Gran parte delle opere d’arte è nascosta nei depositi dei musei


Natura morta con teiera blu, di Paul Cézanne. Il quadro è nei depositi del J. Paul Getty museum, a Los Angeles, in California. (Paul Cézanne, The J. Paul Getty museum)

Christopher Groskopf, Quartz, Stati Uniti

La maggior parte delle opere di Georgia O’Keeffe è conservata in un deposito.

Quasi la metà dei quadri a olio di Pablo Picasso è stata messa da parte.

Neanche un disegno di Egon Schiele è esposto nei musei più importanti.

A partire dal seicento, quando le prime collezioni d’arte hanno cominciato a essere accessibili al pubblico, i musei hanno accumulato grandi quantità di opere al servizio della collettività. Ma il pubblico può ammirare e apprezzare solo una minima parte di quelle opere, che in alcuni casi sono capolavori indiscussi.

Quartz ha condotto una ricerca sul patrimonio artistico di venti musei in sette paesi diversi, concentrandosi sulle opere di tredici artisti. Sono state analizzate 2.087 opere d’arte. Ecco i risultati più significativi.

Gran parte delle opere d’arte di tutto il mondo si trova nei depositi. In genere i grandi musei espongono circa il 5 per cento della loro collezione. Dunque i ricchi mecenati che donano le opere ai musei finiscono per nasconderle al pubblico.

Di solito i musei non dicono quanti lavori di un artista espongono, per questo la ricerca si basa sui dati presi dai loro siti web, dove spesso è presente l’intera collezione. Sono stati esaminati musei importanti, come il Moma, il museo d’arte moderna di New York, e l’Ermitage di San Pietroburgo (ecco la lista completa, compresi tanti che alla fine non è stato possibile includere nello studio).

La ricerca si concentra sul lavoro di artisti particolarmente famosi e si limita al mezzo espressivo che più caratterizza l’autore: per esempio, i dipinti a olio di O’Keeffe o le sculture di Calder. I risultati non sono esaurienti, ma danno un’idea di quante opere importanti siano inaccessibili al pubblico.

I quadri di Cézanne e Monet non corrono questo rischio, mentre altri subiscono un trattamento diverso: in particolare Egon Schiele, l’artista austriaco che ha influenzato il movimento espressionista con i suoi ritratti di persone dai corpi contorti. Nessuna delle sue opere è in mostra nei musei presi in esame.

La maggioranza delle opere d’arte prese in esame fa parte di donazioni ricevute da artisti, collezionisti e fondazioni. Oltre agli eventuali benefici fiscali, spesso i benefattori considerano i grandi musei l’unico posto in grado di garantire una conservazione adeguata delle opere. Inoltre, spesso preferiscono un’istituzione che si impegni a non rivenderle, come ha fatto la fondazione Rothko con la National gallery of art (Nga) di Washington.

Di conseguenza i quadri si accumulano nei depositi, invece che nelle gallerie dei musei più piccoli. Inoltre i musei espongono a rotazione le opere più importanti, mentre quelle di nicchia potrebbero non lasciare mai i depositi, a meno che non abbiano bisogno di interventi conservativi.

La ricerca condotta per una tesi di laurea del 2002 ha messo in evidenza che gli oggetti ricevuti in donazione dai Fine art museums di San Francisco sono stati esposti meno frequentemente di quelli comprati (pdf, pagina 121).

Tredici dei musei analizzati possiedono complessivamente 862 fotografie del leggendario Henri Cartier-Bresson. Quasi tutte provenivano da donazioni e molte di quelle presenti al Moma sono state regalate al museo dall’autore in persona.

Solo una è in mostra, al Los Angeles county museum of art (Lacma), anche se a Cartier-Bresson è stata dedicata un’ampia retrospettiva nel 2010. Ecco il numero delle sue fotografie in deposito.

Non c’è nulla di male se un museo conserva delle opere d’arte senza mostrarle al pubblico: molte fanno parte di “collezioni da studio” che i musei non hanno mai pensato di esporre. Spesso sono opere meno interessanti per i visitatori, ma importanti per la ricerca.

Nancy Thomas, che gestisce le raccolte del Lacma di Los Angeles, ha indicato una collezione di bronzi del Luristan per fare l’esempio di oggetti che hanno più valore come gruppo, anche se non possono essere esposti tutti insieme. “Sono tante tesi di laurea in attesa di essere scritte”, ha spiegato.

Invece altre opere possono essere esposte, ma per sopravvivere hanno bisogno di essere protette. Sia le foto di Cartier-Bresson sia i disegni di Schiele sono su carta e potrebbero rovinarsi con la luce.

A cosa servono i musei?

Comunque, la maggior parte delle opere analizzate nella ricerca di Quartz non rientra in collezioni da studio, né è particolarmente delicata. In parecchi casi sono quadri di maestri famosi che richiamano un grande pubblico.

