergli riportato la sua opera. Disse che dopo la morte dell’amata moglie gli era sempre più difficile lavorare, e aggiunse: «Avevo l’abitudine, dopo qualche schizzo e senza moltiplicare gli studi sul soggetto, di dipingere alla prima i quadri e di inviarli ai committenti senza tenerne o disegni o ricordanze.

Purtroppo tutto questo mi è diventato ogni giorno sempre più difficile».

Pensai tra me e me: «É il genio che crea e che mai si volta indietro».

Il tempo di vedere qualche lavoro e ci rimettemmo in viaggio.

ALLA FRONTIERA

Arrivammo alla frontiera di Ventimiglia, versante francese verso le tre del mattino, i gendarmi ci chiesero i documenti e ci fecero scendere.

Cominciarono a perquisire il furgone e tirarono fuori tutti i quadri. Venni a sapere in seguito che qualche giorno prima avevano arrestato un gruppo di intermediari che gestivano un redditizio traffico di opere d’arte false.

C’erano voluti mesi e mesi di pedinamenti e filmati, intercettazioni telefoniche e ambientali, perquisizioni e consulenze tecniche, ma alla fine ce l’avevano fatta. Il sequestro fu il coronamento delle lunghe indagini su un traffico internazionale di opere d’arte condotte dai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico di Firenze in collaborazione con la Gendarmerie parigina. Temevano che anch’io, provenendo dalla Toscana, fossi o un intermediario o un falsario che riproduceva opere di grandi maestri per poi immetterle sul mercato clandestino. Spiegai loro che stavo riportando i quadri ai legittimi proprietari che, come gesto di cortesia, li avevano portati in Italia a Massarella in occasione di una cena tra artisti.

Un gendarme mi fece cenno di mettermi seduto ed aspettare tranquillo la fine dei controlli.

Modigliani, sempre più nervoso per questo ulteriore ritardo, aveva finito le sigarette ma era riuscito a farsene offrire una da un gendarme che, vista la velocità con cui l’aveva fumata, impietosito, gli aveva regalato l’intero pacchetto.

Mi appisolai.

Venni svegliato verso le cinque da una voce che ripeteva insistentemente la frase: «Potete andare. É tutto a posto».

Dopo aver chiesto dov’era il bagno ed essermi rinfrescato il viso, svegliai Amedeo, e prendemmo un caffè alla macchinetta. Faceva veramente schifo, non era neanche lontanamente paragonabile al nostro italico espresso.

Servì solo per scaldarci e svegliarci, lasciandoci in bocca un retrogusto amaro.

Seppi solo al mio ritorno e dopo qualche tempo che ci fecero andare perché avevano telefonato in piena notte alla caserma dei carabinieri di Fucecchio e il maresciallo, mio buon amico, aveva garantito per me.

Ripartimmo, decisi ad arrivare a Parigi prima di sera.

FINALMENTE A PARIGI

Arrivammo nei pressi dell’abitazione di Amedeo intorno alle 18,00. Era un modesto appartamento pieno di tele appoggiate dappertutto dove c’erano due cavalletti. Lì Amedeo e Janne dipingevano tra passione e stenti.

Janne non c’era.

Amedeo mi raccontò che la loro relazione non era accettata dagli Hébuterne che anzi la contrastavano vuoi per la differenza d’età vuoi per via della nomea d’artista scapestrato che gli era stata attribuita. Ma Jeanne, ragazza pur timida ma dal carattere deciso, era andata a convivere con lui, incurante del fatto che per punizione gli Hébuterne li avessero lasciati vivere in un appartamento privo di riscaldamento.

In quel momento si sentì aprire la porta e comparve Jeanne, occhi di un verde smeraldo chiaro, leggermente strabici che con una mano si reggeva il pancione e con l’altra qualcosa che aveva comprato per la cena.

Non riuscivo a capire come mai la ritraesse sempre con gli occhi azzurri.

Amedeo gli andò incontro e l’abbracciò teneramente.

