"Vergine Sposa col Bambino", olio su tela, 60x80, 2016.
La Vergine Sposa col Bambino di Roberto Mendicino: la scelta originale di un velo… (Confluenze, dicembre 2016)
L’evanescenza e la suggestione di un paesaggio soffuso di pallida luce lunare caratterizzano il dipinto in cui Roberto Mendicino ritrae la Santa Vergine col Bambino. La peculiarità della tela, che la rende prima e al momento unica nel suo genere, è il velo da sposa dal quale è adornato il viso della Madre Celeste ed è avvolta la Sua figura, rendendosi manto trasparente e simbolo di purezza.
Il suo candore richiama quello dell’alone emanato dal Santuario, al quale attribuisce un che di remoto e di indefinito destinato a effondersi su tutta la superficie del quadro. Un’atmosfera indefinibile pervade l’opera, che rimanda a una dimensione assoluta e ineffabile, dove si coglie l’essenza mistica di un momento, nel quale si racchiudono eterno e terreno. Sembra che queste due realtà siano evocate dalle scelte cromatiche dell’artista, il quale lascia trasparire un’ispirazione intima, intensa, profonda, raccolta nella ricerca del sacro con umiltà e con un candore, che si riaccosta a quello del velo nuziale. Il silenzio pervade la scena ed ha un sua voce, che arriva in fondo al cuore: le sue parole sono armonia di note raccolte dal pentagramma della vita e udite dal fine orecchio dell’anima. Il mistero, che pervade il cammino dell’uomo, è presenza, aleggia ed è segno della fragilità umana protesa a rivolgere lo sguardo supplice al conforto di una figura paterna e materna, certezza di eternità. La Santa Vergine ne sembra messaggera dispensatrice di rassicurante dolcezza e pare che con il Suo velo, simbolo del legame con lo Sposo, desideri avvolgerci, per offrirci protezione. Emblematico è il Bambinello delicatamente adagiato e raccolto sul petto materno, dove riposa tranquillo, perché si sente al sicuro. In Lui rivediamo l’immagine di quel che è anelito umano: a Lei l’uomo affida se stesso, per ricevere grazie e tutela. Non passa inosservato il rosso della maglia, che copre il Piccolo: lascia pensare al sangue versato da Cristo e da tanta umanità, al sacrificio, al senso del cammino terreno, pari a pellegrinaggio accompagnato da tribolazioni, prima di ritornare alla Casa Paterna. Intanto quel cielo buio è contrastato dal colore del suolo, che riluce di una tonalità cangiante tra il turchese e il verde dell’acqua marina: entrambi rievocano dimensione arcana e remota, pervasa dall’incontro tra Finito ed Infinito, nell’impalpabile sensazione di vago e assoluto che proviene da una regione senza spazio e senza tempo. Alle spalle della Santa Vergine si profilano, poste qua e là, ma secondo una visione prospettica le figure di spose con lo sguardo rivolto verso un punto scelto non a caso dall’artista. La loro presenza può suggerire varie interpretazioni, ma di sicuro risulta evidente che i loro tratti non sono visibili: l’unico volto destinato a mostrarsi chiaramente è proprio quello di Maria, Madre di Dio e degli uomini, la Sposa Eletta per eccellenza, la quale effonde tutta la Sua Grazia e sembra intenta a volerci comunicare la Sua vicinanza, maternamente consapevole della nostra fragilità, che ci rende simili a foglie in balia del vento, durante questa parentesi terrena vissuta con l’anelito di eternità.
Le distese sabbiose nella pittura di Roberto Mendicino: viaggio attraverso l’infinito… (Confluenze, aprile 2017)
Nel deserto bisogna prevedere l’imprevisto… (da La notte di fuoco di Eric Emmanuel Schmitt).
