Fabrizio Migliorati
Critica di Fabrizio Migliorati per il catalogo "Sentieri di Luce", 2021
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Oscar Coffani, pellegrino dell’attraversamento
di Fabrizio Migliorati
L’incombenza dell’avvento di un’immagine, il suo giungere alla presenza provenendo dal luogo caosmotico del fondo del dipinto. Si avverte un’urgenza particolare di fronte alle opere di Oscar Coffani: un’urgenza che incombe dall’esterno e che noi, semplici spettatori, percepiamo con un’immediatezza pungente, ritrovandoci, di conseguenza, completamente presi all’interno di questo abbraccio energetico e necessario che non concepisce deroghe.
Il libero arbitrio viene temporaneamente sospeso in questo tempo che si fa tempo, che instaura le proprie condizioni di esistenza e di campo. Un tempo che si spazia. Come per ogni esperienza che impone un vero e proprio attraversamento, anche in questo caso una domanda sacrificale risuona con la purezza delle litanie di Hildegard von Bingen: fare tabula rasa del paesaggio intricato della nostra quotidianità per esperire un itinerario fino a quel momento sconosciuto. Consci che questa piazza pulita radicale non possa completarsi semplicemente con un facile augurio o con il tentativo esitante di modificare il nostro approccio, ma insieme alla forza esterna, estetica ed etica che agisce su di noi, iniziamo a volgere lo sguardo verso questi dipinti. Immediatamente
percepiamo l’immensa distanza che ci separa dal concetto di “buco dell’immagine”, mentre sentiamo che siamo molto più prossimi all’aspetto iconico, là dove “icona” significa “immagine pura”: è tutta immagine, luogo dell’apparire, della venuta in presenza, mantenuta nella tensione trascendentale che la costituisce. Vi è dunque, fin dal principio, un elemento altamente contemplativo che impone un tempo, il suo tempo, a noi ancora sconosciuto. Attraversare la sua opera imporrà quindi anche il tentativo di esperire questo elemento nuovo.
PAESAGGI INTERIORI, IMMAGINI, VISIONI
Le prime opere che incontriamo nel nostro viaggio vanno sotto il nome di Paesaggi interiori. Questa serie testimonia del tentativo di traduzione di visioni personali sulla tela. Queste visioni non sono però quelle di un mistico che, come dice Lacan, “provano l’idea che ci debba essere un godimento che vada al di là”, ma quelle di un pellegrino che interiorizza e coltiva il suo giardino spirituale segreto. Visioni che si avvicinano quindi a luoghi intimi curati con infinita pazienza, dove coltivare e conservare sensazioni visive. Potremmo definire questo ciclo come il precipitato di visioni interne, essenza mediale ma anche fondo che si deposita dopo la forsennata caduta verso il basso, indicando l’importanza di una direzionalità preziosa all’interno del processo creativo.
Se Aristotele nell’Etica Nicomachea ci insegna che l’atto del vedere è il più grande dei piaceri, la contemplazione di quelli che, con estrema precisione e puntualità, Coffani definisce dei “paesaggi interiori”, è fonte per l’artista medesimo di una grande intensità. Aristotele indica, inoltre, che questo atto non concepisce una mobilità e che il piacere è inerente alla staticità e va considerato come un intero. I paesaggi interiori sembrano quindi dipanarsi come immagini piene, intere, definite e definitive, icone balenate nell’immaginazione dell’arti sta in seguito ad un minuzioso lavorio di fronte alle quali l’artista stesso si pone in una stanzialità di contemplazione. Noi spettatori, possiamo semplicemente imitare quello sguardo sapiente e intriso di piacere scopico, posizionandosi in una successività temporale, in un après-coup che tenta di attivare significanti pittorici.
Coffani vede e sente, quindi, paesaggi interiori e si lancia nello sforzo di farli riemergere sulle tele. Ritroviamo qui qualcosa di molto simile a quello che avviene nel sogno. L’artista lavora, proprio come il poeta nel momento del sonno, nella sospensione dell’attività produttiva cogliendo l’occasione per fare germogliare ciò che di più intimo il proprio essere cela. L’inoperosità del sonno
permette la costruzione di universi significanti, l’emergenza di strutture sintattiche ed estetiche e l’accettazione silente di impensati razionali. La libertà espressiva si dipana approdando ad una conoscenza altra, più puntuale e precisa proprio perché non parassitata dal martellamento dello svolgersi della vita. Dopo l’interruzione della notte, durante la veglia, alla luce del giorno, le impressioni delle proprie visioni mantengono ancora qualcosa della propria veridicità e il passaggio attraverso le zone vaporose del dormiveglia lascia, malgrado tutto, un velo protettore, una pellicola che si deposita sulle immagini oniriche salvandole dall’obliante quotidiano luminoso. Perdurano così le più intime sensazioni dell’immaginario personale e la forza d’entelechia di Coffani volge in atto questa potenza. Lo sguardo fisso nella contemplazione dell’immagine si mantiene come sfondo anche nella traduzione in immagini che appare come volontà trascendentale nello sforzo dell’artista.