«Amedeo, Amedeo - disse con un filo di voce - non vogliono farmi più credito in bottega, solo il mio pancione li ha convinti a farmi prendere qualcosa. Per di più ieri è venuto il padrone di casa che reclamava gli affitti arretrati».

«I prossimi giorni regolerò tutte le mie pendenze», disse sbrigativo Amedeo. Lo diceva ma non ci credeva neanche lui.

Mi presentò a Jeanne, che mi salutò con un sorriso.

Dopo aver dato un’occhiata ai vari dipinti chiesi ad Amedeo se era in vendita quella tela con la “Donna sul divano rosso”.

«Se è per te, te la regalo» disse immediatamente.

«Neanche per sogno!» ribattei io gli lasciai in una busta dei soldi, presi il quadro, salutai e ripresi la mia strada.

Mi sentivo in pace con me stesso!

Con i soldi che gli avevo lasciato sarebbero stati bene almeno per qualche mese, avrebbero vissuto la nascita della figlia con più serenità, ripianando i debiti in attesa di migliore fortuna.

Ripartii per immergermi nella vita parigina.

Parigi era una capitale in pieno fermento, dal clima cosmopolita, dove teatri, caffè, jazz, gallerie attraevano da ogni parte del mondo musicisti, scrittori, coreografi, cineasti, artisti in cerca di fortuna e celebrità. Era un periodo di eccezionale vitalità artistica.

Nella Ville lumière, novella mecca dell'arte, si respirava l'aria di una nuova era, contrassegnata da un senso di libertà e da un clima di rinascita che faceva di Parigi il laboratorio internazionale della creatività. Sollecitati dal fermento di quel crocevia internazionale, i più grandi artisti del tempo rimettevano in gioco le loro ricerche, con una straordinaria energia creativa.

Sapevo che Monet, Cezanne, Matisse, Gauguin, Dalì frequentavano Montparnasse e Boulevard Raspail, punto di ritrovo di molti artisti. Mi diressi proprio lì.

Trovai seduti ad un tavolo, impegnati in una animata discussione, Monet, Matisse, Zolà insieme a altre due persone a me sconosciute che, leggermente in disparte, commentavano un quadro di Picasso con delle case ‘squadrettate’, intitolato, come seppi dopo, “Case in collina ad Horta de Ebro”.

Mi salutarono calorosamente e mi invitarono al loro tavolo. Gli spiegai il motivo della mia visita. Monet mi disse che Tamara dopo la breve visita in Italia era andata a Zurigo dal suo psichiatra di fiducia e che era in procinto di partire per New York. Gauguin era appena salpato per il Centro America, incalzato da una difficile situazione economica, che non gli consentiva di prendere parte attivamente alla frenetica esuberanza del mondo artistico parigino che, completamente assorbito nel successo neoimpressionista, gli appariva come «un deserto per chi è povero».

Quindi snervato da questa situazione insostenibile, Gauguin aveva deciso di abbandonare la Francia. La meta: Taboga, un'isoletta nel golfo di Panama dove poteva godere del sostegno economico del cognato, che lì aveva fatto fortuna con il suo fiuto commerciale.

«Vado a Panama per vivere da selvaggio - comunicò alla moglie, rimasta in Danimarca - conosco, a una lega da Panama, un'isoletta del Pacifico: è quasi disabitata, libera e fertile. Porto con me colori e pennelli e lì, lontano da tutti conto di ritemprarmi».

Aggiunse che Cézanne non frequentava più il caffè, perché a causa del suo carattere chiuso e di malcelate tendenze paranoiche, mal sopportava la presenza degli amici che lo circondavano.

«Mi presento, sono Manet. - intervenne bruscamente uno dei due sconosciuti - Pensa che una volta mi disse testualmente: "Non le stringo la mano, signor Manet, perché sono due settimane che non la lavo"».

Zola aggiunse che Cézanne, di cui era amico fraterno sin dall'infanzia, aveva smesso di parlargli perché si era identificato in Claude Lantier, protagonista del suo romanzo L'oeuvre, un pittore fallito che si suicida davanti ad un quadro che non riusciva a terminare,

Chiesi di Salvador Dalì.