La sabbia come manto millenario, custode di segreti e memoria di antichi fondali marini… La sabbia come ricettacolo di innumerevoli granelli e paesaggio senza tempo, in cui il vago e il remoto aleggiano come presenze vive e pregnanti, seppur impalpabili e invisibili a occhio nudo… La sabbia come palcoscenico di miraggi, in cui si specchia l’umanità in balia dei suoi aneliti…
La sabbia anche come fonte ispiratrice di tele dipinte da Roberto Mendicino, che affida alle plaghe desertiche il senso della sua ricerca umana e pittorica…
L’artista rimanda a cammini, ad attese, a contemplazioni con cui dal piano finito, rappresentato da dune, che si perdono all’orizzonte, consente di andare “oltre” e di vagare in un “altrove”, una dimensione “altra”, nella quale si percepiscono il mistero cosmico che ci avvolge, la tensione verso l’Assoluto, la speranza di un eterno capace di rassicurarci, quando ci assale l’ansia della caducità in questo pellegrinaggio terreno. Emblematiche sono, a tal proposito, i dipinti “Attesa”, “Il portatore”, “Maschera nel deserto”, “Il deserto”, opere realizzate con la tecnica dell’olio su tela grazie alla quale il pittore infonde nel colore proprietà evocative: si palesano scenari di incomparabile suggestione in grado di suggerire atmosfere arcane e remote. Qui sono i silenzi a parlare e la solitudine si traduce in dialogo intimo con se stessi lungo il sentiero della consapevolezza. Ammantate del colore infuocato del sole o di quello del cielo notturno, le dune di sabbia si mostrano come spettacolo naturale e metafisico, mentre effetti chiaroscurali e sfumature evidenziano capacità artistiche e messaggi reconditi. L’uomo si confronta con il deserto, si lascia rapire dal suo fascino segreto e, al contempo, dal timore ancestrale, che esso suscita nell’animo. Una voce silente sembra impressa in queste regioni e pare che arrivi come sussurro, per raccontare o per assumere tratti oracolari. L’uomo, maschera o viandante che sia, compare nella distesa desertica e ricorda la sua presenza nell’universo, per alcuni casuale, per altri legata a un disegno provvidenziale. La sua effigie impressa nella sabbia è traccia, è testimonianza di un passaggio, di un esserci stato, di un esserci e di un divenire: gli occhi, necessariamente rivolti al cielo, suggeriscono la nostra dimensione terrena proiettata in quella ideale e perenne, perfetta e agognata. L’orizzonte profila un lungo cammino, a cui l’umanità non può sottrarsi, perché è parte inalienabile di se stessa. Mentre pare di udire il soffio del vento, assimilabile ad altro suadente cantore di storie appartenenti al deserto, a cui la sua aerea potenza riesce a dare sempre nuovo volto con il suo incessante lavorio sulle dune, l’artista imprime nella sua memoria queste metamorfosi, affinché continuino ad essere per lui fonte d’ispirazione e si rendano, poi, “messaggi in bottiglia” da affidare al viaggiatore disposto a raccoglierli nel mare della vita, le cui acque un tempo bagnavano ciò che ora è sconfinata distesa di sabbia.
"Uomo che guarda", olio su tela, 60x80, 2017.
L’uomo che guarda: occhi rivolti a una speranza segreta nella tela di Roberto Mendicino. (Confluenze, dicembre 2017)
La tela L’uomo che guarda racchiude il suo cuore palpitante negli occhi del protagonista e in quello spiraglio di vetro infranto, da cui lo sguardo attraversa il finito e si perde nell’infinito, vagando in una dimensione propria, remota, cosmica, intangibile. Il viaggio dell’anima si avvia e si svolge, avendo come supporto la mano che è posata sulla superficie vitrea, come se dovesse garantire un contatto con la realtà, per consentirsi il ritorno e non smarrirsi nell’indefinito…
La particolare sensibilità umana e artistica di Roberto Mendicino non esita a tuffarsi nel mare dell’io, pur consapevole di quanto possano essere profondi e insondabili i fondali marini: egli esplora l’oceano dell’anima e scandaglia le pieghe più intime e nascoste, fino a non sottrarsi al confronto con lo specchio interiore. Il dipinto consente anche a noi, al pari dell’uomo che scruta oltre il limite, di vedere al di là: attraverso i vetri della finestra si palesa l’ossimorica visione dell’ambiente interno grazie alla suggestione di tepore dei colori caldi delle pareti, contrastante con quella dei colori freddi che sono impressi sul volto e sulla maglia di colui che può assimilarsi a riflesso o alter ego dell’autore, sebbene, al contempo, egli assurga a espressione universale dell’essere umano. Si potrebbe pensare che la finestra rimandi anche all’immagine di sbarre capaci di alludere alla dimensione di prigionia e di limite, in cui si vive, consapevoli o meno del fatto che la libertà non sempre è un dato di fatto, ma molto spesso un miraggio, un’illusione, un’utopia o, magari, una