Francesca Sborgi
E’ alquanto evidente, anche a un occhio meno esperto, che il gesto e la materia pittorica attraverso la quale si esprime Vaclav Pisveic sia di matrice marcatamente espressionista. Penso alla sua pittura, alla galleria di ritratti che ho visto esposti solo pochi mesi fa in una doppia personale, a Firenze. Seguo mentalmente l’evoluzione che l’ampio concetto ‘espressionismo’ ha seguito attraverso il Novecento. Ovviamente non posso non pensare a Francis Bacon: la scomposizione deformante che colpisce i volti e i corpi, la pennellata che passa ora scabra e veloce, ora grassa e insistita mi rimandano ineluttabilmente a lui. Ma c’è qualcosa che mi spinge a avventurami più avanti nel tempo, nelle secche meno definite perché ancora troppo vicine al nostro vivere attuale. Sbircio il profilo biografico di Vaclav che ho scaricato dal suo website, e penso a quanto mi ha raccontato di sé, degli anni Ottanta a Praga, dell’iniziare a praticare pittura quasi per caso, avvertendo ‘un bisogno’: d’un tratto so dove cercare, e troverò credo la chiave per iniziare a leggere dentro alla sua arte; seppure l’avrò rintracciata nell’esegesi critica di un grande maestro del secondo Novecento che con Vaclav non ha molto in comune, oltre appunto alla comune matrice ‘neoespressionista’ (e forse anche alla biografia di una giovinezza vissuta in paesi reduci da regimi comunisti; ma questo è un dato che mi riprometto di appurare in altro momento, ora sono suggestioni ancora poco distinte che voglio cercare di discernere). Leggo infatti di George Baselitz: “insistendo su mezzi espressivi tradizionali, Baselitz ricorre a un gesto esemplare: ‘dipinge al contrario, ossia dipinge davvero al contrario e non diritto per rovesciare la tela in un secondo momento’. […] Baselitz mette in scena il grottesco e l’osceno nei suoi quadri, che si allontanano dall’armonia e dalla bella forma dell’arte di regime che aveva conosciuto da studente, ma compie gesti che eccedono una semplice lettura formalista. Rovesciare la tela significa, infatti, collocarsi al di là del supporto investito dalla pennellata dell’artista. E’ un’azione che contesta tutta la storia figurativa occidentale, è uno spostare l’attenzione dall’oggetto del quadro al soggetto che lo dipinge” (F. Poli, Arte contemporanea. Le ricerca internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi, p. 225). Ecco dunque la chiave che cercavo e intuivo: anche Vaclav compie un gesto altrettanto eclatante: non gira la tela da sotto in su, la ribalta da dritto a rovescio, e dipinge sul retro: quello che vediamo, voglio osare e dirlo, non è mai solo un ritratto, ma è quasi sempre, soprattutto, un autoritratto, nel senso di una emersione dal proprio inconscio di una emozione, di un ricordo, stratificato ma ancora vivo, come l’acrilico che gli dà colore, e che talvolta può essere doloroso. Per questo è il rovescio, è una piega dell’anima che può essere difficile indagare, ma necessario. E la pittura per Vaclav è questo, ed è espressionista appunto nel senso che è insieme cura e acuirsi di una ferita. Il percorso, però, è appena avviato, e c’è ancora molto altro latente: lo si avverte da un segno pittorico che preme oltre il limite della cornice, e che anela a uno spazio più vasto, a un ‘foglio’ ampio abbastanza per tirar fuori, imprimendolo sulla tela, l’urlo che è dentro.