«E’ mica da queste parti? Gli ho riportato il Cristo».

Intervenne l’altro che non conoscevo: «Mi ha incaricato di dirle che lo può tenere o, se gli fa piacere, può donarlo a qualche cappella in Padule vicino a Massarella.

Aggiunse: «Io sono Picasso, Pablo Picasso, amico di Salvador».

«Ah! Piacere di conoscerti. Avevo sentito parlare della vostra amicizia - dissi stringendogli la mano -. Dicono che siate molto simili, accomunati dal gusto dello scandalo e dello spettacolo e che insieme sembrate una formula matematica uniti da un rapporto magico. Ho letto che tu hai dato inizio alla rivoluzione cubista e che lui, per tenerti testa, ha dato vita ad un altro movimento dissacrante e innovativo, il Surrealismo.

Sorrise

«Di te Salvador un giorno mi disse: Picasso è un genio. Come me. Picasso è comunista. Io no».

In effetti Dalì era affascinato dalla monarchia e sperava, o si era illuso, che il regime di Franco si trasformasse in tal senso.

Ne approfittai per dare risposta alla mia curiosità e gli chiesi se sapesse perché fu espulso dall’accademia. «Certo, qui lo sanno tutti. Salvador fu espulso dall'Accademia poco prima di sostenere gli esami finali, poiché aveva affermato che nessuno nell'istituto era abbastanza competente da esaminare uno come lui».

Questa volta sorrisi io: «Che personaggio!». Pensai tra me e me.

Consegnai le tele a Monet e Matisse e pregai quest’ultimo di far pervenire in qualche modo la tela a Cezanne.

Salutai la compagnia e mi avviai a casa di Van Gogh.

Verso la fine del suo girovagare, Van Gogh, con il fratello Theo, era approdato a Parigi e si era sistemato in uno degli angoli tra i più belli della capitale francese: il quartiere di Montmartre. Dopo aver fatto una passeggiata nel quartiere di Pigalle ed essere salito attraverso una delle tante viuzze piene di negozi di souvenir, arrivai alla famosa cattedrale del Sacré-Coeur. Li mi fermai un momento per prendere fiato, prima di avviarmi per Rue des Saulse.

Entrai nell'ultimo bistrot rimasto aperto “Au Lapin Agile” dove sapevo che si fermava Vincent a bere assenzio fino a ubriacarsi. Chiesi di lui al locandiere che mi disse che l’olandese da qualche giorno non si faceva vivo.

Uscito, mi avviai deciso verso casa sua. Arrivato, bussai alla sua porta, ma non ebbi nessuna risposta. Bussai con più forza, ancora niente, ma in compenso la porta, probabilmente chiusa male, si aprì.

Entrai e vidi che nel lungo corridoio una luce filtrava da una stanza adiacente al ballatoio e cominciai a chiamare Vincent. Di nuovo silenzio.

Mi avviai verso la luce, attraverso una porta semichiusa vidi un cavalletto con sopra una tela che ritraeva un “Campo di grano con corvi”. Bussai e con la mano aprii la porta. Lo vidi seduto sul letto con le gambe che gli penzolavano, il busto che oscillava in maniera ritmica ed ossessiva, con lo sguardo perso nel vuoto.

«Mi sento sempre come stordito; - disse con un filo di voce - la malattia mi sta divorando. A causa di un brutto mal di stomaco non posso mangiare ed il cambio di posizione mi fa aumentare la nausea e lo stordimento. Theo è uscito per chiamare una carrozza che mi porti a Saint-Remy. Non posso andare avanti così. Voglio essere nuovamente ricoverato. E …, non vorrei sembrare scortese, ma in questi frangenti preferirei star solo».

«Mi spiace amico mio, alla cena mi sembravi in gran forma. Ti ho riportato la tela. Capisco il tuo malessere, vado via subito, non voglio disturbarti oltre».

Stavo per uscire quando mi afferrò per un braccio e mi disse: «Com’è strana la vita! Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più divento artista, creatore … con quanta minor fatica si sarebbe potuto vivere la vita, invece di fare dell’arte».