conquista, un anelito, una scelta estrema. In ogni caso questa è altre letture interpretative riconducono all’intensità comunicativa dell’opera sia dal punto di vista contenutistico, sia da quello formale. L’essenza vitale della tela si racchiude nell’incommensurabile custodito nell’apparente “semplicità” dell’immagine, la quale rende il silenzio voce eloquente dell’interiorità e traduce in movimento esistenziale quella che, in apparenza, si palesa come staticità e fissità della figura. In quegli occhi, apparentemente immobili, s’intravede il guizzo di una vita narrata all’istante, nella sua completezza e pregnanza, nella sua condizione di ricettacolo colmo di vissuti, stati d’animo, sentimenti. Ogni tratto somatico, ogni corrugamento, ogni piega, ogni moto inconsulto sono storia di un percorso d’anima, che fa dischiudere le labbra e contemplare…al di là…La speranza segreta è, forse, raggiungere chi e quel che si cerca da sempre…
L’uomo che guarda
L’uomo che guarda
rivolge gli occhi oltre lo spiraglio…
Il suo sguardo si fissa
e vaga in un mare di pensieri,
in un forte sentire
che è ritorno a se stesso…
Si riaffaccia ogni palpito del cuore,
si rivive ogni tremito ed anelito,
si ripercorre ogni passo del proprio
cammino
e ricompaiono assenze, abbandoni, legami…
Tutto riappare e ogni cerchio si chiude,
mentre il vento soffia e attraversa la breccia,
quel varco che unisce passato e presente,
finito ed infinito,
quella linea di confine, che rivela
tra riflessi e baluginii del vetro e dell’anima…
Flavio Nimpo
"I deserti dell'anima", olio su tela, 80x80, 2017.
I deserti dell’anima: la contemplazione del mare dell’io nella pittura di Roberto Mendicino.
I deserti dell’anima di Roberto Mendicino sono il dipinto del nostro mondo interiore, quando esso è alle prese con la contemplazione del sé, della sua dimensione arcana e remota nell’inestricabile mistero cosmico che avvolge la nostra vita. La tela racchiude un universo, nel quale la volta celeste, tinta di rosso e di nero che sfuma, si stende su un paesaggio desertico: una plaga simile a superficie lunare o fondale oceanico restituito alla luce, in ogni caso un luogo assoluto, “altro”, che si palesa come passaggio ad un “oltre” indefinito. Sembra che ai nostri occhi si riveli una terra di frontiera destinata a condurci a recessi reconditi fisici e metafisici. Il silenzio è tutto e permea ogni elemento: esso è la voce dell’anima, che non ha bisogno di articolare alcun suono, per evocare verità e consapevolezza. Ogni concetto, ogni stato d’animo, ogni percezione del reale e del trascendente è impresso nelle pennellate dell’artista, nei colori e nelle loro nuances accuratamente scelte e rese dal pittore: pare che cielo e terra abbiano invertito la loro essenza cromatica e ovunque aleggi l’atmosfera di immagini virgiliane e dantesche. Emblematica è la presenza della figura coperta da un telo bianco: una visione fantastica, contemplatrice e assolutamente sola, come ogni essere umano, alla nascita e alla morte, prima isola e, poi, elemento di arcipelago, quando è in un consorzio umano, ma mai privo della sua individualità, della sua solitudine e della “solitarietà”, nel caso in cui sia scelta tale condizione. Nel cosiddetto contemplatore solitario si racchiude la nostra essenza, il nostro essere simili a fragili foglie, come impariamo da Omero, dai lirici greci, fino alla poesia contemporanea: quella posizione di chi osserva e contempla racchiude i nostri interrogativi, la nostra incessante ricerca, i nostri timori sulle incognite, il nostro sguardo rivolto al futuro, i nostri aneliti, le nostre speranze. Le domande universali: <<Da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? >>, fonte ispiratrice della famosa tela di Gauguin, si ritrovano in questa entità umana, che da un’altura fissa il locus desertus e, forse, pur nella lucida visione consapevole, guarda con gli occhi della speranza e si augura che in quel tremolio azzurrino della roccia si possa intravedere il seme della rinascita, per far rifiorire i deserti dell’anima.
I deserti dell’anima.
Il rosso del cielo avvolge
le rocce grigio azzurrine
simili a propaggini tentacolari…
Una visione fantasmica rimanda
alla contemplazione della propria
visione cosmica
in assoluta solitudine…
È un tempo senza Tempo,
è un luogo senza Luogo.
è la condizione vaga e remota
dei nostri deserti dell’anima…
Quelli che sono urlo nel silenzio,
tremiti di assenze che spaccano il cuore,
indefinibile sentire capace di renderci
essere siderali…
Questa dimensione astrale brilla
della sua fredda luce
e si può solo sperare
che il pelago glaciale
si tramuti in un mare tinto dei colori
dell’alba e del tramonto
in attesa della scintilla
d’incantamento nuovo…
Flavio Nimpo
"La solitudine dell'opposto", olio su tela, 50x70, 2017.
