Fiorenzo Degasperi

Luigina Lorenzi   Il rovinoso incanto del corpo    Tu arriverai, prima, dalle Sirene  che tutti gli uomini incantano,  chi arriva da loro.    Odissea      Il corpo, maschile o femminile, quello legnoso di una secolare quercia o di un contorto cirmolo, di un ammaliante quanto rovinoso incanto di una sirena, o ancora di un Cristo crocefisso, per Luigina Lorenzi è sempre e comunque una geografia dell’anima, della mente e del cuore. E come tutte le geografie le opere sono formate da sudori, cromatiche terre, odori acri e avvolgenti, sguardi indiscreti e sguardi suscitatori di aspettative e di frustrazioni, saettanti provocazioni, angeliche apparizioni.  Il corpo, spaventosa Babele di segni, sogni, incubi e utopie, ha una sua vita propria, autonoma e slegata da ogni contesto. E’ esso stesso contesto. Non è un caso che i corpi disegnati e dipinti dall’artista fuoriescano dalle nebbie del tempo, emergano dalle acque primigenie, si innalzino dai fumi di antichi fuochi devozionali. Sono corpi inseriti in un rito le cui scene e i movimenti sono delegati allo spettatore, alla sua curiosità e alla sua capacità di trasformare l’immagine in un’araba fenice che muore e rinasce, ricacciando ogni premura sentimentale negli angoli oscuri della dissipazione morale, optando per una possessione totale, senza intralci, senza mediazioni. Sono corpi che esprimono erotismo, belli e affascinanti, rudi e barbari – non c’è contraddizione in questo, soltanto riscoperta delle proprie origini e delle proprie arcaiche pulsioni –, corpi mondo, piccoli universi, microcosmi di bellezza naturale. Ma anche tragedia, fluidificazione dei confini tra uomo e natura, tra divino e umano e naturale, tra selvaggio e civilizzato. Sono corpi smisurati nella loro potenza ingorda di essere fisicamente attraenti, di oscillare tra estremi, tra metafisica e limitar dell’astrazione, tra corpo pan-ico, orgiastico, e corpo dionisiaco, ebbro e strappato dalla terra per finire immolato sull’altare della pazzia.  Perfino la musica è presente in questi lavori. Una musica materializzata sotto forma di pentagramma, su cui i corpi danzano e dormono, recitano e risorgono. Sono righi invisibili, schemi illeggibili, ma esistono e formano la struttura di questi corpi. Musica funzionale quindi, fatta anch’essa di forme e volumi.  Ma i lavori sono intrisi anche di una musica ben più sonora e saporita. E’ quella del rovinoso incanto del corpo sirena: a questi corpi viene riconosciuta la facoltà di varcare il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti per portare soccorso ai mortali che si trovino a fronteggiare l’incognito dell’aldilà, dell’Ade, del Purgatorio, dell’Inferno, del Paradiso, della geenna ebraica, del mistico giardino islamico abitato dalle uri.   Ma che aiuto portano? Portano forse la luce nelle passioni notturne? Ci trascinano nel mondo del sublime? Consapevoli che il sublime corporeo è formato da tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore. Terrore di perdersi, paura di annullarsi nell’altro, l’uomo di diventare donna, la donna di diventare uomo, tutti e due di trasformarsi in pianta, pietra, acqua. Nei colori stessi utilizzati – terrosi, ricchi di minerali, di rossi come il fuoco e il sangue, erbosi come le papille gustative della dea madre – si leggono simboli e metafore, allegorie, storie, leggende e narrazioni intime.  Ogni icona, quindi, è posta dall’artista lì per trasformarsi da umano a natura, come il corpo del dio Attis, curatore del talamo, quando si recise i genitali sotto un pino e dal suo sangue nacquero le viole mammole. Metamorfosi del corpo è anche quando due amanti si abbracciano: si intrecciano le braccia, si accavallano le gambe, le dita, fra loro, fremono diventando intrigo e meandro, le labbra si mescolano alla saliva e agli umori della mente prima ancora di quelli del corpo. L’immagine è quella di un enorme albero intrecciato, di rami e radici, di clorofilla che dona la vita e di foglie che si aprono alla luce, alla vita e alla speranza. E non è un caso che un elemento che ricorre spesso nelle sue opere sia l’acqua. Purificazione, sostanza primordiale, pioggia fertilizzante, l’acqua è il principio di tutte le cose e come ci narra la tradizione orfica dall’acqua si costituì il fango, e da entrambi fu generato un essere vivo, un serpente con l’aggiunta di una testa di leone, con il volto di un dio nel mezzo e chiamato Tempo. L’acqua dà vita, guarisce e muta. La donna diventa pesce, il pesce striscia diventando serpente, il quale depone un uovo da cui nascono il mondo e la conoscenza.  Che dire ancora di questi corpi che ci ammaliano? Nient’altro. Se non consigliare di percorrerli, di attraversarli, di confondersi con loro, di servirsene per costruire il nostro mondo babelico e labirintico in cui l’unico valore che vi abita è quello della speranza.  I corpi di Luigina Lorenzi emergono dalle nebbie e nelle nebbie scompaiono, però i frammenti che lasciano dietro di sé non bastano le nebbie per cancellarli. Si imprimono nel cuore, nell’anima, nei sensi e lì rimangono in eterno. Perché sono sirene e il loro canto ci porta inevitabilmente alla disperazione.