Furono le ultime parole che sentii da lui. Non lo vidi più. Dopo qualche tempo seppi che si era suicidato con un colpo di pistola.

Riposai in un alberghetto frequentato da artisti e la mattina presto ripresi il viaggio verso Delft, in cerca di Vermeer e Fabritius.

DELFT

Arrivai intorno alle nove. La cittadina mi fece un’ottima impressione: con i suoi canali ricolmi di ninfee era un concentrato di grazia e di fascino naturali. Entrai in una cioccolateria per fare colazione e assaggiai la famosa cioccolata alla birra, dal gusto un po’ particolare, ma, tutto sommato, buona. Era giorno di mercato e Delft era piena di vita: dalle campagne si era riversata in piazza un’umanità variegata e vociante. E’ proprio vero il detto: ogni mondo è paese. Mi ricordava Livorno! Venditori di formaggio, pesce, verdura, pane, frutta in guscio ed di altri innumerevoli prodotti, riempivano la piazza.

A cinque minuti da qui si trovava il mercato dei fiori che trasforma questo incantevole angolo di Delft in un quadro colorato rappresentato da decine di venditori e migliaia di fiori. Mi ripromisi più tardi di andarlo a vedere.

Chiesi al primo ambulante che incrociai se sapesse indicarmi in quale parte del mercato era solito mettere la sua bancarella Vermeer. Mi indicò col dito una bancarella vicino ad una fontanella e disse: «Dovrebbe essere quella tra il pescivendolo e il venditore di chiocciole».

Mi avviai a passo svelto, era una bancarella abbastanza modesta: qualche pollo, un cestino pieno di uova, insalate, verdura e pomodori da una parte del banco, dall’altra tre vassoi di dolcetti fatti in casa e che tanto erano stati decantati alla cena da Vermeer. Dietro il bancone due donne: una doveva essere Catherina, la moglie di Jan che sistemava i prodotti dell’orto, e, al suo fianco, una giovane ragazza che mi pareva di conoscere e di aver già visto da qualche parte. Ma si! Era la ragazza raffigurata nel quadro con il turbante e l’orecchino, tutta intenta a riempire i dolcetti con una soffice crema gialla.

Mi sentii toccare la spalla, mi girai e mi trovai di fronte Jan. Notai subito i suoi occhi velati di tristezza. «Chi ti ha morso?» dissi in modo scanzonato mentre lo abbracciavo.

«Ma come, non hai saputo niente?»

«No! Non so niente! Sono tre giorni che viaggio, ho attraversato mezza Europa».

«Due giorni fa è morto Carel!» disse con voce bassa e commossa e proseguì: «L’ incendio che era scoppiato il giorno prima della cena nella parte orientale di Delft e che al nostro ritorno sembrava domato, in realtà non lo era, anzi ha ripreso vigore proprio nella notte del nostro arrivo ed ha colto di sorpresa numerosi abitanti che non sono riusciti a salvarsi, compreso Carel».

«Che morte orrenda!» commentai a occhi chiusi, come se immaginassi le scene di terrore e sentissi le sofferenze di quei poveracci.

«E’ vero» soggiunse.

Poi, come per scacciare i cattivi pensieri, disse che non poteva intrattenersi con me perché era in procinto di partire per Bruxelles, dove un ricco signore da tempo attendeva un dipinto che gli aveva commissionato.

Gli lasciai le tele che avevo con me e presi la strada del ritorno. Stavolta, però, decisi di fare un altro percorso. Dovevo in qualche modo giustificarmi di fronte a un altro sommo artista nei cui confronti ritenevo di dover dar conto di alcune mie scelte. Pertanto ritenni opportuno, al rientro in Italia, percorrere la Via Aurelia e fare una sosta sulle Apuane.