“La solitudine dell’opposto” di Roberto Mendicino: tela che rende voce il silenzio.
Ci sono silenzi che parlano…Il silenzio è voce unica e inequivocabile, che arriva in fondo al cuore e diviene consapevolezza. Il suo suono risiede nei luoghi dell’anima e la solitudine è sua compagna. Quando si è soli, la dimensione di assoluto, vissuta nella condizione che ci appartiene, consente di toccare l’essenza di sé e dell’altro. Tempo e spazio si dilatano fino a farci sentire al centro di un universo, in cui si visitano le plaghe remote dell’essere e allora si percepisce il mistero cosmico, che ci avvolge, e la nostra assimilazione a fragili foglie. Roberto Mendicino ci palesa con la tela “La solitudine dell’opposto” il senso di quanto esposto: il paesaggio, che si staglia dal dipinto, si presenta remoto, siderale, “primitivo”, capace di stupire per la sua analogia con tratti della superficie lunare e di attrarre per il contrasto tra il colore caldo e quello freddo. Pare di cogliere l’atmosfera di un luogo dantesco, nel quale si attende di udire il fragore lontano di un tuono lungo quell’orizzonte pennellato di nero e rosso-arancio. Una sottile e strana inquietudine pervade lo spirito alla vista della figura incappucciata che si erge, opponendosi a quelle minuscole, che sembrano intente a seguire il loro cammino. Nella loro contrapposizione si coglie l’immagine della “solitudine dell’opposto”, che, per l’appunto, dà il titolo all’opera.
Spesso l’uomo è creatura destinata a vivere divari, incomprensioni, confronti capaci di generare la sua volontaria o subita emarginazione, l’insopprimibile senso di solitudine, che può indebolire o rafforzare, ma, in ogni caso, tempra e leviga l’animo. Chi si oppone è solo e nella presenza senza volto, ammantata di rosso, l’artista ha racchiuso il significato e le conseguenze di questo stato.
Gli altri vanno, procedono, seguono la loro direzione, mentre “l’oppositore solitario”, in posizione contraria, sembra un’erma immobile e silente. In quella valle, desolata e ondulata da sommità collinari, simili a onde gonfie, pronte a infrangersi a riva, si consuma la drammaticità di una storia che si perpetua di generazione in generazione. Il colore del deserto è specchio di quello d’anima e, parimenti, riflette l’idea stessa dell’opposizione, poiché la plaga desertica si appropria delle tinte tipiche di cielo e mare, per lasciare, invece, alla volta celeste quelle che le dovrebbero appartenere. Un canto elegiaco si eleva dalle profondità del silenzio e si effonde. La percezione fulminea dell’entità concettuale del dipinto causa lo sgorgare di lacrime interiori: esse sono catartiche e si rendono, come recitano i versi di Elisa Biasi, <<la via del sentire che trabocca/ e cancella le prigioni>>. Poi, come Alda Merini idealmente continua, tali lacrime <<non sono andate perdute>> e diventano <<dono>>. Solo così, forse, si lenisce il senso di quella distesa oceanica che è la solitudine, verso la quale il cuore oppone il suo palpito…
"La scena oltre", olio su tela, 100x120, 2018.
La scena oltre: il paesaggio del sé e del suo altro.
Lo sguardo di una “doppia” vista può andare oltre e consentire di vedere l’altra faccia della realtà: il suo alter ego, la sua immagine “in negativo”, il suo doppio in un mondo “altro”.
Questa è la considerazione immediata dinanzi alla tela di Roberto Mendicino dal titolo La scena oltre, opera suggestiva ed emblematica, come il panorama artistico del pittore conferma in tal senso.
L’alterità, la maschera, il rapporto dialettico tra essenza e apparenza, il grido silente del diritto all’espressione del sé sono presenze tematiche che ricorrono con frequenza nella scelte pittoriche dell’artista, che non manca di riproporre elementi e figure significative per la sua ricerca e per la sua esigenza di comunicare contenuti profondi, ma arricchisce questo dipinto di particolari e tratti abilmente inseriti e ravvisabili da un occhio attento.
