Fontanesi, lirico del colore che creò la "pittura padana"

I suoi paesaggi sono la rivelazione dell'infinito. E la campagna è percorsa da dubbi tragici. Tra i pittori tragici e romantici della Nuova Italia, fuori dai ricordi e dalle commemorazioni in stile della tradizione classica, è Antonio Fontanesi.

Non si dice abbastanza che lo spirito malinconico padano ha in lui uno dei massimi esponenti, in una lunga declinazione che ha i suoi campioni in alcuni sublimi pittori antichi come i ferraresi Ortolano, Bastianino, Scarsellino, Previati, in poeti come Torquato Tasso, e poi in Giorgio Bassani, Arnaldo Ferraguti, questi ultimi anch'essi ferraresi. Ma la malinconia del fiume occupa la mente anche di pittori cremonesi come Boccaccio Boccaccino, o Luigi Miradori, detto il Genovesino, e di polesani come lo scrittore Gian Antonio Cibotto.

In verità di questa condizione psicologica di riflessione e turbamento nessuno ha espresso un equivalente pittorico più intenso ed espressivo di Fontanesi. E, fin qui, basta vederlo, come nessuno struggente, in quei paesaggi sul fiume al tramonto, o immersi nelle nebbie, con gli alberi secchi, d'autunno. Un poeta lirico del fiume, non un narratore, un temperamento tormentato e disperato. Mi chiedo perché, nelle sue fluviali e appassionanti lezioni, non ce ne abbia parlato in questi termini, mentre ci portava nei vortici travolgenti di William Turner, o nei boschi inestricabili di John Constable, il mio maestro Francesco Arcangeli, bolognese di indole malinconica.

Con piena convinzione se ne occupò un altro innamorato del Po, nato a Torino, Mario Soldati, il quale, dopo una tesi di Laurea su Boccaccio Boccaccino, scrisse la voce su Fontanesi per l'Enciclopedia Treccani (voce tuttora in uso), con una inconsueta partecipazione: «Tutta l'attività artistica del Fontanesi è così nelle progressive soluzioni di un problema posto e risolto ogni volta più chiaramente: dipingere la campagna in modo che essa sia la rivelazione dell'infinito o, meglio, la brama dell'uomo per questo infinito e insieme il senso dell'impossibilità di appagare questa brama. A questo scopo, valersi di composizioni vaste, solenni, gravemente bilanciate (utilizzazione dei vecchi impianti scenografici), primi piani di antiche piante solitarie, misteriosi margini di boscaglie, disabitate basse e ripe di fiumi prossimi alla confluenza o acquitrini desolati, squallidi canneti e grandi cieli uniformi, nordici, autunnali: ma tutto questo concretato in una materia pittorica di opposta, si direbbe, emozione. Una materia pittorica tutt'altro che riposata; ma volumi, spazi, colori, tutto così corroso, combusto, volatilizzato nella luce e nell'ombra, che la pace e l'immensità di quella campagna sono percorse e come viste attraverso un brivido, uno struggimento di qualità infrapittorica, musicale».

È questa la pittura padana, intrisa di fango e di nebbia, nella luce strisciata di tramonti rossi e neri, come mai non furono nemmeno in Edvard Munch, e con grida e angosce non meno dolenti e dolori irredimibili, di una vita contadina, tragica e non pittoresca, senza idillio. Da questa visione, intensa e disperata, di Fontanesi, «s'intravvede benissimo quale sia stata la vita: ansiosa, tragica, devastata appunto da quella brama d'infinito e chiusa in un'erma tristezza: vita caratteristica di grande romantico. La sua pittura fu altrettanto solitaria, senza seguaci: ne ritroviamo il modello naturale e ispiratore proprio in quella campagna che differisce da ogni altra campagna italiana, la campagna torinese». Così Soldati ci porta dentro la pittura di Fontanesi, in anni lunghi e freddi, e con varie premonizioni della Langa interiore di Cesare Pavese.

La produzione di Fontanesi è coerente e molto estesa specialmente in studi, disegni, acqueforti, fusains. Gran parte di essa è raccolta nella Galleria d'arte moderna di Torino. Altre opere sono alla Galleria d'arte moderna di Roma, alla Galleria moderna di Firenze, alla Pinacoteca Sabauda di Torino e in varie collezioni private. Tra le opere più emblematiche della piena maturità, La solitudine, dei Musei civici di Reggio Emilia, dipinta nel 1875, ci dà la piena misura dell'anima colma di angoscia della donna al centro di una natura torva e minacciosa, nell'avvicendarsi di giorni e notti sempre uguali. Rassegnazione e speranza sono stati d'animo di una umanità fragile e incerta, senza volto, senza identità, senza individuale riscatto. Dio. Forse. Ma per l'uomo, comunque, non c'è salvezza.

Lo dice la potenza indistruttibile della Natura che sempre piega l'uomo, e prevale.

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