paolo balmas

Per secoli la mitologia classica ha reso alla pittura servigi tutt’altro che trascurabili. Essa, infatti, non si è limitata semplicemente a rifornire intere generazioni artistiche più o meno legate alla tradizione accademica, di

materiale narrativo, per cos’ dire, “precostituito”, ma ha messo loro a disposizione un vero e proprio sistema di significanti capace di esprimere , dove opportunamente manipolato, un’articolatissima gamma di contenuti, tutti

, in linea di principio, nobilitati dal contesto steso entro cui venivano ad apparire. Avventure, imprese e passioni dei più accreditati membri del Pantheon greco-romano ( e di un gran numero di personaggi minori) sono

valse insomma per un lungo periodo di tempo, a definire una sorta di zona franca all’interno della quale era possibile, pur riferendosi ad individui ed eventi a loro modo concreti, parlare dell’umanità in generale, se non

addirittura del filosofico ‘uomo in quanto uomo’. In altri termini, a parte allegorie e metafore del presente, comunque praticabili su richiesta, il dipinto a soggetto mitologico aveva, di norma, come protagonista “tra le righe” non

questa o quella divinità, ma il puro e semplice essere umano riguardato come portatore di determinate qualità e caratteristiche “di fondo” atte a confermarlo quale entità pensante e senziente eternamente uguale a sé stessa.

Questo sistema, questo sofisticato linguaggio il cui segreto consisteva nell’avvalersi di una manifesta forma di atemporalità (bene o male accessibile a tutti attraverso chiavi di lettura fornite dalla cultura dominante) cominciò

ad entrare in crisi, a perdere la sua ragion d’essere e dunque anche ogni funzionalità, allorché la pittura ormai decisa a costituirsi come rappresentazione della “vita moderna” si orientò decisamente verso la dimensione della sincronia, ovvero verso un ideale fatto di stretta correlazione tra invenzione linguistica e mutamenti progressivi della sensibilità generale. Oggi, a più di un secolo di distanza, l’ideale cui ci riferiamo, e che si palesò per la prima volta nella pienezza con l’affermarsi dell’Impressionismo, sembra essere entrato a sua volta in crisi. Il grande fiume della storia, a detta di molti, non mostra più alcuna seria intenzione di continuare a scorrere in avanti e appare piuttosto intento a riversarsi in una sorta di macroscopico pantano sulla cui superficie, bene o male stagnante, emergono, rimescolandosi senza posa ( e senza gerarchie) forme espressive nate in contesti e periodi diversissimi tra loro. Mario Agugiaro, ben convinto di non avere a che fare con una palude formatasi per naturale necessità, ma piuttosto con una specie di ‘lago artificiale’, ha sentito il bisogno di andare più a fondo, di sondare in qualche modo gli argini ideologici della questione. Per verificare le sue intenzioni relative alla struttura interna dell’attuale Kunstwollen Agugiaro ha pensato di istituire un paradossale confronto tra la collaudata in temporalità della narrazione mitologica e quel rifiuto di ogni vettorialità che sembra essere assurto ad emblema della pittura di oggi. Armato della più assoluta disinvoltura linguistica e di uno spregiudicato gusto per la contaminazione e gli effetti speciali, egli si è dato dunque ad evocare episodi fatali come il giudizio di Paride e il ratto di Proserpina, storie famose come quella di Odisseo a Ogigia e di Ifigenia in Aulide, momenti della vita di ogni giorno di figure mitiche legate al territorio e al culto ( il dio Pan, le Nereidi, satiri e ninfe e via dicendo). Ne è uscito fuori un universo davvero singolare fatto di immagini ad un tempo violente e dolciastre, allarmate e patetiche, tormentate e ridicole. Cosa è accaduto? Perché Minerva Venere e Giunone assomigliano alle sorelle Bandiera mentre il volto di Paride fa pensare a Totò? Perché il pomo della discordia sembra prelevato da un’affiche pubblicitaria della Sammarzano e depositato su un guantone da baseball? Per quale ragione un uso sapiente e fortemente espressivo del colore non riesce ad avere la meglio sulla nostra sensazione di trovarci di fronte ad una grottesca e asfissiante messa in scena che stravolge i sentimenti e deforma le anatomie? Che rimescola fumetto, Pop art e Surrealismo senza nulla concedere alla consapevolezza dei suoi  protagonisti? Di questi languidi e ottusi pupazzi di plastilina spiaccicati sulla superficie del proprio apparire? La risposta va cercata ancora una volta nel mito, ma non certo nel mito classico, che funziona ormai qui solo come una cartina tornasole, bensì nei miti della cultura estetica moderna ivi compresa la propaggine postmoderna. Miti che agiscono decisamente – e nel rimarcare questo Agugiaro è addirittura impietoso – quali filtri atmosferici o specchi deformanti capaci di restituirci in negativo il senso di un percorso storico cui