In questo teatro, che sa essere la vita, sempre pronta a fornirci il palcoscenico da noi calcato, a seconda dei casi e delle scelte, con una parte attiva o passiva, lo sfondo del nostro agire riflette il nostro stato d’animo, il nostro vissuto, rivelando l’esigenza di un mascheramento per “andare avanti e oltre”. Mendicino scandaglia, suggestiona, infonde inquietudini e spunti di riflessione con scelte cromatiche, con una tecnica e con un soggetto capaci di racchiudere la cifra stilistica e contenutistica della sua vena pittorica, di cui si distingue nitidamente il suo sigillo.
In un contesto tematico simile egli non avrebbe potuto che scegliere il luogo più consono, il teatro, sede eletta della veste tragica e comica del vivere: in particolare, poi, lo storico Teatro “A. Rendano”, che appartiene alla tradizione culturale della città di Cosenza.
Quasi come omaggio alle radici e ai valori della sua terra, l’artista elegge a sfondo del suo “racconto” pittorico l’odierna Piazza XV Marzo, un tempo Piazza Prefettura, sede del Palazzo omonimo, oggi della Provincia, dove, al contempo, si possono ammirare il suddetto Teatro, la Biblioteca Civica, altresì sede della prestigiosa Accademia Cosentina, e la Villa Comunale. Mendicino non trascura di porre in evidenza il colle su cui sorge il Castello Svevo-Normanno, ma, fedele al suo messaggio iconografico, rende questo paesaggio bruzio “l’altro da sé”: sembra che un’aura lunare, onirica, pennellata di bianco e di grigio avvolga ogni elemento raffigurato sulla tela.
Ricompare la suggestione del mondo ultraterreno dantesco e tutto sembra immoto in un tempo indefinito. Si respira un’atmosfera arcana, remota, vaga, nella quale non manca la presenza di sagome “fantasmiche”, che rimandano al senso dell’identità e dell’esistenza umana.
Le sovrasta la figura, quasi “ieratica”, che si distingue per fattezze e colori: ovviamente è celata da una maschera e pare che rievochi quel senso del “doppio” presente in tanta letteratura antica e contemporanea (si pensi alla commedia plautina, a La metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio, alle opere pirandelliane), in cui si palesa il “gioco” e il legame tra autore e personaggio.
Una suggestione ossimorica tra luce e buio pervade il dipinto, rievocando analogicamente L’impero delle luci di Magritte: il nero della volta celeste è contrastato in parte dallo squarcio luminoso, in alto a sinistra, e dal chiarore grigio-perlaceo emanato dalle poderose mura del castello tanto da farlo apparire un “fantasma di pietra”; poi, più in basso, la luce dei raggi lunari illumina trasversalmente la facciata del teatro e con la calda luce dei portici e dei lampioni stempera la sensazione siderale e d’inquietudine che pervade la piazza. Alla destra sembra che un enorme lenzuolo avvolga con le sue ondulazioni il giogo collinare, al pari di una “cappa” surreale e atemporale.
Il rosso della manica, appartenente all’uomo mascherato, è intenso richiamo cromatico che sovrasta e contrasta il grigiore della realtà circostante (allusione, forse, alla visione del reale?), ma considero vero propulsore di luce e di vita, di calore e di rifugio per la speranza umana quella fonte luminosa, che, dalle porte d’ingresso del teatro, si irradia e diventa polo accentratore di attenzione per lo sguardo e per il cuore. Pare anche che il gesto epidittico della mano di colui che è “in scena” la indichi e si può pensare, inoltre, che, rivolgendo l’indice verso il teatro e il suo “oltre”, intenda far cogliere la sua immagine di luogo simbolo della “finzione”, dell’apparenza, della cosiddetta “alterità”, che per effetto “paradossale” è specchio della realtà.
William Shakespeare dice: <<Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti>>. A sua volta, Victor Hugo propone una suggestiva immagine: <<Il teatro non è il paese della realtà (…). Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco>>. Da entrambi giunge una visione, che riesco a rapportare alla tela di Mendicino: c’è un “oltre”, al di là della scena, che rimanda a verità nascoste, alla vera natura del reale, perché spesso è proprio la maschera a essere specchio fedele della realtà umana, seppur in apparenza celi. Nel dipinto è l’uomo mascherato, infatti, a indicare il teatro, il suo “oltre”, quel che esso rappresenta e c’è da dire che, pur in presenza dell’assenza di tratti e di espressione, da questa maschera traspare in maniera quasi prepotente il volto celato con il suo sentire e con la sua vis somatica, a conferma del fatto che l’apparenza, per quanto veli, non può reggere la sostanza dell’essenza. La pregevolezza della tela si raccoglie, dunque, nella scelta del soggetto, nella tecnica, nella scelta del colore e della sua resa, amplificata da quella sorta di velo perlaceo adagiato su ogni elemento, nella sensibilità dell’artista, che comunica il suo messaggio con voluta discrezione, con quel riserbo, che si racchiude nei fiori non appariscenti ma dotati di quella bellezza segreta capace di effondere preziosa fragranza. Lo stato d’animo di Roberto Mendicino è tutto lì: occorre solo saper andare…”oltre”.
