ROBERTO VOLPI - MATTEO MILLI SULLA “OBSIDIO TIPHERNATUM” - MOSTRA "1474 - CITTA' DI CASTELLO SOTTO ASSEDIO" 2021
Matteo Milli, fumettista di buon livello, ottimo disegnatore, è approdato alla pittura qualche anno fa e, come tutti gli artisti importanti, è impegnato in un percorso di crescita che risulta essere estremamente attento, da un lato alle grandi tradizioni figurative, dall’altro a eventi culturali contemporanei specie nell’Italia centrale.
Per cimentarsi in un’impresa pittorica, quale occasione migliore del convegno organizzato a Città di Castello sull’assedio subito nel 1474? Perché tanto interesse per il centro tifernate da parte di un personaggio fortemente ancorato al suo paese di Apecchio?
La risposta è semplice. I rapporti tra le due località sono rimasti fecondi e positivi durante un trascorso lungo quasi un millennio. Nel 1077 Apecchio risulta proprietà del vescovo conte di Città di Castello. Ma poco dopo gli Anziani apecchiesi deliberarono di affidarsi al libero Comune tifernate, in quanto tale situazione permetteva spazi di autonomia impensabili diversamente. Da allora il reciproco e positivo legame non venne mai meno.
In questo quadro, non si può trascurare un particolare personale: Milli ha compiuto gli studi superiori a Castello, che è rimasto peraltro il fulcro della sua formazione culturale.
A monte del ciclo di opere che Matteo ha dedicato fra il 2019 e il 2021 all’”obsidio” del 1474 stanno infatti alcuni filoni fondamentali che si ritrovano costantemente nelle proposte via via rivolte al pubblico.
Si è accennato alle sue origini fumettiste. Le sue pubblicazioni tra il 2012 e il 2015 si collegano sia pure in misura diversa al tema della violenza: West (2012) ispirato al film Per qualche dollaro in più di Sergio Leone, Samurai(2013), Shrapnel (2015) ambientato sul fronte della prima guerra mondiale.
Lotta, violenza, guerra sono rimaste come temi fondamentali nei primi anni del suo esordio pittorico. Ma la violenza è concepita non solo come esaltazione del coraggio, vi è di più: il combattimento è per lo più collegato all’idea di difesa della libertà intesa non come glorificazione di un Io guerriero, bensì come autodifesa di una collettività, di un centro abitato geloso dei suoi diritti e delle sue tradizioni.
Era quindi inevitabile l’interesse per i fatti del 1474. Per la storia di Città di Castello fu un momento centrale, perché sventò il pericolo di una soggezione totale ai voleri della corte pontificia e finì per rafforzare la guida della famiglia Vitelli alla testa della città e del popolo.
Da rammentare brevemente il ruolo svolto da questa famiglia su un arco di tempo che va dal secolo XIV alla fine del XVIII. Figura centrale dell’ascesa e del predominio dei Vitelli è sicuramente quella di Niccolò. Nato nel 1414, ereditò immense ricchezze dal padre Giovanni, dalla madre Maddalena dei Marchesi di Santa Maria e dallo zio Vitellozzo. Fu persona colta: studiò lettere, giurisprudenza, politica ed arte militare. La sua ascesa politica fu facilitata da due fattori. In primo luogo la famiglia materna era imparentata coi Medici, di cui divenne amico e sostenitore. Inoltre poté sfruttare la circostanza per cui un altro membro della famiglia, Gerozzo morto nel 1462, aveva già ottenuto che Città di Castello si reggesse in Vicariato autonomo dalla Legazione di Perugia. Nel 1468 sventò una congiura ordita dalle famiglie rivali dei Giustini e dei Fucci e ne fece orribile strage. Per indagare sul fatto il papa Paolo II inviò un commissario, che tuttavia fu costretto ad andarsene. A quel punto Niccolò rimase padrone incontrastato della città. Incontrastato ma anche amato. I Vitelli furono sempre dalla parte delle fazioni popolari. Gli avversari li definivano con disprezzo “venuti dalla zappa”: delle loro origini non propriamente umili, ma di nobiltà abbastanza recente, non si vergognarono mai.
Niccolò fu per Castello una sorta di padre della patria. La sua cultura e la sua sensibilità lo spinsero verso un mecenatismo che consentì l’arrivo di Luca Signorelli e di Raffaello.
Il primo eseguì il suo celebre ritratto oggi conservato nella Galleria Cook a Richmond e lo raffigurò nel Giudizio Universale in duomo nella Cappella di San Brizio. Ritrasse anche i suoi figli Camillo e Vitellozzo: quest’ultimo è rimasto celebre per il racconto che Machiavelli fece della sua uccisione l’anno 1502 nella congiura ordita da Cesare Borgia, l’unico che per un brevissimo periodo riuscì a interrompere il predominio vitellesco su Città di Castello.
