Nicola Samorì, Marco Stefanucci. Nella pelle della pittura
Nicola Samorì, Marco Stefanucci. Nella pelle della pittura - In mostra dal 3 dicembre 2016 - 14 gennaio 2017 alla Galleria Lombardi di Roma.
Come un’aporia dell’anima o una mutilazione dell’essere, i decenni a cavallo tra la fine del Ventesimo e il principio del Ventunesimo secolo hanno vissuto un rapporto malato e schizofrenico con la pittura, una forma espressiva che pone le sue basi negli albori dell’umanità e che per millenni ha rappresentato uno degli strumenti privilegiati per dare un’interpretazione condivisa e una forma compiuta al mondo.
La pittura, nelle sue metamorfosi e nei suoi mille volti, ha attraversato secoli di gloria e di rovina, epoche di splendore e di mortificazione celebrando i suoi trionfi nei saloni dei palazzi imperiali e nascondendosi negli anfratti sacrali dei cunicoli sotterranei, rifulgendo di opulenza sacrale e occultandosi nelle tempeste dei fanatismi aniconici.
Dopo scomparse e ritorni, la pittura affronta dunque oggi una nuova dicotomia che la vede non amata e quasi cancellata negli sguardi omologati di un conformismo globale, oppure rinata e corroborata dai nuovi intrecci con le tecnologie digitali dell’immagine e nei nuovi innesti e intrecci collettivi con il mondo dell’illustrazione, della grafica e, addirittura, del tatuaggio, che già Jean-François Lyotard nei primi anni Settanta del secolo scorso vedeva proprio come una forma di pittura. 1 Tuttavia l’essenza stessa di questa tecnica sembra trasformarsi e rimodularsi in modo proteiforme e ancipite, ponendo i suoi volti come un’erma bifronte verso il futuro dell’immagine digitale e del 3D e, allo stesso tempo, verso le sue fondamenta archetipe, radicate nel terreno sempre fertile della storia, in un percorso dove, come un Ouroboros, il serpente mitologico che divora la sua coda, la pittura si alimenta di sé stessa e della sua tradizione millenaria.
In questo senso l’idea del ritorno era già scaturita nel cuore delle avanguardie storiche, a partire da de Chirico e dal suo interesse metafisico per la grande pittura del Rinascimento e del Barocco, fino alle grandi personalità del Ritorno all’Ordine, alle citazioni dense e composite di Francis Picabia e alla metamorfica e solenne classicità di Picasso dopo il cubismo.
In tale direzione, un passo ulteriore è stato compiuto dal contesto fervido e multiforme tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, dove molti artisti internazionali del cosiddetto “ritorno alla pittura” hanno guardato alla storia dell’arte, come anche Andy Warhol o Gerhard Richter, tracciando una linea dove la stessa idea di “citazione” si connotava in senso quasi concettuale, come venne registrato nella profetica e splendida mostra Arte allo specchio della Biennale di Venezia del 1984, curata da Maurizio Calvesi e dalla non dimenticata Marisa Vescovo.
Nel rapporto contemporaneo con la pittura sembrano tuttavia pesare anche le parole di Marcel Duchamp che, oltre alla sua condanna della pittura retinica (cioè priva di contenuti simbolici e di pensiero e solo diretta all’aspetto percettivo), ha paradossalmente dichiarato che siccome “i tubetti di pittura utilizzati dall’artista sono prodotti di manifattura e già pronti, dobbiamo concludere che tutte le tele del mondo sono dei readymade aiutati e dei lavori di assemblaggio”. 2 Un “readymade aiutato” del resto era anche la Gioconda con barba e baffi, una riproduzione a colori economica del capolavoro di Leonardo su cui Duchamp ha compiuto il suo gesto di “combinazione readymade/dadaismo iconoclasta” 3 che, oltre allo sberleffo contiene in sé allusioni celate (il mito ermetico dell’androgino che unisce maschile e femminile).
Quest’opera rappresenta non a caso un prototipo per il lavoro sull’arte del passato per molti artisti insieme alle copie dall’arte antica di de Chirico, modello per un rapporto con la tradizione e la storia di reinterpretazione e di rigenerazione, in una visione del tempo non progressiva ma impostata sulla visione filosofica della circolarità e del ritorno, in un anticipo della visione che nel campo delle arti visive è stata identificata con la post-modernità.