è vano opporre, se non come una sua ulteriore metamorfosi, qualsiasi sforzo di presentificazione. Dovendo indicare i nodi meglio evidenziati dall’originalissimo esperimento di Agugiaro comincerei dal mito romantico dell’arte come espressione

immediata di ciò che resta nel cuore del poeta, per proseguire con quello della psicoanalisi, che ad esso si ricongiunge circoscrivendo l’idea di inconscio nei limiti del personale e del fisiologico, per finire con quello della comunicazione

diffusa che nel proporsi quale modello capace di annullare differenze di stile, di linguaggio e di tradizione, piuttosto che eludere il rischio metafisico insito nella pratica dell’interpretazione, lo riproduce in termini più agguerriti e

disarmanti. Sulla scorta della divertita ironia di Agugiaro diviene allora inevitabile chiedersi quale sia il tema di fondo che lega tra loro, facendone altrettanti momenti della storia della pittura, questi tre momenti  della più generale storia del

pensiero. Per rispondere credo che non si possa fare ameno di chiamare in causa una problematica antichissima, quella del rapporto uomo-natura riconducibile ( e ricondotta sin dagli albori della civiltà) ad un unico e inquietante

quesito: è possibile immaginare qualche cosa come una natura dell’uomo? Ma ‘immaginare’ è appunto lo scopo e il compito dell’artista, di questo operatore privilegiato e un po’ presuntuoso autoelettosi a rappresentante di un sentimento comune di cui è possibile stabilire i limiti e la definizione. Da sempre gli artisti hanno cercato di mettere in forma le loro intuizioni al riguardo e sempre si sono trovati a produrre non solo opere ma anche nuovi linguaggi. In pittura, se ci si accontenta di leggere per differenze l’infinita sequenza di immagini che potrebbero succedersi in un fantastico omnicomprensivo museo, questo accavallarsi di proposte ci appare esaltante quanto disperato, e tuttavia una lettura per trasformazioni legate ai mutamenti del sociale sembra ogni volta reintrodurre una qualche speranza di venirne a capo. Ma come difendersi dalla tentazione ricorrente di sovrapporre ai fatti una troppo intellettualistica idea di svolgimento? Mario Agugiaro ci si è provato rimescolando le sue carte .

ovvero provocando un inatteso, improbabile eppure realissimo cortocircuito

tra istanze che le estetiche di una volta avrebbero definito ‘del contenuto’ e ‘

della forma’. I risultati sono sotto i nostri occhi e, pur non contraddicendo in

nulla quella che potrebbe essere dichiarata, a tutti gli effetti, una sensibilità

epocale, ci sembra dimostrino come egli sia uscito dall’impasse eclettica che

sovrasta le attuali ricerche più avanzate, per una strada che non sarebbe lecito

considerare secondaria. I suoi personaggi, in un certo senso, ci assomigliano,

sono le nostre controfigure, le controfacce di un atteggiamento che ci appare

rassicurante solo perché fondato senza riserve sul principio del relativismo e

dell’incertezza. Un atteggiamento che, pago della seriosità nichilista, non

percepisce più il ridicolo inevitabilmente conseguente ad una resa

contrabbandata per vittoriosa soluzione fi