Prof. Arch. Cassisi Giuseppe

RECENZIONE A CURA DEL Prof. Arch. Cassisi Giuseppe

Presentare una mostra d’arte, confesso, non è facile. Si rischia da un lato di essere banali, di usare parole scontate, di circostanza; dall’altro di esporre dei concetti d’èlite, magari altisonanti, ad effetto. Se poi ad esporre sono due persone con cui hai condiviso chiacchierate, momenti, idee, è ancora più dura. Perché vorresti che i tuoi ascoltatori, attraverso le tue parole, cogliessero l’intima essenza delle loro opere senza lasciarti influenzare dai rapporti che con loro mantieni.

Spiegare l’arte. Ma è possibile? è giusto?

Partiamo dal presupposto che non esiste una spiegazione oggettiva delle cose: tutto ciò che pensiamo, che ciascuno di noi pensa, è soggettivo. Quindi anche quello che pensiamo davanti ad un dipinto è soggettivo, per cui un’idea, una spiegazione, non può essere più valida di un’altra.

Ogni pensiero nei confronti di un’opera è valido, è giusto, ed è un’interpretazione esauriente per chi formula il pensiero. L’arte non è scienza, non è matematica, ma un linguaggio, un canale di comunicazione che si instaura tra me e l’artista, tra ciascuno di noi e l’artista. Ciascuno di noi con le sue idee, la sua cultura, le sue esperienze di vita.

L’arte non è una disciplina che deve dare risposte univoche. Un dipinto può comunicare mille sensazioni differenti ad altrettante persone diverse. Il bello dell’arte è la sua libertà di interpretazione, per questo, “spiegare” un’opera d’arte riduce l’immaginazione dell’osservatore. Questo, a mio parere, non è positivo in quanto l’osservatore cade nell’interpretazione di un altro individuo e la sua visione del quadro è influenzata da altre forme di pensiero.

Dicevo, l’arte è un canale di comunicazione tra me e l’artista, tra me che uso le parole per comunicare, e lui che usa altri strumenti che più gli sono congeniali: i pennelli, i colori, le tele;

Un linguaggio. Un modo di comunicare.

Ed è da questo assunto che nascono le opere di di Paolo Carnemolla.

Il percorso di Paolo è L’informale astratto, è talvolta il si fondersi con il figurativo, dando vita a un percorso di sperimentazione e ricerca significativo senza tuttavia mai confondersi, mantenendo intatta la cifra dell’autore: il colore. È la ricerca sui colori che attira ed affascina nelle opere di Paolo, ed è una ricerca che parte da lontano: dopo un lungo periodo da “hobbysta”, la sua prima esposizione è infatti del 1985. Ricerca, cosa non secondaria, svolta tra l’altro con una tecnica non facile: la spatolatura ad olio.

Sulle sue tele Paolo ricrea una rete;: tasselli regolari, a volte sfumati nella cromia, eppure non monotoni, quasi un puzzle dai contorni definiti, retti, puliti. Anche quando i confini delle “tessere” sembrano, sinceramente non saprei se dire “vogliono”, sfilacciarsi, sfrangiarsi.

Come, ad esempio, nella “Danza dei Colori” o nel “Sogno dell’Artista”: le campiture sembrano sovrapporsi, scomporsi, miscelarsi continuamente in un movimento che rimane tuttavia non vorticoso, ma regolare: una “danza”, appunto.

Una danza che avvince lo sguardo dell’osservatore, lo affascina, lo porta quasi a porsi la domanda classica che, confessiamolo, ciascuno di noi ha almeno pensato anche una sola volta davanti ad un’opera contemporanea: “ma che cos’è?”.

Con le opere di Paolo Carnemolla la domanda, affiora, ma resta sospesa per poi svanire. Lo spettatore viene coinvolto dall’immagine, si ritrova ad osservare ogni singolo colore, ne scopre gradualmente la regolarità, riesce a leggere le linee guida della composizione, ne è attratto completamente. È quello che l’autore cerca, vuole. Lo dicevo prima: le parole che più ripete quando parla d’arte, quasi come un mantra, sono “l’arte va osservata, non spiegata”. Lo scopo è raggiunto e gli occhi del pubblico che, come ipnotizzati, non riescono a staccarsi da quelle tele ne sono la testimonianza palese.

Personalmente, devo dire, apprezzo di più le opere in cui l’informale sfiora il figurativo, quasi a sublimarsi.

Penso a “Mattanza”, dove il cerchio della barche che si stringono attorno alla rete diventa chiaro, evidente, solo dopo aver “scoperto” il sole che brilla sulla scena: a quel punto i tasselli colorati prendono forma, si riuniscono: i corpi dei pescatori, il ribollire del mare, le sagome delle imbarcazioni. Ma anche la concitazione del momento, le urla del “rais”, il rumore agitato dell’acqua…

O, ancora e sempre in tema marinaro, nel “Groviglio di barche”: è ancora il cerchio del sole che vivifica la scena, facendola scoprire: diventano immediatamente evidenti le prue delle imbarcazioni, una accanto all’altra cullate, quasi, dal mare, sollevate dalle onde morbide che poi si riversano sulla riva, e la serenità dell’orizzonte, ancora una volta segnato da colori dagli accostamenti cromatici direi “leggeri”, la serenità dell’orizzonte, dicevo, si svela, e sembra proprio di essere li, sulla sabbia calda della spiaggia.

Ma dove le figure diventano semplici, evidenti, è in “Attesa”: quattro figure antropomorfe viste di spalle, uomini? divinità? manichini? Non importa. Quello che conta è che ciascuno di noi è la “quinta figura”, ci sentiamo far parte di quel “pubblico” che forse osserva qualcosa o, appunto, attende qualcosa. E sentiamo la curiosità prenderci mentre continuiamo ad osservare le nuche, le spalle, le teste di queste misteriose figure, che ormai appaiono palesemente al nostro sguardo e ci appare anche con evidenza cosa ci ha colpito oltre alla figurazione: ancora una volta è il colore: i rossi così evidenti, marcati anche, nelle altre tele, quì si stemperano in una serie di verdi più pacati, naturalmente generati dai blu e dai gialli che li affiancano. Tuttavia l’informale, che resta comunque la “linea rossa” delle opere, non viene accantonato: perché l’artista informale non “crea” gli eventi, li lascia accadere.

Ma se Paolo ha ragione, ed ha ragione, l’arte non va spiegata, va osservata. E allora…

                                              Prof. Architetto Giuseppe Cassisi


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