Presentazione del libro "Affresco alla maniera antica" di Silvano Lazzeri
Presentazione del libro "Affresco alla maniera antica" di Silvano Lazzeri, ad opera di Don Francesco Pasetto, figura di sacerdote, insegnante di Filosofia e Storia al liceo di Poppi, educatore sempre attento alla dignità della persona.........
"In uno degli ultimi anni del secolo scorso, al mattino di un giorno primaverile ero ad Arezzo con un gruppo di amici per l’appuntamento che avrebbe segnato (lo sapevamo bene) un momento indimenticabile nella nostra esistenza. Dovevamo incontrare, nella Cappella Bacci della Basilica di San Francesco, Silvano Lazzeri che stava ultimando il restauro della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca. Lo trovammo al suo posto, in abito da lavoro. Lo spolverino bianco lo rendeva simile a un medico nell’esercizio della sua professione. Difatti era lì per curare quel malato illustre che, col trascorrere del tempo, aveva perduto lo smalto originale, s’era indebolito sotto il peso di so-vrastrutture insopportabili, appariva in più punti mutilato, rischiava di precipitare nel nulla della mor-te per “solfatazione”. Poteva sembrare anche, l’amico Silvano, uno di quegli artigiani dotati di mani prodigiose, guidate dall’intelligenza e dall’esperienza affinate a prezzo di un lungo paziente eserci-zio. Un artigiano – per intenderci – come i tanti che in passato si sono lasciati conquistare dal mira-colo della bellezza eterna, invece di seguire l’andazzo e abbandonarsi alla ricerca ossessiva dell’utile e del funzionale destinati a durare, sì e no, una stagione.
Ed eccoci finalmente nella grande chiesa dedicata al santo che ha meritato più di ogni altro la qualifica di alter Christus: spazio benedetto creato dall’uomo per raccogliersi e conoscersi meglio. Il chiasso della città l’avevamo lasciato fuori. Ed era stata una liberazione. Eravamo decisi a compiere il viaggio prodigioso descritto così bene da Agostino d’Ippona, una delle auctoritates citate spesso e volentieri da Silvano: Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum.
Eravamo un bel gruppo di adulti, provenienti dall’Alto Casentino. Certo portavamo con noi il bagaglio delle conoscenze scientifiche moderne. Sapevamo di essere il prodotto dell’evoluzione. Sa-pevamo pure di avere nel DNA da 1 a 4 geni dell’uomo di Neanderthal, anzi di recare impressa nelle nostre cellule, come marchio di fabbrica, la traccia dell’incontro-scontro fra l’homo sapiens prove-niente dall’Africa e mister Neanderthal disceso da nord. Ma eravamo pure consapevoli che la scien-za non è in grado di rispondere ai tanti interrogativi che l’uomo, animale razionale, si pone. Anche nel nostro animo risuonavano domande antiche di natura filosofica o religiosa. Ci chiedevamo, ad esempio, se gli esseri che nascono e muoiono provengano casualmente dal nulla, oppure derivino dal Logos, cioè dalla Mente ricca di tanta e tale energia da esprimersi nella Parola creatrice dell’Universo. E che dire dell’eternità, di cui il tempo è stato autorevolmente definito l’“immagine mobile”, ossia l’immagine in negativo?...
Come cristiani, seguaci del Libro, conoscevamo la risposta biblica a simili questioni. Ed era-vamo lì per ascoltare Silvano che aveva promesso di guidarci nell’esame di un’interpretazione pitto-rica di quella risposta: l’interpretazione di una bellezza struggente, inarrivabile, offerta all’umanità da Piero della Francesca a partire, sembra, dal 1452. Con quel capolavoro Silvano era stato a stretto contatto per quindici anni, come uno dei più solerti restauratori. Sentendoci dei veri privilegiati, sa-limmo dietro di lui sull’impalcatura, da dove potevamo vedere, lì ad appena un passo di distanza, tutte quelle stupende figure e ammirare e comprendere tanti particolari ascoltando la sua voce emo-zionata, suadente, convinta.