SULLE APUANE

Giunto a Carrara, puntai diritto verso le cave di marmo. Arrestai il furgoncino a mezza montagna perché la strada si era fatta stretta e piena di buche profonde. Le gomme slittavano ed era diventato pericoloso proseguire. Ormai la via era solo una pietraia bianca con i sassi di marmo che brillavano al sole. Mi chiedevo come facessero a portare a valle quegli enormi blocchi di marmo che avevo visto a Carrara. Scesi dal furgone, presi il mio zainetto e proseguii a piedi camminando dalla parte del monte, tenendomi ben lontano dallo strapiombo. Cominciai ad inerpicarmi a passo svelto, il sole era sempre alto sull’orizzonte, ma l’aria cominciava ad essere frizzante e da lì a poco si sarebbe sentito freddo. Mi ci volle circa un’ora per arrivare in cima. Che spettacolo stupendo: da una parte le alte pareti bianche delle montagne, dall’altra l’azzurro intenso del mare.

Sentii una voce che disse: «Chiunque tu sia non dir niente, stai zitto e ascolta!».

Lo riconobbi subito dal tono di voce, era proprio lui, Michelangelo Buonarroti, seduto sopra un pezzo di marmo, con le gambe penzoloni nel vuoto, girato di spalle.

Si voltò appena e quando mi riconobbe disse: «Oh che sei te!».

Mi avvicinai e mi misi a sedere accanto a lui: davanti mi si spalancava un panorama mozzafiato.

E’ mia personalissima opinione che se il Redentore avesse potuto scegliere il luogo in cui venire al mondo, sarebbe nato in montagna. É vero che Lui predicava l’uguaglianza e quando siamo al mare in costume siamo tutti uguali ognuno con i suoi difetti in bella mostra e la sua pinguedine.

Cos’altro può suscitare in te la sensazione di stare al cospetto di Dio, il senso di serenità e di armonia e l’invito alla meditazione, che invece, ti trasmette la montagna?

Michelangelo stava mangiando.

Nella mano destra un pezzo di pane e nell’altra una cipolla. Si volse verso me come per dire: «Vuoi mangiare qualcosa anche tu?».

Notai che le sue dita avevano cominciato a deformarsi, l’artrite gli irrigidiva le articolazioni e i suoi movimenti erano lenti.

Scossi il capo in senso di rifiuto.

«Ah voi di città!» - disse sottovoce - «Siete abituati ai lauti pasti e ad abbondanti libagioni. Non avete capito che all’uomo basta un pezzo di pane per sostenersi e una cipolla per insaporire la vita».

Poi tacque, lo sguardo perso nell’infinito.

«Taci e ascolta! - ripeté.

«Lo senti il vento come accarezza leggero queste cime, vedi queste pietre - disse indicando dei grossi pezzi di marmo - aspettano solo di raccontarci la loro storia. Basta avere la sensibilità di ascoltarle!».

Mentre diceva queste cose notai che il suo volto era rigato da lacrime che scendevano copiose.

Aggiunse: «Io mi emoziono a vedere questi massi, li vedo vivi, e nella mia mente prendono forma. Sono stato al cospetto di Papi e potenti, uomini d’arme e menti geniali senza timori reverenziali. Ho affrontato, come un gigante, con spirito combattivo tutte le prove che la vita mi ha messo di fronte, ma qui - disse indicando con la mano l’orizzonte - ammirando lo spettacolo della creazione mi sento inerme e … piccolo, piccolo».

Violando quell’atmosfera quasi sacra creatasi a seguito della estatica contemplazione della natura che ci aveva rapiti, mormorai: «Son venuto a scusarmi per non averla invitata a cena, ma sapevo che tra lei e Leonardo non corre buon sangue e…»

«Lascia perdere, è acqua passata!» disse interrompendomi prontamente.

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Il sole cominciava a scendere sull’orizzonte lontano e con i suoi raggi infuocati colorava di rosso la superficie marina.

Ma, mio malgrado, dovevo avviarmi verso casa.

Salutandolo ebbi modo di compiacermi della sua vigorosa stretta di mano, indossai il mio zainetto e cominciai la discesa. Prima di scomparire dalla sua vista, sentii Michelangelo che mi urlava: «Hai capito cos’è l’arte?

Arte è riuscire a dar voce a queste pietre!