Raffaello nella località tifernate nel 1500, ad appena 17 anni, aprì una sua bottega come magister e l’anno successivo terminò il suo primo lavoro documentato, la pala d’altare nella Chiesa di San Nicolò da Tolentino.
La fortuna di Niccolò Vitelli ebbe una battuta d’arresto dopo la salita al soglio pontificio di Sisto IV, che meditava di sostituire il dominio vitellesco con quello della sua famiglia, i Della Rovere.
Da qui nacque appunto il celebre assedio del 1474, quando l’esercito pontificio al comando del cardinale Giuliano della Rovere chiuse in una morsa la città, che resistette per 80 giorni sotto la guida di Niccolò, ma alla fine dovette arrendersi solo per penuria di viveri. In realtà la mediazione dei Montefeltro consentì al nobile tifernate di scendere a patti con il papa che lo costrinse comunque all’esilio.
Dopo alterne vicende, rientrò definitivamente a Città di Castello nel 1484, dopo la morte di Sisto IV.
Il terribile assedio finì per cementare e rendere indissolubile il legame fra il popolo e la famiglia di Niccolò. Il quale non assunse mai il titolo di “Signore”, e lo stesso fecero i suoi successori, che tuttavia instaurarono una signoria di fatto, destinata a durare fino al 1790, quando Clemente Vitelli morì senza eredi.
I discendenti di Niccolò finirono per assumere importanza a livello nazionale ed internazionale. Basti pensare che Chiappino Vitelli combatté a Lepanto e seguì Andrea Doria nelle sue imprese anche sul litorale nordafricano. Combatté per la Spagna contro i ribelli olandesi e Filippo II lo nominò ambasciatore presso Elisabetta di Inghilterra. Suo figlio Alessandro, comandante della Guardia istituita in Firenze, edificò la Fortezza da Basso ed ebbe un ruolo determinante nel passaggio della città da repubblica a principato, nonostante che per un breve periodo, da capitano di ventura qual era, lasciò Firenze e si schierò con il papato contro Cosimo de’ Medici; poi cambiò di nuovo schieramento e, rientrato, fu nominato Maestro di Campo generale delle milizie spagnole nella guerra contro i Senesi. In conclusione non è da stupirsi che gli avvenimenti del 1474, descritti dal podestà Roberto Orsi da Rimini nel suo De obsidione Tiphernatum siano stati un momento nodale non solo per l’Alto Tevere, ma per buon parte dell’Italia centrale. Come tali, è perfettamente naturale che diventassero fonte di ispirazione per Milli, sempre attento e quasi affascinato dalle alterne vicende del divenire storico. L’autore ha voluto premettere come una sorta di incipit al suo ciclo di 9 lavori in acrilico su tela un’opera che cronologicamente è la più recente, Raffaello e Niccolò Vitelli. In primo piano il profilo di Raffaello che nel 1504 dipinge a Castello lo Sposalizio della Vergine. Milli immagina che l’Urbinate, lavorando, ripensi a quanto sentito a proposito delle vicende riguardanti i Vitelli e l’assedio. Di conseguenza nella parte alta del dipinto viene effigiato Niccolò alla testa dei suoi armati. Tutto ciò si sposa, al tempo stesso, con l’espressione di Raffaello, tra l’attenzione e il compiacimento di quanto sta realizzando.
Dunque, la prima tavola dedicata alla narrazione pittorica vera e propria dell’assedio è in realtà quella che non a caso l’autore intitola Inizio. Nella didascalia di taglio fumettistico (circostanza non casuale e che come si vedrà si ripete altrove) vengono ricordati gli eventi che portarono prima al consolidamento del potere di Niccolò e poi il suo rifiuto di abbandonare la città, come intimato da Sisto IV, da cui l’invio dell’esercito papale.
Nella parte inferiore i profili del papa e del cardinale, comandante in capo delle truppe. La somiglianza tra le due figure rimanda al nepotismo sfrenato di papa Sisto. Le accomuna la determinazione, una forte volontà di potere, un fondo di malcelata ferocia. Il chiaroscuro prediletto nel rappresentare i volti richiama un lontano riferimento caravaggesco (che l’autore stesso ha sempre confessato far parte integrante della sua poetica) mediato da un’efficacia espressiva derivante anche dagli esordi fumettistici di Matteo.
