Niccolò Pala

Distopia e distorsione Che cosa succede quando le incisioni di Canaletto incontrano la visione futurista di Sant’Elia? Come sarebbero le vedute di Francesco Guardi se avesse letto Orwell? Distopica e post-apocalittica, fredda e asettica: questi sono gli aggettivi che di primo acchito sono accostabili all’arte di Jimi Gazzosa. Volendo affibbiarle un’etichetta la si potrebbe definire Pop Art Industriale, dal momento che nessuna presenza umana appartiene alle sue tele, né tantomeno la natura, offuscata da uno sguardo che pare l’apoteosi dell’artificiale. Certe pennellate ricordano i tocchi rapidi del Guardi ma, laddove il pittore veneto tenta di dissolvere la percezione visiva della realtà sensibile onde scovarne il lato più intimo ed emotivo, nei dipinti di Jimi Gazzosa le sferzate cromatiche hanno un che di alienante, di claustrofobico; è il residuo del mondo che corre sempre più svelto e ci lascia indietro, il mondo dell’informazione rapida ed effimera, liquida e fulminea, il cui unico lascito è un sordo clangore metallico. Dipinti dai temi apparentemente tutti identici, soggetti urbano-paesaggistici declinati con diversa sensibilità coloristica e solo qualche volta dediti a immortalare oggetti come mezzi di trasporto (automobili e navi) o strumenti musicali. E se l’appiattimento fosse negli occhi di chi guarda? Se fosse il nostro intelletto a essere intorpidito, la nostra visione incupita e distorta dal nostro stesso passo, troppo veloce per l’uomo e troppo lento per il progresso? Già Giger aveva dato vita a scene disumanizzanti con il suo personalissimo Surrealismo Biomeccanico, in cui l’essere vivente è ibridato alla macchina; ora ogni traccia di vita è andata perduta, costretta a soccombere sotto torreggianti complessi industriali e tentacolari metropoli, incapace di dare un segno della propria esistenza. E, tuttavia, tra i solchi di questi enormi ammassi in rovina fanno capolino dei numeri, delle lettere, delle parole; in particolare, all’intero di RIFUGIO URBANO ZTL Blue Light, oltre al numero 23, alla firma dell’artista (le iniziali JG), a SHOP (“negozio”), FOOLS (“pazzi”) e SALEM (luogo del famigerato processo alle streghe e simbolo del più bieco oscurantismo), trovano posto i vocaboli MAYHEM (“massacro”, “pandemonio”) e REBIRTH (“rinascita”). Due concetti a prima vista antitetici (come suggerisce tra l’altro il loro posizionamento sui lati opposti del dipinto), vogliono forse ricordare come la condizione umana debba necessariamente misurarsi tanto col bene quanto il male e che, persino quando si è avviluppati dal caos assoluto, è sempre possibile decidere di uscirne o, almeno, provarci; basta sapere dove posare gli occhi. testo di Niccolò Pala 

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