Prof. Francesco SISINNI - Già Direttore Generale per i Beni Artistici

Prof. Francesco SISINNI


La storia di Giuseppe RIZZO SCHETTINO è interessante come quella di quasi tutti coloro che lasciano la Terra di origine e danno il meglio di loro per la propria Terra, ma da lontano, grazie alla ricchezza che si portano nel profondo, contigua con altre esperienze ed altrove maturate.

Giuseppe RIZZO SCHETTINO nasce a quell’Arte, che è l’Architettura, la quale, come diceva Palladio, è l’Arte per eccellenza, è la stessa virtù creativa.

Infatti, l’Architettura è quell’Arte che rende l’uomo partecipe della Creazione: l’artista, lavorando sul volume, sulle tre dimensioni, può, insieme allo scultore, concorrere e continuare l’Arte stessa del Dio Creatore. 

Giuseppe Rizzo Schettino si esprime, anzitutto nel disegno. 

Voglio sottolineare l’importanza del disegno che è arte aristocratica: i nostri più grandi artisti si espressero, appunto, nell’arte del disegno. 

A Firenze la più antica Accademia esistente al mondo è l’Accademia delle Arti del Disegno, di cui ha fatto parte lo stesso Michelangelo. Le arti del disegno ci educano alla espressione, a quel linguaggio grafico in cui l’uomo riesce, con il segno, ad esprimere se stesso.

L’Arte è soprattutto simbolo, è segno. Crocianamente possiamo ancora convenire che essa è intuizione ed espressione.

Sappiamo bene, comunque, quanto sia difficile definire l’Arte e com’è difficile, se non impossibile, definire un artista e ciò, direi, provvidenzialmente, perché l’opera dell’artista si autodefinisce, nel tempo, e noi dobbiamo lasciare libero il quaderno su cui tanti altri devono scrivere. 

Ma chi può scrivere dell’Arte? chi ha la capacità di vedere nell’Arte. Innanzi all’opera d’arte nasce il discorso, nel momento in cui si stabilisce la triade: artista, spettatore e opera d’arte stessa.

L’opera d’arte è l’espressione concreta della creatività estetica e si pone tra l’artista ed il lettore e “vede” soltanto chi riesce ad interpretare il fenomeno creativo, cioè si immedesima nel momento in cui l’artista produce, ovvero, come diceva Platone, è invaso, divinamente invaso, quando cioè sente il bisogno di esprimersi, gli urge dentro l’istanza che lo porta ad esprimersi.

Il nostro artista si è espresso anzitutto nel disegno, ma poi non gli è bastato il disegno, ha avuto il bisogno di dare più concretezza al segno e quindi si è espresso nella pittura.

La pittura si serve del colore, si serve della pastosità materica, si serve della prospettiva, cioè degli ingredienti con cui rappresenta. E questa rappresentazione è ciò che i filosofi chiamano mimesi, imitazione della Natura e tuttavia non si esaurisce in essa.

Stamattina abbiamo discusso con l’architetto del perché insiste sui paesaggi, concedendo poco spazio alla figura umana, al soggetto umano e mi ha detto che da poco ha cominciato a raffigurare il corpo umano, e qui è ben rappresentato questo incipit, piuttosto recente ma già positivo, perché in tale rappresentazione è evidente un’approfondita elaborazione interna e un certo intimismo.

Ma torniamo all’arte, imitazione o non imitazione? certo è imitazione, ma è la mimesi, che si identifica con la metessi, cioè con la partecipazione. Perché? Perché, come dicevamo, questi colori pur partendo dal reale, il reale trascendono: sono i colori della memoria, cioè sono i colori di chi vede il proprio paesaggio che si porta nell’intimo, nell’animo, è un visto da lontano ed i colori sono l’espressione della nostalgia, della malinconia. E qui tutto è soffuso di nostalgia; d’altra parte il segno dell’Arte e del Bello è la nostalgia, lo diceva Plotino in maniera mirabile. Se non suscita nostalgia il bello non è bello, il bello richiama un paradiso perduto, è qualche cosa di esaltante che non ci appartiene più e a cui tuttavia continuamente tendiamo in quest’ansia escatologica, umanistica, filosofica.

Ecco in questi quadri, quindi, il paesaggio diventa umano, diventa parte di noi stessi e parte del nostro patrimonio più intimo, più spirituale, il bagaglio dell’esule e chi vive fuori di Maratea si porta Maratea dentro, in maniera ineludibile, anche quando non si vorrebbe.

Questo artista si esprime nella pittura, in maniera lirica.

Il titolo della mostra è “Colori e sensazioni”. Ma a me pare che si vada oltre le sensazioni, ovvero verso una immedesimazione che è autocoscienzialità profonda, ontologica, essenziale. Non per nulla vi è un’opera che si intitola, appunto, “L’essenziale”.

Questa è la mia lettura, ma è una lettura individuale, molto parziale, molto personale.

L’essenziale è che queste opere possano provocare tante nuove letture, inducendo ad essere vedute, ad essere lette ad essere interpretate pur secondo le personali sensibilità, nel suo valore autentico, perché ogni opera, se è vera opera d’arte, ha un messaggio da comunicare, una provocazione da dare.

Non mi soffermo sugli aspetti tecnici che pure sono estremamente interessanti. Sappiamo della relazione tra Arte e Tecnica, che la tecnica è indispensabile all’arte, ma non si identifica con l’Arte, che la trascende. Qui si tratta di una tecnica molto adulta, molto matura, con effetti di macerazione e di trasparenza fino all’evanescenza, quasi a rendere la nervatura del supporto, che è il legno, attraverso la dissolvenza delle tinte. Usa il colore, ma lo usa in maniera non pastosa, quasi sfrangiandolo, quasi disintegrandolo per trarne sempre più viva la luminosità, una luminosità più palpitante quando del paesaggio è più partecipe, come il paesaggio toscano in cui l’autore è attualmente immerso e che vive quotidianamente, o un paesaggio molto più lontano, molto più nostalgico, molto più malinconico.