La stessa esperienza ora possono farla tutti, grazie a questo libro, in cui viene pubblicata la tesi per la Laurea Magistrale in Scienze Religiose con specializzazione in Arte Sacra, Conservazione dei Beni Ecclesiastici e del Turismo Religioso, conseguita da Silvano Lazzeri presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Toscana “Santa Caterina da Siena”, nell’anno accademico 2019-2020. Il titolo aiuta a identificare l’area vasta e complessa esplorata nel pregevole lavoro: RESTAURO: mo-mento privilegiato di approfondimento della conoscenza di un’opera d’arte e metafora del cammino di ogni uomo alla riscoperta della propria immagine divina.
In effetti il libro appare, fin dall’Introduzione, un’autobiografia spirituale dell’Autore. Se uno mi chiedesse di presentarlo in poche parole, non avrei alcun dubbio. Comincerei rimarcando l’energia con la quale Silvano rivela, nella prima parte, la sua vicenda esistenziale di uomo illuminato dalla fe-de biblica e dalla visione della bellezza creata mediante le forme e i colori. Uno dei grandi meriti del-le pagine iniziali consiste nel contrastare, seguendo la Laudato si’, l’enciclica «sulla cura della casa comune» scritta da papa Francesco, il “paradigma tecnocratico”, che con la svalutazione del Vero e del Bello avvia l’umanità sulla strada triste e desolata dell’aridità. Metterei poi in risalto come, nella seconda parte, l’Autore documenti, con straordinaria ricchezza di particolari e d’immagini (una ca-ratteristica che rende veramente prezioso il volume), la sua attività di restauratore e di pittore. Salvo poi a scoprire, non senza sorpresa, che, mentre è impegnato a restituire lo splendore originario a ope-re d’arte “malate”, o a produrre la bellezza con il proprio pennello, Silvano si sente coinvolto nell’opera di restauro dell’immagine del Creatore che avverte in se stesso. E così dietro il “medico” e l’“operaio” emerge sempre più nitida la figura del “teologo cristiano”, nutrito della “Parola di Dio”. Valga come esempio di questa ridondante complessità il giudizio di pagina 30: «L’uomo quando crea un’opera d’arte, trasformando la materia che ha tra le mani, o progetta un mondo migliore di come l’ha trovato, sente di stare trasformando anche la sua persona, restaurando in sé l’immagine impressagli dal suo creatore, comunità feconda di persone che si amano».
Tra le tante scoperte favorite dalla lettura del libro, una risulta di stupefacente attualità. Non c’è da meravigliarsi se, contemplando la Morte di Adamo nel capolavoro di Piero, uno finisce per in-namorarsi di figure stupende come la giovane dall’incarnato morbidamente luminoso e dai grandi occhi colmi d’amore per l’uomo che le sta davanti rapito dalla sua grazia; o come la regina di Saba dal profilo delicatissimo che le sapienti velature esaltano anziché nascondere; o come l’Annunciata, nuova Eva «umile ed alta più che creatura». Ma di un albero ci si può invaghire? Forse no. O forse dipende da come si presenta l’albero, e soprattutto dalla maturità e dalla sensibilità per la salute dell’ambiente a cui è pervenuto chi sta contemplando l’albero.
Certo è che tutta la Legenda aurea di Jacopo da Varagine parla di un seme, di un albero, di un legno a cui è legata “la storia della salvezza”. Coerentemente Piero ha riservato il punto più alto del “lunettone” di destra, l’avvio dell’intero racconto, a un albero maestoso, uno dei tanti che il pittore di Sansepolcro, eccellente matematico, e a questo punto dobbiamo aggiungere eminente botanico, ha caricato, in tutti i suoi affreschi, di significati reconditi. Era ricco di foglie, quell’albero, era pieno di vita, era in grado di simboleggiare il bene e il male, prima di essere spogliato e mutilato da una serie impressionante di disgrazie. Ma ha ancora tanto da dire a chi sa guardare. Scrive Silvano, uno che sa davvero guardare: «Appena uscito dalle mani di Piero, l’albero era, anche pittoricamente, il perso-naggio chiave di tutta la scena» (p. 58). In precedenza aveva riconosciuto l’importanza non solo estetica ma anche simbolica «dell’albero al centro della scena del Paradiso terrestre» (p. 53). E nella didascalia alla fig. 7 dove compare la ricostruzione dell’albero elaborata al computer dall’architetto Massimo Chimenti, ribadiva che la pianta con i racemi floreali dell’arco e della volta era «il soggetto principale della scena», poi precisava: «L’albero della Vita aveva molta importanza nell’economia della teologia sottesa a tutto il ciclo pittorico, contrapposto alla scena opposta dell’Esaltazione dove l’albero della morte, la croce, diventa l’albero della Vera Vita, Cristo» (p. 53).