Il Combattimento raffigura in modo stilizzato ma apprezzabile la disperata resistenza dei Tifernati con tutti i mezzi, dall’archibugio alla balestra, dall’alabarda alle pietre, per difendere le mura medioevali. Costituendo queste il limite esterno della città acquistano una sacralità che va oltre la loro fragilità. Alte e sottili per non essere scalate con facilità, non resistono ai colpi dell’artiglieria. Il paesaggio non è neppure accennato, bastano poche pennellate di grigio e di celeste a rappresentare il cielo e il territorio circostante. Si vuole quasi focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla difesa in quanto tale, con la bandiera issata da un combattente che storicizza un evento altrimenti riferibile ad altro luogo o ad altra epoca.
Arriva, in un tempo senza età. Senza età anche perché, come Milli ama spesso fare, vengono ritratti in abiti quattrocenteschi personaggi attuali, amici dell’autore. Anche qui, una lontana eco dell’influsso di un Caravaggio, che nella parte iniziale del periodo romano amò rappresentare suoi amici o sodali panneggiati da divinità classiche. Lui è un arciere di Niccolò con cotta di maglia, corazza e giornea, con lo stemma dei Vitelli. A fianco la moglie Violante, in ossequio a un episodio particolare che si è tramandato fino a noi. Si dice che una delle donne che rifornivano gli uomini a difesa delle mura fu colpita da una freccia che estrasse da sola e scagliò verso gli assalitori.
Da notare la determinazione guerresca dell’arciere nell’impugnare saldamente la sua arma e una sottile sensualità della donna al suo fianco, con il suo ambiguo sorriso. Una scena che, anche qui, potrebbe essere collocata in un’epoca precedente o successiva: appunto, senza età. Il Falconiere del Duca è una scena di corte che costituisce una sorta di intermezzo nella narrazione vera e propria, anche se vi è un collegamento a due diversi momenti della vicenda. Il primo è la nomina a duca di Federico da Montefeltro non molto tempo prima dell’assedio. Il secondo è il ruolo da lui svolto per porre termine allo stesso. Inoltre, nelle corti rinascimentali l’attività venatoria non era solo un passatempo, bensì una preparazione all’addestramento bellico. Da notare il cipiglio del falconiere in livrea, che rispecchia l’aggressività dal falcone. Tra l’uomo e l’animale si instaura una sorta di simbiosi; alle loro spalle un indecifrabile sfondo tra una roccia e il cielo aperto che sarà il teatro dell’azione di caccia.
Libertas, cronologicamente il primo dipinto del ciclo, è un inno alla libertà del popolo tifernate, nel ricordo che Città di Castello fu uno dei primi liberi Comuni del Medioevo italiano subito dopo la morte di Matilde di Canossa (1115). La libertà è raffigurata come giovane donna riccamente vestita, seduta su un trono di marmo con lo stemma cittadino. Milli dichiara di essersi ispirato agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti sull’allegoria del Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena, Salone della Pace. E’ particolare l’assenza di una centralità della figura, come l’allineamento volutamente mancato con il profilo dell’immaginario paesaggio boscoso sullo sfondo. Sembra l’illustrazione di quanto esponeva Milli in una intervista di 3 o 4 anni fa dichiarando: “Prospettiva, simmetria e paesaggio non sono necessari. Mi importano il movimento e i sentimenti che le figure dipinte devono suggerire all’osservatore e il punto di vista di ogni dipinto, che non sempre può essere frontale”.
Senza dubbio, l’opinione di Matteo si riallaccia da un lato alla tradizione leonardesca (vedi l’Annunciazione agli Uffizi), dall’altro a quella caravaggesca (un esempio su tanti, le Sette opere di misericordia dipinto a Napoli, dove la Vergine e il Bambino, relegati in alto da due angeli “scugnizzi” le cui ali si intrecciano irrimediabilmente, guardano una massa di popolani dei quartieri più poveri che si accalcano in un sordido vicolo).
Ma altri dettagli, qui ancor più che altrove, sembrano illustrare la particolarità della poetica milliana. La donna è maestosa ma sorridente, con una capigliatura giovanile e quasi sbarazzina. Nel volto ripropone la sensualità di Violante o di precedenti dipinti di Matteo, come la Santa Cecilia. La “libertas” è inoltre incorniciata da un’aureola in cui, prosaicamente, vengono iscritti l’anno di esecuzione dell’opera, il titolo e il nome latinizzato dell’autore.
In N.V. MCDLXXIIII Niccolò Vitelli, vestito di cotta e giornea, è in piedi sulle mura che hanno già subito i danni dell’artiglieria con la bandiera del suo casato, mentre sullo sfondo è delineato lo scorcio della città che egli non rinuncia a difendere. Con lui è un soldato in armatura completa che tiene il vessillo con lo stemma del libero Comune.
