Valter Maritano si racconta

Dipingo da quando, in un pomeriggio d’autunno di circa vent’anni fa, mi trovai a passeggiare senza meta per le vie di Torino con la testa immersa nei miei pensieri perché stavo attraversando un momento difficile della mia vita, ossia una profondissima crisi familiare.
Mi rendo conto che avrei potuto prendere direzioni e decisioni diverse; sarei potuto entrare in chiesa o in un bar.  Entrai in un museo.
Aggirandomi tra le sale, senza prestare molta attenzione alle opere esposte, pensavo ai fatti miei e al frastuono caotico che mi turbinava dentro. Poi, scaldandomi gradualmente il corpo ed espellendo man mano l’umidità di novembre, cominciai a osservare le opere che mi circondavano.
Mi domando ancora oggi il motivo per cui mi ritrovai là. Forse perché avevo sempre collegato in qualche modo l’arte alla sofferenza, all’espressione dell’inquietudine e del disagio.
I quadri mi osservavano e mi raccontavano le loro storie e quelle dei loro autori: Fontanesi e il Giappone, Pelizza da Volpedo e la politica, poi Balla e il progresso, Casorati e il fascismo, Levi e il dopoguerra. Mi fermai proprio davanti a un quadro di Carlo Levi, e qualcosa accadde. Era un dipinto della serie ispirata al libro “Cristo si è fermato a Eboli”, intitolato “I due fratelli”. Con pennellate corpose e colori forti la tela mi presentava due bambini sofferenti, tristi ma abbracciati e uniti. I miei figli! Erano loro a chiamarmi dal quadro e a dirmi: “Ma cosa fai? Guardaci senza di te”. Tornai a casa e ripresi in mano la mia vita.
Da quel giorno cerco di creare immagini che possano trasmettere emozioni, che creino un dialogo con chi le osserva. Poco importa se il quadro sarà compreso, se verrà riconosciuto il mio intento.
Un quadro è bello semplicemente perché è tecnicamente ben fatto e gradevole alla vista, o perché racconta una storia e traduce nel linguaggio pittorico emozioni? Non è che un quadro ci piace davvero solo nel momento in cui ci fa vibrare e riconoscerci in esso?
L’arte possiede il dono esclusivo di toccare i sensori interiori degli uomini. Certe emozioni si provano solo davanti a un quadro, ascoltando una musica o leggendo un libro e le sensazioni possono variare secondo il nostro stato d’animo: davanti a “Guernica“ una persona che abbia vissuto il terrore della guerra si sentirà parte del dramma, rievocherà il rombo dei bombardieri tedeschi e il fragore delle esplosioni; un bambino che non sa cosa sia la guerra si renderà conto di trovarsi innanzi a qualcosa di più che un quadro, una finestra sulla storia. Il significato dell’opera è estremamente soggettivo e sfugge dalle mani dell’autore il cui ruolo diventa secondario. Guernica non è famoso perché dipinto da Picasso, ma perché rappresenta la sofferenza dell’uomo per mano dell’uomo.
L’arte è quel mondo in cui immagini uniche prendono possesso di vite diverse attraverso gli occhi di chi osserva, creando un equilibrio sublime tra il dinamismo della vita e l’immobilità dell’eterno.
Odio chi si prende troppo sul serio, è tutto molto più semplice di come a volte possa apparire.
Un quadro è mio fin quando non esiste, mentre mi viene l’idea, mentre lo sogno, mentre mi sforzo di fare altro e invece penso a lui. La parte migliore del mio processo creativo, quella che mi fa sentire bene, è tutta quella precedente al primo tocco del pennello sulla tela. Solitamente parto da una fotografia, di solito mia (la mia prima vera passione), e deliberatamente evito una tecnica meramente riproduttiva perché non voglio riportare sulla tela l’immagine ma rappresentare quello che essa mi trasmette, mettendoci dentro i ricordi di quando ho eseguito lo scatto, le chiacchere fatte e le sensazioni che mi ha trasmesso la persona ritratta o i rumori del posto che ho immortalato.
Vivo alcune manie da cui non riesco (o non voglio) staccarmi. Le committenze mi risultano difficoltose, non tanto per la realizzazione, quanto per la passione con cui mi trovo a eseguirle.
Ho avuto anche un momento, per così dire, astratto. Mi è servito molto per conoscere i materiali e per capire quanto sia importante avere un progetto da seguire, e anche quanto sia bello e potente il trasgredire le proprie linee guida (autoimposte) in nome di una libertà espressiva vera che può scaturire solo dal tradimento di un progetto in cui si credeva. Tanto più l’idea di partenza è forte e accettata tanto più sarà gratificante il deluderla per ottenere un risultato che sarà quello cui miravi senza essere prima in grado di comprenderlo.
So di fare cose che nell’ambito pittorico non sono ritenute consone, non potrei mai insegnare a qualcuno, ho degli equilibri molto precari e adoro pregustare l’atto, quindi amo ritardare il momento del dipingere quando potrei già farlo. Il dedicarmi a un quadro non dipende dalla disponibilità di tempo, non lo faccio quando posso ma quando devo. Detesto avere gente che mi gira intorno, credo mi sarebbe difficile dipingere en plein air. Tutto questo è legato, secondo me, al processo creativo: questo mio modo di essere non riguarda i momenti “normali”, sono una persona socievole, mi piace condividere le mie esperienze e raccontarmi. L’atto creativo mi trasforma, mi rende instabile quasi come se dipingere un quadro mi togliesse tranquillità, mi rendesse nervoso. Ed è così! Dal momento in cui scaturisce il primo abbozzo d’idea all’ultimo tocco di pennello, quella che sta nascendo è una sorta di estensione del mio essere e come tale vive sensazioni proprie: non saprei dire se siano sensazioni positive o meno, so solo che sono molto intense e scostate dal resto del mio quotidiano.
Se penso al mio futuro non so fare previsioni, ho molte idee, progetti, speranze e paure, ma la pittura resterà elemento fondamentale per la mia salute mentale e per quel disequilibrio rigenerante e creativo che solo essa sa donare.