Paolo Plebani, storico dell'arte dell'Accademio Carrara di Bergamo

Nel lavoro di Matteo Gubellini domina un senso di sospensione e di attesa, di qualcosa che può accadere da un momento all’altro ma che nessuno sa davvero cosa sia. In questo i lavori di Gubellini mi ricordano da sempre le atmosfere inquietanti di certi racconti di Dino Buzzati, pittore a sua volta di atmosfere fantastiche e attonite.

Non c’è naturalmente solo questo nel suo lavoro, ma ci sono molti altri momenti dell’universo creativo dell’artista, che si giostra tra disegno, illustrazione e pittura senza tuttavia cambiare pelle e, pur nella diversità delle tecniche utilizzate, tenendo sempre fede al proprio immaginario.

Un immaginario nel quale la realtà è sempre reinventata e trasfigurata fantasticamente: dove gli amici assumono le sembianze di strani uccelli volanti; dove il ballo e il canto non sono luoghi di socialità e di relazione ma di una solitudine e di una aggressività striscianti; dove creature bizzarre, a tratti simpatiche a tratti vagamente minacciose sembrano uscite dai dipinti di Bosch; dove la natura soverchia gli uomini piccoli piccoli, persi in un labirinto di alberi e di neve. Un immaginario che sembra preferire le ombre lunghe e misteriose, il colore scuro e livido della notte, i paesaggi innevati, alla luce calda e confortante del sole. Un mondo in cui prevalgono le tonalità del meraviglioso, dell’onirico e della fiaba, ma nel quale si sentono risuonare, se si ascolta con attenzione, anche le note più personali e meno rassicuranti di una misteriosa quanto insondabile interiorità.