Le due figure sembrano tutt’uno con le mura rovinate e tuttavia strenuamente difese. Il profilo di Niccolò richiama il ritratto di Luca Signorelli, ma più umanizzato, con una sorta di ironico distacco che, anche qui, deriva dalla capacità di fumettista. Senza tuttavia celare la fiera volontà di proteggere la città di cui lo stesso Signore si sente parte integrante.
Pax rappresenta l’arrivo della pace al termine degli 80 giorni di assedio. Viene identificata in una donna che svuota un elmo pieno d’acqua per spegnere il fuoco dell’odio; con l’altra mano tiene un ramoscello d’ulivo. Il ramoscello è stilizzato, con un’argentatura che ne sottolinea la brillantezza. Con la pace arriva la luce dei tempi migliori, che lasciano alle spalle il buio e il fuoco della guerra.
Nella mirabile raffigurazione del simbolo ricompare il motivo dell’aureola, come in Libertas o nella Santa Cecilia sopra ricordata.
Nella Fine i personaggi sono Federico da Montefeltro e Niccolò, ritratti di tre quarti. Da notare come il secondo è ancora raffigurato in abiti guerreschi, a differenza del duca, latore a Roma delle proposte di pace che posero fine all’assedio.
In alto e in basso due lunghe didascalie che, per l’ennesima volta, ripropongono l’abilità con cui l’autore sa servirsi di un taglio fumettistico. In esse viene riassunta la vicenda di Niccolò successiva all’assedio, con l’esilio, il rientro in città, il nuovo esilio e il definitivo rientro. Viene inoltre sottolineato il particolare non trascurabile che, come ricordato più indietro, Niccolò non si definì né si atteggiò come Signore, cosicché i suoi discendenti ebbero la facoltà di perpetuare per secoli la loro signoria di fatto.
Sicuramente, il dipinto rinnova la centralità che Milli ha voluto riservare alla figura di Niccolò, guerriero ma protettore delle arti, condottiero ma letterato e uomo di cultura. Le dimensioni (20x80) tendono a sottolineare la funzione iconica di questa singola opera e di tutta la serie. Non a caso il formato di Fine è identico a quello di Inizio, come un interessante cerchio che si chiude.
Ho rimarcato più volte quanto debba l’autore alle sue origini di fumettista. A parte il fatto che, dalle origini di fine Ottocento in poi, il fumetto è via via diventato una branca sempre più fondamentale e preziosa della comunicazione artistica, l’ispirazione che muove Matteo ha basi ben più lontane. Per limitarci agli autori che ho citato, non si dimentichi come le figure di arcieri e guerrieri siano un tema prediletto proprio dal Signorelli. Né si può tacere circa la lezione del ritrattismo raffaellesco, con la minuziosa cura dei visi che non ritroviamo nel nostro pittore. Matteo risolve in qualche occasione la rappresentazione dei visi con una certa essenzialità, perché mira con pochi tratti a ricostruire l’espressività della figura. Nell’individuare come punto nodale l’importanza dell’espressione di ogni soggetto ritorna dunque per altra via all’influsso di Raffaello.
Allo stesso modo Milli ha tentato di interiorizzare e utilizzare la tradizione caravaggesca, non solo per ciò che riguarda il rapporto fra luce e ombra, ma ancor più per il rifiuto di un centralismo statico e codificato e per quel realismo che per esempio spinge Caravaggio a rappresentare Maria come una bella e prosperosa popolana nella Madonna dei Palafrenieri, opera per questo e per altri motivi (la nudità di Gesù Bambino, la bruttezza di S. Anna come una specie di megera) rifiutata dall’omonima confraternita in San Pietro che gli aveva commissionato il lavoro.
Senza voler instaurare paragoni irriverenti, sotto certi aspetti si può iscrivere Milli in quella tradizione caravaggesca, che si aprì subito dopo la morte del Maestro. I cosiddetti Caravaggeschi della prima metà del Seicento, sia nella componente francese come Valentin de Boulogne, sia in quella italiana come Bartolomeo Manfredi, crearono veri e propri capolavori. Lo stesso fece, all’incirca nel medesimo periodo, una serie di artisti che si trincerarono dietro l’anonimato, per cui ancor oggi è difficile individuarne perfino la nazionalità.
Si potrebbe concludere che la vera grandezza del pittore sta nel nome e nel successo e nella sua capacità di apprendere dal passato e di comunicare quanto appreso in modalità conformi ai tempi e al proprio vissuto. Questa definizione mi pare che calzi perfettamente alle opere di Matteo Milli.
Roberto Volpi