Il fatto che tante opere famose non siano visibili pone un interrogativo più generale: a cosa servono i musei?

Le risposte sono diverse. Alcuni curatori, in particolare quelli più anziani, considerano prioritarie la conservazione e la ricerca. Secondo Frank Kelly della Nga di Washington, il loro archivio è parte integrante del museo. “Il nostro compito è tutelare le opere, quindi anche conservarle nel migliore dei modi”, ha detto.

Archiviare centinaia di quadri di un artista ha senso se lo scopo è proteggere l’arte. Kelly ha anche sottolineato che questo gli consente di prestare le opere per farle esporre in altri musei.

I nuovi musei e quelli più piccoli seguono la strada opposta e si concentrano sul pubblico. Uno dei motivi è quello economico: collezionare arte non è mai stato così costoso. Una volta comprata un’opera, i costi del deposito possono essere proibitivi. Secondo la curatrice del Lacma, Nancy Thomas, l’archiviazione è “un problema per tutti i musei”, soprattutto nel caso delle sculture e delle installazioni. Una ricerca del 2013 nei musei canadesi aveva evidenziato che i costi per l’archiviazione e la conservazione erano la loro preoccupazione principale.

Collezione di opere invisibili

Per i musei, la soluzione più ovvia a questi problemi sarebbe di vendere le opere che non espongono al pubblico. Nel settore, la prassi controversa di rimuovere opere dalle collezioni è nota con il termine di “alienazione”. Molti musei minori, per non parlare dei collezionisti privati, gradirebbero molto “alienare” in proprio favore uno dei trenta quadri di Picasso attualmente chiusi nei depositi del Moma. In teoria, in questo modo i musei potrebbero risolvere i loro problemi economici e allo stesso tempo avere anche più opere da mostrare.

In ogni caso, spesso è inutile discutere di politica museale, perché la maggior parte delle istituzioni non può vendere o liberarsi degli oggetti. Molte associazioni per gli scambi tra musei proibiscono le vendite. L’Association of art museum directors (Aamd) lo permette a certe condizioni, purché il ricavato dell’operazione sia reinvestito nell’acquisto di altre opere. L’associazione ha anche messo al bando ufficialmente i musei che hanno venduto opere di loro proprietà nel tentativo di sfuggire alle difficoltà economiche.

L’anno scorso Michael O’Hare, docente di public policy all’università della California a Berkeley, ha contestato questa linea di condotta, sostenendo che invece i musei dovrebbero valorizzare i loro patrimoni come una risorsa economica. Secondo i suoi calcoli, la vendita dell’1 per cento del valore relativo alla collezione dell’Art institute of Chicago potrebbe garantire un accesso gratuito perpetuo e coprire le spese di programmi educativi e di altre iniziative rivolte al pubblico.

A chi gli chiedeva che cosa avessero risposto i conservatori dei musei alle sue proposte, O’Hare ha risposto: “Nulla”.

Alcuni musei sperimentano soluzioni di open storage, come teche di vetro e scaffali scorrevoli per vedere le opere

Non stupisce che i curatori siano refrattari a questioni economiche relative alle opere d’arte di cui si occupano, ma spesso (soprattutto negli Stati Uniti) non si rendono conto che imponenti collezioni di opere invisibili e inaccessibili possono creare difficoltà. Si discute molto sul modo migliore di gestirle, molto meno sull’opportunità di mantenerle.

Fa eccezione solo un articolo del 2010 scritto dalla conservatrice del Moma, Ann Temkin, che riflette sui pericoli di collezioni in crescita esponenziale, preoccupandosi anche del fatto che i depositi “cominceranno a somigliare a cimiteri che nessuno visita più”.

I conservatori dei musei britannici sembrano più disponibili ad affrontare l’argomento, a cui è dedicato l’ultimo numero della loro rivista specializzata. Suzanne Keene, docente in pensione e autrice nel 2008 di uno studio sull’impiego delle collezioni nel Regno Unito, ha dichiarato in un’intervista che spesso il modo in cui queste ultime vengono concepite è espressione diretta della personalità del curatore: “Ci sono tanti aspetti che, alla fin fine, vanno ricondotti ai singoli individui”.

Mettendo da parte una resistenza di tipo generale, sono molti i conservatori che pensano a come usare meglio le loro collezioni nei depositi. Alcune istituzioni, come il Brooklyn museum, stanno investendo in soluzioni di open storage, come teche di vetro e scaffali scorrevoli, che consentono al pubblico di fruire ugualmente degli oggetti. Il Broad museum di Los Angeles si spinge oltre e ha delle finestre nel caveau per far vedere le persone al lavoro. Resta da capire se queste soluzioni riescano effettivamente a esporre qualcosa di più che una minuscola frazione di tutte le raccolte chiuse nei depositi.