Questi lavori sono, per lo più, costituiti da una figura centrale, spesso vegetale o astrale, che si sospende o folce su di una linea che solca la visione creando un orizzonte. Un sentimento di grande serenità si effonde come spazialità emozionale intorno al dipinto, nell’hors-cadre che lo sostiene. La figura centrale, a volte fantasia barocca ma, più spesso, controllatissima presenza che attira l’attenzione, è il vero e proprio punto intensivo dell’opera ed essa instaura una risonanza intensa di tutti gli altri paesaggi. Esiste quindi una correlazione non esplicitata, ipodermica, che attraversa tutti i lavori di questo ciclo, e che va a creare una composizione musicale sconosciuta e naturale. Secondo Hildegard von Bingen, “symphonialis est anima” e questa correlazione tra anima e musica sembra risuonare anche qui, in queste composizioni che, separate dagli evidenti limiti spaziali, riemergono come note su di uno spartito immaginario, istituendo una continuità che sorprende ed affascina, tanto per la naturalezza che per la concordia delle partes extra partes. Mantenendo sullo sfondo della nostra riflessione questo riferimento musicale, possiamo volgere il nostro sguardo a quelle figure centrali che paiono, più che un costrutto estetico, l’anelito di un vitalismo spirituale, l’insistenza di un enigma. Albero della vita e Albero della pace, Ignis, Microcosmo, Tramonto: il centro dell’opera riveste costantemente un significato immediatamente comprensibile ma, allo stesso tempo, lo mantiene in una tensione, in una vibrazione misteriosa, come a celare il nucleo pulsante che permane invisibile agli occhi e all’esplicazione didascalica. Ciò avviene in maniera ancora più marcata in uno splendido lavoro del 2014 intitolato Metamorfosi dove sospesa sulla linea dell’orizzonte compare una delicata farfalla. Il titolo indica senza dubbio la particolarità del ciclo vitale dei lepidotteri che dallo stadio dell’uovo iniziale, passando attraverso quelli di bruco e di pupa, giunge allo sfarfallamento adulto che dipana quella bellezza già contenuta in potenza all’origine. Ma il riferimento non si ferma semplicemente qui. In greco farfalla si dice psyché e quest’ultimo termine significa anche “soffio”, “anima”. La stretta correlazione semantica tra questi termini appare evidente nell’intensificazione che Canova effettuò con il suo gruppo di Amore e Psiche del 1797, oggi esposto nella galleria Michelangelo al Louvre. Il punto intensivo di entrambe le opere è proprio la farfalla, anima offerta alla vita, ad Amore. Coffani, la cui formazione in psicologia attraversa senza dubbio quest’opera, lascia sfarfallare l’enigma della propria anima che si libra silente su di un orizzonte impalpabile, mentre riecheggia l’armonia universale di infiniti paesaggi interiori.
INFORMALE, FERITA, ANELITO
Vi è poi un secondo e importante corpus di opere che segue una numerazione progressiva, àncora e struttura lineare fondamentale della poetica informale. Qui il concetto di serie riveste maggiore importanza rispetto alla titolazione poiché nella serialità agisce una ricerca incessante che slega il soggetto dalla corvée della vocalità solipsistica, ancorandola ad una sequenzialità neutra, scientifica, empirica. Il titolo discende dalla serie ma non senza una potenza di risignificazione. Si tratta di un attraversamento semantico che taglia il senso dell’evocazione verbale che il titolo spesso riveste. Il vocabolo che in ebraico definisce la “parola” è milà, e questo termine significa anche “taglio”.
Vi è dunque una stretta connessione tra il parlare e la recisione, il nominare e la ferita. Anche in questi lavori troviamo una struttura centrale, molto meno definita rispetto a quelle della serie dei Paesaggi interiori, spesso sprovvista di un vero o un unico centro ma che, malgrado tutto, si mantiene intorno ad un centro gravitazionale invisibile. Vi è qualcosa dell’ordine del sacrificio, dell’esposizione vitale all’offerta attraverso un posizionamento finalistico. La perdita della linea dell’orizzonte è significativa poiché, attraverso questa sottrazione, questa recisione rispetto al mondo fisico, conosciuto, la figura centrale diviene immagine, slegata quindi dalla prigionia della significazione connotativa e dall’orizzonte figurativo. Una nuova fisica si impone in questo campo dove l’oblìo del mondo antico agisce come fantasma funzionale alla propria prassi.
Liberatasi dalla significazione del titolo e dalla figuratività, l’opera può al fine squarciarsi, esponendo la ferita che la rappresenta, la carne viva che pulsa nello spasmo della sensazione.
