Alberto Gross - Commento artistico realizzato per la mostra personale "La femme d'à coté" tenutasi a Bologna presso la Galleria De Marchi dal 25 Gennaio al 6 Febbraio 2020 nonché articolo apparso sul n. 1 della rivista Art Journal del 2020

Oltre tutto il resto, c'è un intreccio di peripezie, di capitolazioni, di sconvolgimenti, dialoghi sospesi tra la ruvida sabbia di un deserto supposto e il calore gelato di conversazioni mal riposte e mai finite.

L'intensità dei ritratti di Grazia Barbieri si impadronisce di una fascinazione e di una violenza tali da trascinarci insieme fino al crinale, alla crosta della catastrofe, tra irresistibili voluttà e spaventevoli, fascinose realtà. 

Sono immagini di donne, volti, personaggi che si svestono dei propri orpelli, maschere, camuffamenti, per tornare ad essere persone, interamente e pienamente tali: persona come lemma che procede dal prosopon del greco antico, concetto filosofico che descrive un sembiante teatrale nella sua individualità più intima, rappresentativa, descrittiva di un preciso canone o carattere di comportamento. 

Per questo la maschera teatrale assume importanza manifesta all'interno della società antica: è simbolo e immagine iconica di ogni personalità, non adombra e nasconde, ma dischiude ed invita all'autenticità dell'anima del personaggio, sia esso illustre o nefando. 

Così è facile assimilare i ritratti di Grazia Barbieri ad una carrellata di protagonisti di un immaginario spettacolo teatrale: teatro del “meraviglioso” e della “crudeltà” in senso artaudiano, dove ogni inquietante dilagare apre porte segrete, rischiara equivoche controversie e sentenzia in maniera incontrovertibile e feroce. 

Una maliziosa e seducente Giuditta viene ritratta nella sua fiera rivincita su Oloferne, così come la Moira – in una postura assonante all'iconica immagine del soliloquio amletico – rappresenta e dice, per intera, l'ineludibile fissità del destino umano. 

Ed è qui – oltremodo – che si rivela la molteplicità e la doppiezza della “signora della porta accanto”: come nel film di Truffaut la donna è disarmante nella sua bellezza, oscura, enigmatica, di tinte fosche il suo passato ma seducente fino alla malìa, irresistibile, onesta e fedifraga, gentile ma scostante, buona, cattiva, assassina e – forse – suicida. 

Le donne ritratte dall'artista possiedono una ieraticità così tanto icastica da sfuggire ad una pittura realista - nonostante l'estrema tattilità visiva delle vesti, delle stoffe incurvate, della naturalezza delle cadute – ed essere, infine, più vicine a certe icone di un rinnovato, contemporaneo gusto fiammingo e barocco, nell'indiscutibile centralità attribuita al personaggio dalla postura e dai simboli a corredo e completamento dell'immagine. 

Donne apparentemente complicate ma semplici, come un arrivederci. 

Prendendo a prestito le parole di Truffaut per la protagonista della sua femme d'à coté “... una donna piena di vitalità, coraggio, entusiasmo, umorismo, intensità e, d'altro canto, con il gusto per il segreto, con un lato scontroso, un sospetto di ritrosia e, soprattutto, qualcosa di vibrante”.