Guttuso Diavolo rosso

La mostra nella galleria Alessandro VII al Palazzo del Quirinale

Renato Guttuso, per molti anni artista di immensa fama nel nostro Paese, era un pittore dalla matrice realista ed espressionista, carnale, scenografico, talvolta retorico e illustrativo. È stato il paladino artistico del Partito Comunista e ambiva a essere il Picasso italiano. Molto discussa fu la sua conversione sul letto di morte così come il suo funerale, fra acquasantiere e «diavoli» rossi, come fu scritto allora. Per tutti questi motivi suscita un po’ di stupore la scelta di fondare sul motivo dell’ispirazione religiosa nella sua arte la mostra intitolata «Guttuso. Inquietudine di un realismo» e inaugurata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sotto il segno della «sicilitudine» che lo unisce al pittore di Bagheria, in una sede di grande prestigio come la Galleria Alessandro VII nel Palazzo del Quirinale.

La mostra è curata da Fabio Carapezza Guttuso, presidente degli Archivi Guttuso e da Monsignor Crispino Valenziano, presidente dell’Accademia Teologica «vis pulchritudinis». Vanto dell’esposizione è uno dei massimi capolavori di Guttuso, la «Crocifissione» (1940-41) che suscitò scalpore in occasione della presentazione al Premio Bergamo del 1942: ecclesiastici autorevoli la giudicarono blasfema e proibirono ai chierici di guardarla. Destarono sconcerto, allora, la posizione delle tre croci, assemblate e non sistemate frontalmente, ma soprattutto la nudità delle pie donne rappresentate. In realtà Guttuso non amava dipingere personaggi in costume per non legarli troppo a un’epoca precisa e in quest’opera intendeva cogliere il dramma universale della guerra e della violenza. Ma senza dubbio per lui il nudo di donna era anche un’attrattiva inesauribile destinata a popolare, magari con significati simbolici, tante sue opere. «Il mio quadro certo non va d’accordo con i canoni dell’iconografia religiosa – spiegò Guttuso – ma non per questo è meno religioso, nego poi assolutamente che sia un quadro empio». In ogni caso la Crocifissione è un’opera potente e densa di pathos, tanto che l’artista siciliano non se ne separò mai e addirittura la volle sopra il suo letto negli ultimi giorni di vita. Il dissidio con le autorità ecclesiastiche sarebbe durato nel tempo e solo nel 1969 Padre David Maria Turoldo avrebbe sdoganato questo quadro così emblematico.

Molte altre le opere di ispirazione religiosa che sono in mostra, come «Cristo deriso», «Il legno della Croce», «Cena di Emmaus», «Conversione di San Paolo», ma nessuna è lontanamente paragonabile all’intensità tragica della «Crocifissione». Quanto mai ambizioso, quasi una summa del percorso artistico di Guttuso, è un quadro di grandi dimensioni come «Spes contra spem» (1983), ambientato nello studio del pittore e trasformato in un’allegoria sulle tre età della vita. Come ha scritto Enrico Crispolti, «Guttuso voleva impossessarsi della realtà del proprio tempo e raccontarla con le immagini. E questa volontà di racconto orienta e sovrasta la ricerca formale». Ecco il punto, nel bene e nel male: la sua vocazione e il suo impegno di narratore realista spesso lo portavano a strafare e ad essere soprattutto un illustratore.

La sua vocazione all’illustrazione popolare si lega anche ad un’esperienza che ha lasciato su di lui tracce durature: la frequentazione, da bambino, della bottega di un pittore di carretti siciliani. Quel realismo naif, ingenuo e variopinto, gli restò impresso nel dna. Così Guttuso ha saputo fondere, perfino prima della pop art, riferimenti alti (Courbet, Delacroix, ecc.) e modelli popolari. Forse solo adesso, con il crollo delle ideologie, possiamo dare un giudizio spassionato sulla sua pittura, liberandola dal gravame dell’impegno politico nel Partito Comunista ma anche dal tentativo di affibbiare alla sua arte laica una matrice religiosa. Non di rado Guttuso, dotato di un’intelligenza vivace e profonda, intuiva con largo anticipo l’affioramento di emergenze fondamentali della nostra società e lo si vede bene, ad esempio, in un’opera come «Esodo di Arabi» che nell’affollamento drammatico di un’umanità dolente sembra profetizzare l’odierna tragedia dei migranti. E l’artista di Bagheria dava spesso il meglio di sé quando si lasciava andare a un’intima vocazione visionaria che trasfigurava l’ordinario in straordinario: ne dà prova in mostra il «Colosseo» visto dall’alto, «come una carcassa o un cranio scoperchiato, metà braciere, metà ossario», per usare le parole dello stesso Guttuso.

Gabriele Simongini