“Altrove”, olio su tela, 70x70, 2018.
Altrove: il dipinto di Roberto Mendicino con le ragioni del cuore oltre i limiti del raziocinio.
Una Natività, rappresentata da quelle care statuine che sono il cuore palpitante del presepe di tante famiglie, popola un tratto di distesa sabbiosa, movimentata da dune e avvallamenti e posta, rispetto alla Sacra Famiglia, in posizione prospettica tanto da estendersi in longitudine fino all’orizzonte e, poi, “oltre” fino a un “altrove”. Tale prospettiva rimanda metaforicamente e simbolicamente al lungo cammino dell’umanità, da quello terreno a quello trascendente, in una visione che induce a una riflessione dai contorni contemplativi. Lo sguardo all’umano e al sacro induce a considerare la dimensione fisica e metafisica in un connubio che è avvolto da un’aura remota e assoluta.
Il deserto è “l’altrove” dei protagonisti di una nascita che ha segnato il corso della storia umana; al contempo la loro presenza è garanzia e conferma del fatto che, pur in assenza della grotta di Betlemme e dei luoghi evangelici, in ogni “altrove” essi sono riferimenti di fede e fiducia per l’uomo. L’apparente estraneità della Sacra Famiglia alla distesa desertica rimanda a più significati che, si può immaginare, si riferiscono a vari aspetti e contesti, non riconducibili solo al piano religioso. Altrove è luogo, dimensione e condizione di ogni tipo tanto da ricondurre all’esperienza umana scandita dal vivere, dal sentire, dall’agire. Altrove può essere ricerca, viaggio, anelito, attesa, approdo, partenza, corrispondenza con l’Altro da sé. La sua essenza sta proprio nell’elemento straniante che rimanda alla collocazione della Sacra Famiglia di Betlemme in un deserto remoto, assoluto, costituito soltanto da dune rosse. Questo paesaggio così significativo nella sua dimensione essenziale, è espressione tangibile e riconoscibile dello stile e della tecnica dell’artista, di cui si palesa l’inconfondibile sigillo d’autore. I suoi sono luoghi e paesaggi che sono specchio dell’anima; mondi avvolti da suggestioni oniriche e surreali, pronte a trasferire il reale e il verisimile nel trascendente, nel metafisico, nell’infinito e nell’indefinito. Questa è la tela che racchiude proprio in quella distesa desertica, che è l’espressione di assenza di vita, mentre prima era terra fertile o mare, il palpito vitale, autentico, puro, semplice, immenso, pur nella sua umiltà, dell’amore universale, dell’elemento terreno e umano, che anela con fede alla sua natura più vera, ideale ed eterna. Nel suo Altrove Mendicino racchiude idealmente per noi il pellegrinaggio verso la fonte di fiducia e speranza, che può sgorgare solo dall’inesauribile dolcezza e dal costante conforto di quel sacro e santo mistero racchiuso in una nascita unica e irripetibile, alla quale l’uomo si affida, per non smarrirsi in quell’imperscrutabile mistero cosmico che l’avvolge e gli fa avvertire il senso del certo e dell’imperituro, che solo la fede e le ragioni del cuore consentono, oltrepassando i limiti posti dal raziocinio, per cogliere l’impalpabile presenza dell’Altrove.
“Assenze”, olio su tela, 80x120, 2019.
Le Assenze di Roberto Mendicino: suggestivi fondali dell’io.
