Raffaele De Grada
“[…] La sua pittura è da vedersi piuttosto come una reazione alla grevità del tardo naturalismo lombardo che aveva finito per nascondere l’immediatezza dell’emozione sotto una materia spessa e stanca. Le figure e i passaggi di De Simone recuperano la freschezza di visione che fu dei primitivi lombardi con quei colori tenui che assorbono la luce senza rifletterla e che raggiungono il cuore della poesia prima di segnare i passaggi che la descrivono […] Davanti alle opere di De Simone si respira una boccata d’aria pura, ci si pulisce dalle scorie di una decadenza che, dalle avanguardie intellettuali in poi, avvelena il nostro secolo che sta per finire. Ma nello stesso tempo si riscontra in De Simone la continuità con quella corrente che in Lombardia è stata chiamata “chiarista” perché, rifiutando il disegno scolastico del novecentismo, sente la forma come emozione di colore immerso nella luce. Questa felicità espressiva ha una radice psicologica nell’animo di De Simone. Egli è stato ed è tuttora un buon architetto, abituato al disegno progettuale di case e di arredi urbani. La pittura è per lui una sorta di liberazione nel regno della fantasia: il disegno, certo, è a lui connaturato con l’emozione e non si distacca mai dall’immagine figurata ma l’incanto della luce trascende il naturalismo, trascina il soggetto in un’aura incantata. Le sue vedute veneziane, incentrate sulla visione di una cupola e di un campanile, emergono nelle nebbie celesti e dorate come potrebbero apparire ad un viaggiatore che vien da lontano e che creda di trovarsi all’improvviso nel regno delle fate. Ho già detto altrove di questa visione ingenua, fatata delle opere di Pietro De Simone, immagini incontaminate di nudini e di volti. Il pubblico si trova davanti a figure che hanno un sapore di infanzia, come fossero create da una condensazione della luce, delineate su fondo colorato per quel tanto che serve all’apparizione, senza insistenza nei particolari […]”