Coffani guarda al genio sregolato di Jackson Pollock, al suo dripping, l’azione della pittura sgocciolata come modus operandi creante un’area dove il corpo a corpo tra materia e artista diviene combattimento vitale (e, cioè, anche lotta per la vita, per non soccombere), ma anche al lavoro esternamente più freddo, definito e cerebrale di Barnett Newman. La lirica informale trapassa da parte a parte questa serie, la perfora e la informa, le dona una spazialità totale. Non vi è solo l’atto che plasma dall’esterno queste opere, ma si attiva anche una formazione interna, dall’ipotetico ventre dell’opera. Essa non è più una bolla monadica chiusa in sé stessa, perfetta nella sua superficie esteriore, ma complessissimo mondo dalla forma sconosciuta o difficilmente descrivibile. Un mondo che assomiglia a quello del pianeta Pallas descritto da Paul Scheerbart nel suo romanzo di fantascienza Lasebéndio.
Nell’immane sforzo della restitutio in integrum che l’eroe eponimo intraprende per congiungere il sistema di tronco dell’asteroide Pallas alla nube luminosa del sistema di testa – azione contemporaneamente singolare e collettiva, sacrificale e rivoluzionaria – ciò che colpisce è la questione dell’intenzionalità. Inizialmente, il progetto folle di Lesabéndio è fine a sé stesso, come tutti gli altri progetti pallasiani, finalizzati ad un superficiale abbellimento estetico. Solamente con il passare del tempo questa folle azione diviene intenzionalmente indirizzata verso un’integrità astrale mai immaginata in precedenza e il sistema-imbuto si trova solcato da torri di decine di metri di altezza. Progetti elefantiaci di costruzioni immense che posseggono però il quid della leggerezza, anche se ciò è limitabile al solo gesto creativo (il piano avviene nel suo svolgersi, l’aspetto progettuale emerge solamente nel farsi dell’improvvisazione – non a caso “improvvisazione” è un termine ricorrente nei lavori informali di Coffani).
Le linee centrali dei lavori dell’artista sembrano avvicinarsi a questa intenzionalità nuova e famelica, lavorando nel segreto dell’aspetto silente senza alcuna finalità acclarata, solamente come gesto artistico puro. Ma con il continuo depositarsi dell’intervento manuale e dell’aspetto scopico, l’artista si ritrova in fase con quella intenzionalità inattesa e mai esplicitata, giungendo, nella sua opera, ad un quid spirituale ermetico quanto affascinante. Lungi dall’essere un artista facondo, Coffani si sottrae al vociferare e al rumore per consacrarsi ad un’operazione intensa rivolta alla beanza, apertura impossibile da colmare, non chiuso nel silenzio, ma racchiudendolo all’interno del suo poiein, afflato turbato dell’artista.
RITRATTI
Recentemente l’attenzione di Coffani si è concentrata sul ritratto e la galleria di volti e vesti (i corpi rimangono velati e protetti dai panni, piatti e significanti, che li abbracciano e li proteggono) che abitano la sua arte dal 2019 testimoniano di questo soggetto che si inserisce in un percorso già estremamente ricco e compatto. Il vultus irrompe quindi nell’orizzonte dell’espressionismo
astratto. Fissità, piattezza, astensione espressiva, sembrano essere i cardini sui quali opera la nuova serialità dell’artista. Indispensabile appare qui una chiarificazione: la mancanza di espressività non indica, però, la totale disumanizzazione dei personaggi raffigurati. Questa galleria appare come una catena benedetta, un anello preciso e definito che lega, l’uno all’altro, personaggi tanto riconoscibili quanto impersonali. Ed è proprio questo tratto prettamente impersonale che li rende riconoscibili: vi è quindi uno stretto legame tra significanti opposti ma coestensivi. Coffani non tratteggia con certosina pazienza questi volti individuali ma effettua un’operazione di mantenimento ”a posteriori”, attraverso la fissazione (che potrebbe essere) eterna dell’emergenza di tratti provenienti da lontano. In lui percepiamo la volontà di lasciar esprimere la materia, quasi incerta e votata all’effimero, per coglierla nel momento in cui essa inizia il percorso, ripido e celere, sul versante della sparizione, del
dissolvimento. Un’azione che si posiziona “un po’ oltre” il gesto classicamente inteso del fotografo che coglie il “momento decisivo” , ma comunque né troppo presto né troppo tardi. Coffani nella gestualità artistica interviene con un leggero tempo di attesa lasciando che la figura si volga verso la propria scomparsa. Ecco perché queste opere inedite fino ad ora giungono a noi come salvate dalla loro condanna portando con sé il sigillo della loro finitudine e della loro fine.
Lyon, dicembre 2020