Le assenze sono distese marine incommensurabili, i cui fondali custodiscono segreti che il talento artistico ha il privilegio di saper rappresentare come espressione di quel che appartiene all’uomo di sempre. L’artista racconta in modo icastico e imprime nel cuore, attraverso gli occhi, immagini d’anima destinate a tradursi in tracce indelebili. Ciò accade anche con le tele di Roberto Mendicino, il pittore di luoghi interiori, remoti ma vissuti con l’intensità del silenzio che sa diventare parola, poiché l’ineffabile arriva attraverso il profondo sentire, che dalle corde segrete dell’animo risale fino a rendersi voce. Con il dipinto Assenze l’artista propone una realtà condivisa dagli uomini, che giunge nitida, netta, “implacabile”, densa di contenuti, di allusioni ed evocazioni, pur nella dimensione di plaga remota, assoluta, desertica, anzi proprio per questo si enfatizza e si carica di senso. La scelta di rendere l’essenza dell’assenza in chiave di distesa contrastante a livello cromatico, rispetto al colore rosso cupo, che rievoca dune del deserto arroventate dal sole, si rivela un’efficacissima ispirazione artistica capace di condurci in “terre lontane”, in recessi e fondali interiori, che scavano e inesorabilmente ci ricordano una condizione, uno stato d’animo che ci appartiene, è ineludibile ed è vissuto nelle diverse sfaccettature causate dalla reazione individuale del singolo. Una Penelope, invisibile e ideale, pare aleggiare su questo mondo impresso sulla tela con pennellate di un io vibrante. Pare che il diafano simulacro della sposa di Odisseo rievochi il senso dell’attesa e dell’assenza lungo la linea dell’orizzonte, che delimita e, proprio per questo, pone in risalto la coltre bianca e azzurrognola, correlativo oggettivo dell’assenza, in un “gioco” dialettico di incontro e contrasto tra finito e infinito nella cifra impalpabile ma pregnante del vago e dell’indefinito. Forse in quell’avvallamento, che risalta nel tratto “glaciale”, sfumato con tocchi cinerei e cerulei, si racchiude il cuore palpitante e sofferto dell’assenza provata dall’uomo in tutta la sua devastante portata, che, a volte, deborda ed è insostenibile. Non compaiono sagome umane o presenze “fantasmiche”: tutto è silenzio che parla e sembra ispirato da un’altra figura emblematica del mito e dell’epos, la profetessa Cassandra, che lascia cogliere i contorni trasparenti di sé in una suggestiva evocazione dettata dalla parola tacita ma eloquente, destinata a renderci consapevoli di verità inalienabili. Nell’apparente fissità della tela si colgono implicite tensioni dinamiche e pare di percepire un lieve e incessante soffio di vento, che, modellando la superficie sabbiosa delle dune, evoca il passare del tempo, quel divenire pari a una “seconda pelle” per l’uomo e le cose. A quello che sembra un mare racchiuso tra il rosso della terra e del cielo Mendicino affida la sua vena lirica, in chiave pittorica, affinché si effonda il canto elegiaco di chi rappresenta le fibre intime del sentire umano con pregnanza interiore tale da tradurre l’esperienza individuale in universale e tutto questo rimanda all’intensità del dire poetico di Alda Merini, che scrive: <<Erano spine che entravano nell’anima e diventavano fiori>>.
“Prospettive”, olio su tela, 40x60, 2019.
Prospettive di Roberto Mendicino: punti cardinali in un mare d’interiorità
Una visione panoramica, assoluta, sospesa rivela dall’alto l’immagine di un mondo avvolto da un’aura misterica e cosmica. Un’atmosfera rarefatta pervade la tela, in cui la potenza evocatrice e rivelatrice del silenzio dice nel non detto. Quattro minuscole sagome umane, assimilabili a figure “fantasmiche” sono rappresentate come se fossero collocate a mo’ di punti cardinali riconducibili a un’immaginaria bussola o Rosa dei venti. Ognuna, pur nella sua apparente staticità, sembra in movimento e intenta a percorrere il suo cammino, seguendo una precisa direzione.
Un’impalpabile coltre sospesa, tinta di cinereo e ceruleo, contrasta con il colore del cielo e della terra, cinta dalla sostanza vaporosa e azzurrina, che si estende compensando il colore acceso dell’orizzonte e della distesa pianeggiante. L’essenza della tela rimanda al suo titolo: è una visione prospettica, è una questione di prospettive, sottolineata dalle presenze umane (o presunte tali) in una dimensione, forse, di ricerca, di attesa, di contemplazione, di anelito e tensione interiore, contenuta dall’apparente compostezza che pervade tutta la rappresentazione, in cui si può apprezzare la rispondenza di equilibrio o misura anche nella scelta di tecnica e di colori, dai quali traspare il cosiddetto sigillo d’autore dell’artista. Lo sguardo contemplativo si offre prospetticamente dall’alto e induce a pensare a un paesaggio dantesco, in cui si respira la dimensione dell’oltre e dell’altrove, calata nel remoto, nel siderale, in quell’assoluto che rimanda all’eterno. È la contemplazione di una realtà dipinta attingendo all’infinito e all’indefinito, che sono restituiti in quella dimensione rarefatta e vaga di leopardiana memoria e che ci riconduce, poi, ad atmosfere pittoriche riconducibili al Novecento e all’arte contemporanea. Tutto suggerisce l’idea di un viaggio dentro e fuori di noi, quello che, appunto, appartiene alla nostra condizione umana: è un cammino esistenziale in cui si ricerca la nostra ragion d’essere, un modo per darle senso e quel “varco” capace di darci speranza e fiducia nel desiderio di eterno. Mendicino racchiude questo “pellegrinaggio” e questo anelito dell’uomo nella tela con una sorta di poesia pittorica, che sostanzia il frutto della sua ispirazione e ci restituisce a ogni sguardo rivolto al dipinto il tuffo nell’impalpabile ma pregnante mare dell’interiorità.
