Giorgio Seveso
"Una luminosa inquietudine di poesia", Personale c/reading poetico, “Le Invisibili Forze”, Cascina Grande, Rozzano, 2005
Da dove viene l’asprezza acida dei rossi, dei gialli, dei bruni di questi dipinti di Gladys? Perché s’inquietano i violetti, i verdi, gli azzurri delle loro ombre e delle luci? E, ancora, quali bagliori, quali calcinazioni, quali fantasmi si proiettano sullo schermo delle tele, sulle scarnificazioni e lacerazioni dei suoi cartoni ondulati, sulle campiture delle sue superfici, oggi spesso scandite da traverse, linee, inquartamenti quasi geometrici, sospesi come tra un senso di vetrata impiombata e un ritmo di mosaico?
Non sono domande, queste, cui sia facile dare subito risposta. Nel suo bagaglio d’artista – argentina ma anche italiana d’origine e attualmente anche di vita – si affastellano infatti riferimenti plurali, rimandi diversi, memorie differenziate nel fervore di una estrema libertà di materie e di spunti sia plastici che poetici. Una libertà ritagliata con trasporto e passione sulle misure concitate, ansiose e sensibili di un lirismo acceso e talvolta, se possibile, perfino violento, sempre comunque suggestivamente emozionato ed emozionante. Un lirismo che si specchia costantemente, del resto, anche nelle sue poesie, e che dunque risponde, quasi fosse un’eco continua, a un rapporto d’intreccio, di scambio, di reciproca inseminazione tra dimensioni della forma e dimensioni della parola.
Come una scrosciante e slargante metafora visiva, allora, questi suoi paesaggi e questi suoi corpi femminili e maschili che spesso mimano i gesti dell’amore e dell’abbandono, là dove Eros incontra l’ombra e il tremore dell’inquietudine, sono il frutto di un inedito puzzle stilistico fatto di espressionismi di varia natura, ereditati e filtrati da una miscela che ha le sue radici in un territorio culturale distribuito in eguale misura tra l’Europa e il continente latino-americano. Ma sono anche frutti di un rimescolamento psicologico ed esistenziale capace di smaglianti consistenze tattili.
Tuttavia, dicevo, è nell’impronta dell’elaborazione metaforica che queste fitte immagini di Gladys trovano il loro vero sigillo e, in fondo, anche la loro autonomia. C’è difatti una tale ridondanza di accumulazione, una così elettrica stratificazione d’umori nelle scansioni dei suoi colori e dei suoi materiali, che la ricerca di stilemi d’affinità sembra inutile e comunque arbitraria.
Più evidente invece, e più utile, appare il sottolineare l’esattezza dell’accento cui è ormai giunta all’interno di questi suoi repertori espressivi. Una esattezza, una messa a fuoco, una concentrazione che si addensano e si distendono su materiali che non si possono altrimenti chiamare che visionari, intendendo con ciò una fervida elaborazione interiore di spunti e memorie, intuizioni e lacerti d’emozioni, sovrapposizioni e aggallamenti di concrezioni sensibili, di brani di ricordi, desideri, idee sorgive.
Voglio dire che, nelle sue opere, la distanza tra il risultato conclusivo (il momento, cioè, in cui l’immagine è “finita”) e l’intuizione o il sentimento ispirativo di partenza, è appunto una distanza che segna lo spazio della visionarietà poetica: uno spazio lirico e trasognato, impalpabile eppure ben attivo, straordinariamente ricco di concretezze emotive.
L’incalzante accumulazione della sua eloquenza formale rimbalza nell’arbitrarietà e insieme nell’esattezza di questi materiali espressivi, ma soprattutto si tende, si "tira" allo spasimo verso una sorta di febbre immaginifica che è sempre in presa diretta, in fondo, con un discorso sulle cose che ci circondano, con la nostra realtà esistenziale, fatta di uomini e donne alle prese con i destini e le contraddizioni del presente, con l’amore e il rimpianto, con il desiderio, la nostalgia, l’allarme e la speranza.
Gladys Sica è insomma una fervida costruttrice di intime visioni del profondo, di magìe primarie, di sogni del mondo che si aggrovigliano e si dispiegano attorno a minuziose rielaborazioni intinte per incantamento nella memoria e, insieme, simultaneamente, nella coscienza del presente.
Trovo in queste sue opere, sia in quelle più nuove che in quelle di qualche tempo fa, davvero un lievito d’immagine per molti versi spiazzante, intrigante: un lievito capace di tradursi, sempre, in un linguaggio dove le concrezioni cromatiche della materia creano non tanto l’illusione quanto il parallelo della sensazione vedutistica, e i cui segni si fanno metafora costante e filtro poetico di un vero e proprio clima dell’anima, di uno spleen commosso e scoperto.
Il suo, dunque, è uno sguardo che si rivolge alla natura e ai corpi ma, anche, ai sedimenti che la sensibilità delle cose deposita sui nervi più sensibili, e che quindi finisce per appuntarsi, in definitiva, sull’intensità delle circostanze liriche della vita, poiché, se i suoi soggetti sono appunto Eros, memoria e sentimenti, il vero tema ne sono i valori poetici che le immagini pongono in fibrillazione emotiva. In fondo è proprio un tale antinaturalismo, con le sue chiavi interiori, a costituire il nocciolo del suo particolare e suggestivo approccio alla figurazione e, anche, la ragione della sua seduzione, della sua fascinazione aspra e dolce insieme.
Giorgio Seveso