Giovanni Valagussa
“Sono pitture tormentate, trattenute, scavate come faticose incisioni su una pietra irregolare, che fanno ricordare i graffiti rupestri, in Val Camonica o nel Sahara. Figure o paesaggi fatti di tratti essenziali e sottili, che sembrano quasi seguire le impuntature del pennino sul foglio, e poi gocce, schizzi, spruzzi, colature, zampilli, rigagnoli e pulviscolo di colori, per rendere meno drammatiche quelle forme così sofferte, accendendole nella luminosità di toni solari, brillanti. Il ballo, affascinante nel giro dei movimenti a vortice, come se vedessimo dall'alto un salone scintillante, scattando una foto che conserva le scie del movimento dei personaggi, con strascichi svolazzanti rosa, azzurri, rossi; e sagome inquietanti, come se la festa - in una scena repentina di film - stesse trasformandosi in una strage. O il giorno funesto che vede il sole nel cielo limpido, blu, sovrastare lo scatenarsi di una sorta di valanga di neve, gigantesca tanto da riempire l'intero paesaggio, schiacciando qualcosa che lascia una tragica scia rossa. Contrasti forti, impressionanti, come anche nella natura di un deserto giallo abitato da camminatori ridotti a scheletrici geroglifici senza direzione. Opere che sono una intelligente riflessione sulle disarmonie, sui confronti stridenti, persino sulle tragedie sotto i riflettori sbiancanti del palcoscenico, sull'inquietudine nascosta dalla necessaria e ostentata efficienza, sempre sul punto di rottura tra apparenza e mistero. Un gioco di equilibrio cui ormai siamo purtroppo abituati e che a volte diventa pericoloso”.