Un albero considerato addirittura «personaggio chiave» nella scena che ha per protagonista Adamo circondato da tutti i suoi uomini e da tutte le sue donne!... Un giudizio del genere non scade nel difetto dell’esagerazione? Ascoltiamo quello che Silvano scrive nella Conclusione del suo libro: «Ci sembra di poter dire che nella pratica del lavoro costante nel campo del restauro di opere d’arte sacra è possibile sperimentare quanto i singoli saperi possano confluire a provocare nella mente, umi-le e aperta insieme, quella particolare esperienza spirituale che è estetica ed estatica, quindi contem-plativa, provocata dal recupero dell’immagine originale di un’opera d’arte perduta o appannata a causa degli eventi storici. È inevitabile poi che tale esperienza che chiede, a chi opera, di dare il me-glio di sé, diventi, metaforicamente, un indice puntato verso il “fine” che ogni uomo, nell’intimo del suo cuore, desidera raggiungere: tornare all’origine della Vita».
All’origine della vita, sul nostro pianeta nato come un enorme masso brullo, troviamo proprio loro, le piante! A questo punto una cosa diventa chiara: Silvano propone quello che potremmo chia-mare, con un aggettivo divenuto oggi importante, “restauro integrale”. Ossia il restauro dell’uomo e il restauro del creato uniti indissolubilmente al restauro dell’opera d’arte. Per questo nella prima par-te egli cita ripetutamente la “Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gau-dium et spes”, e la Laudato si’. Poi, ispirato dalla teologia cattolica, arriva a scrivere: «L’uomo, quando crea un’opera d’arte, trasformando la materia che ha tra le mani, o progetta un mondo mi-gliore di come l’ha trovato, sente di stare trasformando anche la sua persona, restaurando in sé l’immagine impressagli dal suo creatore, comunità feconda di persone che si amano; così facendo percepisce di rispondere alla vocazione ricevuta venendo al mondo, portata al massimo delle sue po-tenzialità morendo e risorgendo con il Cristo nel battesimo, quella cioè di tendere a conformarsi a Lui, principio e fine della creazione, capace di amore totale.»
Non che Silvano intenda sminuire l’importanza della tecnica nel lavoro del restauratore. Vuol solo ribadire, forte dell’esperienza personale, che la padronanza della tecnica non basta né a produrre un’opera d’arte, né a ricuperare il suo valore originale quando è gravemente deteriorata. Già nella sua precedente pubblicazione Affresco alla maniera antica (2018, Edizioni Helicon) risuonava, fermo e chiaro, questo messaggio: sia la creazione artistica che il suo ricupero sono il frutto dell’appassionata «ricerca umana di verità e di bellezza».
Sembra di risentire le parole con cui il giovane Alessandro Manzoni formulava il suo pro-gramma di poeta e di letterato: Il santo Vero / mai non tradir, né proferir mai verbo / che plauda il vizio e la virtù derida. Quanto alla massima di Marcel Proust: «Il mondo non è stato creato una volta sola, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale», diciamo che va estesa al lavoro dei restauratori seri. Questo in sostanza ha dimostrato e va ripetendo Silvano Lazzeri, pittore appassionato e restauratore invidiabile perché capace di ridare vita alla bellezza morta."
Don Francesco Pasetto