In questo contesto oramai globale incontriamo gli artisti di questa mostra, attenti entrambi a un lavoro sulla storia dell’arte e sulla pittura di costruzione e di decostruzione, in un readymade fatto di assemblaggi di citazioni e di trasformazioni, a partire da Nicola Samorì, di cui è raccolta una selezione di lavori che ricostruiscono il suo percorso dagli esordi.
Samorì svolge infatti da anni un lungo lavoro sull’immagine e sulla materia pittorica che lo ha portato a essere uno dei più noti artisti italiani delle ultime generazioni che lavorano con la pittura in senso concettuale.
Samorì sembra quindi muoversi sulla linea che lega Duchamp a de Chirico, nel percorso quasi alchemico (e molto duchampiano) del solve et coagula, della dissoluzione della figura e della materia pittorica, della sua parziale rinascita e ricostruzione, in un percorso circolare dove il ritorno coincide con la fine.
Tuttavia quest’opera sul corpo della materia pittorica e sull’epidermide stessa della pittura si chiarisce attraverso le opere giovanili dell’artista, dove l’immagine si riaddensava plasticamente attraverso un fermento cromatico di origine informale segnato da tonalità più accese.
Il sentimento tragico degli autoritratti e delle opere dedicate a Shakespeare dei primi anni Duemila si è dunque lentamente ricomposto in una tenebrosità che dialoga col Barocco e dove il senso della corrosione del tempo e della storia si acutizza nella dialettica tra la penetrazione iconica della pittura e la sua eliminazione, che si rapporta anche con la pittura di Francis Bacon, di Gerhard Richter e con il lavoro di ArnulfRainer.
Samorì costruisce così un sistema di rimandi, lavorando sul tema della copia dal repertorio dei Museo e sulla sua negazione violenta, in un gioco di rispecchiamenti e di opposizioni, di citazioni e cancellazioni, collocando la sua opera in bilico tra figurazione e de-figurazione, la visione e accecamento, tra anamnesi e oblio, tra il desiderio inconscio del dipingere la sua rimozione violenta, dove la pelle stessa della pittura si distacca lasciando solo la testimonianza della sua impronta originaria.
Marco Stefanucci, pur muovendosi su un terreno analogo, lavora con la pittura attraverso uno sguardo più lieve, attraverso un filtro impalpabile della memoria dove le immagini riprendono vita dal buio del tempo ma si disperdono nell’entropia della visione contemporanea. come ritornanti dalle rive della dimenticanza, i personaggi di Stefanucci si trasformano in metafore della vanitas declinate non con la negazione violenta di Samorì, ma con una leggerezza di materia e di stratificazioni dove la loro fisicità si disfa come luce che si dissolve nel cosmo, come una pelle diafana che svanisce come un profumo nel vento.
Stefanucci, con un’azione lenta e paziente, compone quindi le sue figure con un meditato ed elaborato metodo compositivo, fissando la loro presenza sul supporto con una traslucida velatura di pittura che gioca sui toni argentei di una monocromia ravvivata talvolta da sottili presenze di azzurri, di rosa e di rossi, brevi sussulti di colore che devono poi affrontare il gesto corrosivo e di abrasione dell’artista, l’erosione delle fattezze e delle costruzioni, il disfacimento parziale ma implacabile della loro posizione al centro dell’opera.
Queste liriche figure di fumo e di essenze brillano pertanto nelle tenebre come costellazioni di un passato che trovava nella pittura la sua massima forma di celebrazione.
I fiori, simbolo stesso della transitorietà effimera delle cose terrene si legano in questo modo alle anatomie, agli sguardi e ai contorni dei ritratti che per secoli hanno dovuto testimoniare la presenza umana nelle pieghe della storia.
Così tutto si ricompone poeticamente per un attimo sulle tavole di Stefanucci, brillando come un fiamma argentea nell’oscurità, per poi riprendere il suo viaggio notturno nei sotterranei dell’inconscio collettivo.
I volti i fiori e i corpi appaiono e bruciano di un calore gelido, fiamme fredde che si consumano nello spazio e negli attimi del nostro presente, parlandoci dell’intersezione tra il tempo e l’eternità, delle fonti della memoria e dei laghi abbrunati dell’oblio.
Articolo pubblicato su: http://www.arte.go.it/event/nicola-samori-marco-stefanucci-nella-pelle-della-pittura/