MARIA BONGI
La pittura di Ripoli è inscindibile dalla forma, dal volume, dalla struttura fisica delle cose. I soggetti hanno tutti una genesi comune fondata sulla memoria intesa come presenza continua che perdura nel presente con le stesse geometrie, volumi e armonie perpetue e durature delle architetture essenziali antiche e indelebili del mondo rurale e dei borghi. La vocazione del pittore verso quella solidità, intesa metaforicamente come autenticità, da tutelare e preservare tramite una rappresentazione forte e determinata dal segno deciso e dalla consistenza materica. Le sue sono forze primarie che si impongono fiere e resistenti, sopravvissute e rese perfino più belle dal segno del tempo che ha lasciato le crepe, le storture, le gobbe, le asimmetrie , le alterazioni cromatiche degli intonaci screpolati dal sole, dall’acqua, dal vento e dal tempo che passa inesorabile. Il disegno di contesti originari arcaici e primari è una scelta che parte dall’antico amore e studio approfondito dell’architettura, tematica costante nella sua pittura, ed è proprio dall’essenza strutturale dell’architettura che parte Raffaele per ritrovare ciò che è fermo da anni, ciò che resterà indelebile nel tempo. E qui è d’obbligo citare l’architetto filosofo Aldo Rossi, per il quale, tra l’altro Raffaele ha avuto l’onore di lavorare nel suo periodo di permanenza nella città di Amsterdam, presso lo SDA, “l’architettura è la scena fissa delle vicende dell’uomo, carica di sentimenti, di generazioni, di eventi pubblici , tragedie private, di fatti nuovi e antichi”. Le architetture dipinte di Ripoli partono dal confronto con episodi, racconti, vecchie storie, riti popolari, danze e topos concreti sempre identificabili nei suoi luoghi e nel suo vissuto per aprirsi e ampliare i confini verso il grande disegno, quello trasversale e universale, lontano dalla rappresentazione meramente letterale o minuziosamente legata al particolare. La rappresentazione dei filosofi del catoio scaturisce da racconti popolari che si perpetuano da tempi immemori; riti arcaici di convivio vissuti nei bassi, nelle cantine, luoghi terreni di bevitori di vino e decantatori di pensiero, filosofi,appunto, riuniti intorno al tavolo nel loro spazio ideale, raccolto e spartano, nel’ ventre della vacca’, come direbbe Raffaele, luogo di massima ispirazione, essenziale e familiare, mura spesse e antiche che garantiscono in maniera naturale il fresco d’estate e il caldo d’inverno con le travi a vista del soffitto e la porticina conventuale dove nulla disturba, prima di consumare e di lasciarsi andare agli eccessi del banchetto a base di maiale, frittole, salsicce, soppressate, e salami vari. Il momento dell’attesa è quello scelto dal pittore in cui gli uomini ragionano, girano intorno al tavolo come nel pensiero e discutono in attesa dell’arrivo del vino e del maiale ammazzato di buon auspicio per tutto l’inverno e l’anno che verrà, tutto questo celebrato in modo quasi biblico tra soli uomini commensali e attori del vecchio rituale in attesa delle donne e della festa proprio nel catoio ( termine di derivazione greca: katågeion (sotterraneo) ‘catoio’ in calabrese è rimasto il termine comune per indicare un locale al pianoterra o seminterrato) la nostra cantina o il ‘basso’ di Napoli per intenderci. La Calabria, terra aspra e bellissima, martoriata e vilipesa, ma che paradossalmente rappresenta tutto il Sud del mondo, il cui popolo è destinato a combattere o a fuggire per poi tornare di nuovo a goderne la bellezza. Regione che riprende colore e vita nel suo periodo di massimo splendore, l’estate, momento catartico in cui il sole e il mare vincono sulle paure ataviche, sugli spettri del male, quando si aprono le danze o si celebrano le sagre e le processioni religiose fino alla festa del maiale dando spazio a ritualità antiche senza tempo. Questi sono i momenti magici vissuti appassionatamente e orgogliosamente da Raffaele riportati nelle sue ultime opere: , ‘la Tarantella dei Carcerati’, ‘Kaulonia’, ‘la Processione’, ‘I filosofi del catoio’ e ‘Lo zampognaro’. Le tavole e le tele dipinte di Raffaele sono in qualche modo «metafore di eternità» dove la minuzia o la descrizione vernacolare sono assenti per elaborare una sorta di realismo astratto e minimale accantonando il connotato specifico per librarsi verso il trasversale, l’universale. Questo slancio si associa all’ impulso (in qualche modo radicato nella ricca esperienza disegnativa dell’Architetto ) di iscrivere il visibile dentro una griglia fatta di geometrie rigorose. La natura viene ricostruita attraverso un processo di liberazione e di scarnificazione del superfluo. Possiamo affermare che la fantasia del pittore Raffaele altro non è che memoria dilatata e ricomposta dall’architetto Ripoli.
MARIA BONGI
Roma, marzo 2014