Un nuovo modo di pensare

Altri ancora sono del parere che i musei debbano cambiare il loro modo di pensare al collezionismo. Un’analisi del 2005 sulle direttive seguite dallo Smithsonian proponeva diverse “alternative alla collezione tradizionale” in grado di ridurre le dimensioni delle collezioni tradizionali, o almeno impedire che crescano a un ritmo insostenibile:

  • coordinare gli sforzi tra musei per ridurre le sovrapposizioni;
  • prendere in prestito opere da altri musei;
  • fare acquisti congiunti insieme ad altre istituzioni;
  • condividere le raccolte concedendo opere in prestito a lungo termine;
  • raccogliere immagini o modelli al posto di opere d’arte originali.

Un suggerimento a cui non facevano riferimento (ma tenete presente che l’articolo è del 2005) è quello che ha permesso la realizzazione di questo articolo: pubblicare online le collezioni. L’entusiasmo con cui i musei hanno digitalizzato le opere le ha rese più accessibili. Tutti i 48 musei che abbiamo esaminato avevano online almeno una parte delle loro collezioni.

Guardare un quadro su internet è sicuramente un magro surrogato all’esperienza di camminare in un museo e trovarsi improvvisamente di fronte un quadro di Rothko di oltre due metri. Forse in futuro gli amanti dell’arte pretenderanno di provare quel senso di serendipità usando servizi come il Google cultural institute o percorrendo le gallerie indossando un casco per la realtà virtuale.

Se queste previsioni ottimistiche si realizzeranno, potrebbe non essere molto importante dove si trovi effettivamente l’opera d’arte. Potrebbe anche servire a giustificare le collezioni d’arte già consolidate, dato che è più probabile che i grandi musei abbiano maggiori capacità di mettere le opere online. Però nel frattempo il pubblico può solo sperare che i musei perseverino nella loro tendenza a rendere più accessibili le collezioni in deposito. Altrimenti, come si fa anche semplicemente a sapere che esistono tutti quei tesori nascosti?

Metodologia

I dati raccolti per questo articolo sono disponibili qui. Vuoi sapere quanti dei tuoi artisti preferiti sono chiusi in deposito? Ecco un documento con link alle pagine di ricerca per decine di musei. Se trovi qualcosa di interessante, puoi scrivere a [email protected].

  • Sono stati esaminati decine di siti web per capire quali musei hanno le informazioni più complete sulle collezioni. Ci sono alcuni tra i musei più importanti a eccezione del Louvre, che non ha dati completi online.
  • Il criterio con cui abbiamo scelto gli artisti è stato che fossero abbastanza famosi da aspettarsi di trovarli in diverse collezioni (c’è anche Frida Kahlo, anche se alla fine è presente solo in due dei musei analizzati).
  • Abbiamo considerato un solo mezzo espressivo per artista. Questo esclude dalla ricerca i bozzetti e le opere in cui l’artista non usava la tecnica per la quale è più noto.
  • Sono escluse dall’analisi stampe, litografie, incisioni, puntesecche e duplicati.
  • Nella categoria pitture a olio sono state incluse anche pitture di qualunque tipo su superfici piatte tradizionali (tele, cartoni eccetera), ma non quelle su altri oggetti, mattonelle eccetera.
  • Nella categoria sculture sono stati inclusi tutti gli oggetti tridimensionali che non siano stati creati appositamente per un certo scopo: per esempio, non ne fanno parte i gioielli.
  • Tutti i calcoli sono basati sui dati resi disponibili online dai musei presi in esame. È possibile che questi musei possiedano opere che non hanno messo online; in tutti i casi, la quantità di queste opere mancanti dovrebbe essere minima se ci si limita ad artisti molto noti. Inoltre va detto che i musei tendono a mettere online le opere quando sono usate per delle mostre, per cui qualsiasi opera che manchi dalla ricerca probabilmente non farà che aumentare la percentuale di opere tenute in deposito.
  • Sono state escluse le opere che i rispettivi proprietari hanno indicato come “date in prestito”. Non sappiamo se tutti i musei forniscono questa informazione nell’elenco delle loro collezioni.
  • È stata esclusa dal conteggio per il Whitney un’installazione di 88 sculture di Calder, che va sotto il titolo collettivo di Calder’s circus.
  • I dati per questa indagine sono stati raccolti per varie settimane tra dicembre 2015 e gennaio 2016; alcune opere possono quindi essere state tolte o restituite al deposito successivamente.
  • È stato fatto tutto il possibile per raccogliere questi dati in maniera precisa. Nel caso ci sia qualche errore, per favore segnalalo a [email protected].

(Traduzione di Alessandro De Lachenal)

Questo articolo è stato pubblicato su Quartz.