“Onde immobili”, olio su tela, 40x60, 2019.
Onde immobili di Roberto Mendicino: dinamismo “statico” di emozioni e conoscenze.
Un paesaggio singolare e “bifronte” si palesa ai nostri occhi: la tela Onde immobili di Roberto Mendicino evidenzia un tratto desertico e uno marino, poiché la composizione rievoca la commistione di terra e di mare. Il deserto sembra convivere col moto ondoso, in apparenza statico, di dune sabbiose, che con la loro conformazione si assimilano a onde gonfie per correnti marine e per il vento. Esse si colorano di tonalità che rispecchiano quelle del cielo, dove l’addensarsi vaporoso di nuvole si tinge dei colori del tramonto. La scelta cromatica di alcune parti del dipinto fa cogliere un’evoluzione artistica rispetto a tele precedenti dell’artista, il quale è incline, in questa sua opera, a effondere una dimensione nuova, avvolgente, evocativa, densa di sfumature di colori con cui invita a lasciarsi accogliere da un luogo assoluto, nel quale ideali onde immobili sono, forse, l’essenza dell’attimo eterno, dell’istante magico che ferma tempo e spazio, lungo le tracce dell’indefinito e dell’eterno. L’ideale, incessante perpetuarsi delle onde, che qui appaiono cristallizzate in una sorta di incantesimo, diviene momento di raccoglimento e, al contempo, occasione per rievocare il fieri, quel divenire a cui l’uomo non può sottrarsi e che lascia cogliere tutta la condizione di precarietà appartenente agli uomini, fragili creature simili a foglie o a esili giunchi sottoposti agli elementi atmosferici. Quelle pennellate di rosso, che danno l’idea di terra desertica o di un’ampia linea di orizzonte o ancora di una sorta di barriera o muro da valicare, per anelare alla volta del cielo così sfaccettata per digradazioni cromatiche, rappresentano la linea di demarcazione tra la volta celeste e i cumuli di sabbia concepiti come onde ideali; tuttavia, pur proponendosi come limite da valicare, esse si traducono in tramite che esalta la corrispondenza tra l’elemento etereo e quello terreno, così suggestivi per le sfumature pronte a rimandare al senso di un’armonia e di un placido anelito al rasserenamento. La visione paesaggistica è pervasa da un’atmosfera sospesa che induce alla ricerca di quiete e infonde desiderio di equilibrio interiore.
La parvenza di onde immobili è rimando alla contemplazione di un luogo d’anima, che racchiude una condizione dell’io fermo e in attesa di un non so che avvolto nella percezione di vago e assoluto. La parte ondulata e più esterna, modellata dai cumuli di sabbia, risalta nel contrasto con quella monocroma e rettilinea (e viceversa), evocando il dualismo vitale che anima la realtà: tutto sembra canto silente dell’essenza dialettica che caratterizza la dimensione terrena, nella quale si avverte la presenza di un trascendente ammantato di quel mistero cosmico capace di far sentire l’uomo granello di una distesa infinita di sabbia. Nel suo smarrimento e nel suo sbigottimento egli trasale e avverte un senso di vertigine, da cui scaturisce la percezione consapevole del suo stato e del suo destino. In quelle onde immobili c’è passaggio, c’è il fluire della vita, il racconto “statico” dell’umanità ravvisabile pur nell’apparente assenza. L’itinerario artistico di Mendicino continua, tela dopo tela, a mostrare tappe emblematiche, dalle quali si possono estrapolare una ricerca e una chiave di lettura del reale, che sono voce pittorica contemporanea, significativa al fine di rappresentare la condizione umana e l’universale. In tal senso anche questo dipinto è contributo atto a farci solcare le acque del mare della conoscenza attraverso quel moto ondoso, che, nonostante il suo immobilismo, restituisce dinamismo in termini di esperienze emotive e cognitive.