Prof. Umberto G. Tessari

Quella impassibile geometria dello spazio e dei volumi in esso contenuti, esplorata con gli occhi del genio, quale poteva essere nel Quattrocento, Piero della Francesca, attesta nel corso dei secoli una naturale propensione alla razionalità strutturale delle immagini, propria degli artisti colti, pochi in verità, ma importanti, se non definitivi, meritevoli, quindi, di attenta lettura. Nelle loro opere si ritrovano, infatti, i canoni delle simmetrie teoretiche rinascimentali, omologati a sintetizzare la cultura classica di tutti i tempi, la sapienza dei ricorsi compositivi che canalizzano i diversi modi di intendere la prospettiva; e ancora, rispettando la storia e le ragioni etniche che la definiscono, ideali rapporti armonici tra i singoli soggetti, protagonisti delle arti visive figurative, e i rispettivi campi interattivi.

Ne sorte, alla fine, un genere singolare, estremamente rigoroso, svincolato da legami sentimentali e da fisionomie emozionali, perfettamente intonato, invece, alla disciplina matematica cui ogni geometria è debitrice delle infinite trazioni numerali. In altri termini: nelle opere di artisti che si affidano alle superiori armonie numerali dei rapporti astratti, concettuali, la qualità del prodotto si garantisce proprio per l'assoluta estraneità alle facili egemonie soggettivistiche prodotte da varie sentimentalità o da malintese interpretazioni “liriche”.

Luigi Francesco Di Cesare è un pittore che appartiene a questo raggruppamento di artisti ispirati ai valori poliedrici della geometria; le sue opere, minutamente analizzate, documentano il lento, ma progressivo ductus trasformazionale che pilota la convenzionalità delle immagini verso attualità redazionali di spessore quasi metafisico.

Pierfrancescano temperamentale, Di Cesare guarda alle sorgenti toscane del primo Rinascimento, incuriosito e attento; subito fa corpo unico con le architetture che inquartano prospetticamente gli spazi vitali di ipotetiche "azioni"; si rende conto che lo spazio è la ragione fondamentale della presenza umana: è il suo "dove", in qualsivoglia circostanza.

L'uomo, per essere, ed essere con intelligenza, ha bisogno di collocare tutto di sé in un determinato spazio, e solo in quello, fisico o intellettuale che sia. Così inteso, lo spazio dell'arte parafrasa quello esistenziale; a volte ne costituisce addirittura il "luogo" delle coordinate.

Fa sempre piacere incontrare un artista, un pittore nella fattispecie, interessato a queste problematiche del linguaggio estetico; fa piacere, soprattutto, quando si scopre nell'impegno operativo, il quoziente alto dei risultati, ottenuti con certosina pazienza, ma anche con autentica vocazionalità.

Di Cesare è pittore a tutto tondo; innamorato della città in cui vive e che quotidianamente interroga; le piazze, le basiliche, i palazzi, in specie quelli medioevali, sembrano rispondere ai suoi interrogativi con allegorico spessore culturale; in mezzo ad essi inventa suggestive, differenziate equazioni prospettiche, inserendo a volte elementi che non appartengono naturalmente alle immagini, ma che ne documentano il significato analogico.

L'enigma metafisico, allora, matura e giustifica interpretazioni originali, curiose, in cui sempre, tuttavia, la direzione convergente dei vettori culturali ricerca emblematicamente l'uomo.

Non certo l'uomo pierfrancescano, quello rinascimentale coordinato all'invenzione astrattiva della storia, bensì l'uomo moderno, quello che destina per sé le strade dell'inferno, del purgatorio e del paradiso: l'uomo apologeta. Il sentimento segreto che traspare dai dipinti di Di Cesare è proprio questo: un solenne, controllato atto di riflessione alla scoperta degli infiniti rapporti possibili tra la storia propria dell'uomo e quella delle "cose" che lo circondano; sia ben inteso: l'uomo contemporaneo.

Forse sono le oscure pagine della realtà quotidiana, il dolore o la disperazione, le deluse speranze di ideali corrotti e infranti, che hanno consigliato all'artista un rifugio sicuro sul pianeta della astrazione concettuale. Rimangono perfettamente identificabili sulle tele dipinte, le fisionomie dei soggetti contemplati, intellettualmente assemblati entro composizioni volutamente arbitrarie; soggetti, spazi, relazioni geometriche si esaltano e si categorizzano nelle distillate partiture coloristiche, cioè nell'ambito del parametro più pertinente alla pittura: il colore.

Di Cesare ha ideato per sé una tavolozza di non molti timbri cromatici; sapientemente inventa su ogni timbro scale tonali innumerevoli e raffinatissime; la sua visione interiore, ricolma di luce, nobilita in tal modo le varie forme impreziosendo contemporanea la loro disposizione spaziale.

Il risultato finale non costituisce, quindi, una fuga dal tempo, ma è, semmai, il tentativo spesso perfettamente riuscito, di ricreare il tempo; non la misurazione della storia o la convenzione degli orologi, ma quello che vive ed è prepotente dentro di noi: il tempo come memoria, ugualmente inquieto e allusivo, quanto quello delle passioni e dei desideri e dei destini umani: ecco, la lettura corretta dei dipinti di Luigi Francesco Di Cesare che approda felicemente a un'isola dove non si agitano i venti forieri della tragedia; un'isola solare dove l’arte descritta non si autodenuncia prigioniera o vittima della società che la produce.

Liberato dalle ipocrisie del racconto questo genere espressivo mira alla conquista invidiabile delle "superiori armonie" iconografiche dell'immaginazione, e lo fa eleggendo a spazio vitale una città, importante e autonoma come le antiche città della Grecia di Pericle e di Fidia, restituita all'incanto dei suoi rarefatti silenzi colorati di fantasia.


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