Alessandro D'Ercole

Qualche volta la materia, quando viene elaborata o modificata permette ad un artista, o ad un artigiano artista –nel momento in cui comincia a far emergere dal suo intimo risposte a domande che ha lasciato dormire da sempre,- di ritrovare, attraverso questa nuova manipolazione sapiente della materia e l’uso delle mani, un suo spazio esclusivo, che per un verso è memoria del passato, per altro è visone di un possibile futuro: attraverso questo ritrarsi dal mondo, chiudendosi in un proprio immaginifico spazio, ogni operato dell’arte vince un proprio esclusivo complesso di inferiorità, che, come direbbe “Claus” riferendosi a Dubuffet, viene superato soltanto quando si riesce ad idealizzare in una immagine o in una composizione materica una propria intuizione originaria.

Già al tempo dei cubisti, fino a Klee, e per certi versi fino a Ettore Colla, la pittura su supporto si è avvicinata sempre di più al rilievo, soprattutto per rendere più forte, quasi fino a saldare, il rapporto dialogico con la natura che ogni artista intrattiene; questo risultato viene cercato e raggiunto da Vincenzo Di Piazza cercando preliminarmente un campo di azione dove il colore, aggregandosi al resto della composizione in modo materico, mostra in quasi tutte le opere una patina di fondo tesa a rappresentare appunto questo campo di azione sul quale va ad inserirsi (incontrandosi o scontrandosi come se fosse campo di battaglia) il suo materiale al momento più sentito ed empaticamente desiderato perché in totale sintonia col suo vissuto e con il suo campo di azione: ovvero il bullone.

Nelle opere del Di Piazza vi è da una parte il superamento del figurato e del figurativo, dall’altra la cerca di un punto centrale di fuga, un suono, una energia dai quali le linee compositive, più o meno visibili, si dipartono per cercare verso l’esterno della composizione, oltre i bordi della tela o del supporto, nuove possibili architetture o sistemi: in essi ogni fantasia o progetto ulteriore possono rafforzarsi ed emergere.

Filiberto Menna, e lo stesso Clauss, le definirebbero topografie di una produzione di opere anche grafiche e materiche che vogliono superare la figura, ma che nel loro materico informale pretendono di trovare una tessitura ed una visione scandita ed ordinata, centrifuga eppure volutamente simmetrica.

Formale e informale si riuniscono superando ogni dualismo ed ogni conflitto di sistema pittorico, che è una costante della contemporaneità.

Il medesimo respiro di grandi spazi…” avrebbe detto Dubuffet… “si leva da un piccolo paesaggio…” Noi possiamo dire parlando di Vincenzo che dal bullone fondante la sua estetica, si sviluppa un orizzonte dove l’insieme si ricompone e si amalgama. Ecco il vero “io” profondo dell’artista artigiano pistoiese. In ogni opera Vincenzo cerca con caparbia volontà l’unificazione dei materiali con i quali ha stabilito un rapporto di mutuo scambio: ferro, bulloni, pietre, schiume, cementi, velature di colori spray, ed al centro di tutto il silicone trasparente ed incolore, del quale si dirà poi. Quel silicone rappresenta in molte opere il minimo comune denominatore e l’accentratore, al massimo grado, dell’insieme compositivo.

Ecco che torna la società del lavoro, il mondo del confronto, dello stato in società. È il momento di restituire con l’arte che nasce dalla solitudine totale, quel che si è ricevuto dalla società del lavoro: e così le si regalano nuove architetture, assemblaggi possibili in paesaggi impossibili.

Sappiamo che la tessitura, la struttura di un quadro rivela le pulsioni più profonde dell’anima: ciò si disvela nelle opere di Vincenzo, e torna prepotente quel suo bisogno di ordine, questa necessità di organizzazione, dove materiali più disparati si fondono e vengono tenuti insieme o piuttosto trattenuti con forza da collanti e fusioni di colore. Più che velature e sovrapposizioni sono proprio fusioni di colore, antagoniste ed opposte alle delicate velature che il suo giovane nipote Walter utilizza per descrivere i sogni. Vincenzo vive opera e si immedesima nella materia; E LO FA PARTENDO DALLA STESSA COLORAZIONE DEL SUPPORTO, che spesso appare uniforme senza esserlo, poiché il colore si addensa sul colore anche quando è sfumato, virando in mille diversi riflessi, su una sola tonalità di base, volendo mantenere una sorta di uniformità e coerenza timbrica; poi l’insieme aumenta in un crescendo costante attraverso l’aggiunta di materiali sempre più consistenti e rigidi…tirafondi, bulloni, dadi, rondelle, puntine, stucchi, che rimandano all’arte ed al lavoro di un Ettore Colla o di un Brancusi; il tutto è tenuto insieme dal silicone; questo materiale è ciò che più si utilizza per ogni forma di costruzione moderna o di assemblaggio, e sembra rappresentare per Vincenzo quella forza che costituisce per la materia il motivo aggregante, simile a ciò che per gli uomini è la pulsione al loro vivere in comune… motivazione necessaria del loro stare insieme: …l’amore.

Come immaginereste l’amore se non come un forte adesivo, aggregante e … di un colore- non colore bianco e quasi trasparente? L’amore ha un aspetto pressoché invisibile, ma ha una potenza illimitata; unisce e lega ogni materiale, il forte ed il debole, il grande e il piccolo, il pesante ed il leggero. È la forza che tiene insieme la composizione, ed è scarsamente visibile, come i sentimenti, che guidano l’umanità, come il pensiero, che non si può vedere ma che ha il potere di creare il mondo e modificare la realtà.

A ben pensare quel che vale davvero è sempre più rarefatto e poco visibile, eppure sta alla base di ogni forma creativa, e domina la materia, tenendo insieme i suoi elementi costitutivi. È un fuoco, un sacro furore, o almeno così lo avrebbe definito Giordano Bruno. Ebbene ogni artista della famiglia Di Piazza, e sono ben tre, ha in sé questo fuoco: e Vincenzo è parte di un gruppo che può ben definirsi una nuova bottega dell’arte, una realtà particolare nel mondo dell’arte plastica.

Dicevamo quindi che ben tre artisti portano questo nome nel panorama artistico tosco-pistoiese: e tra i tre, Paolo, Vincenzo e Walter, Vincenzo è quello che nella sua espressione artistica resta attaccato alla domanda fondamentale di quale sia l’anello più consistente della catena che unisce l’arte all’artigianato, rispondendo con le sue opere all’enigma su cosa rappresenti per lui la pittura. Si può dire che nel caso di Vincenzo essa è una macchina che diffonde la sua filosofia e disvela la sua indagine del profondo, consentendogli di elaborare delle risposte possibili alle solite domande -chi siamo e dove andiamo-. Perché l’arte plastica e pittorica è più rapida della scrittura, e traduce in modo diretto i moti dello spirito e le alterazioni della coscienza, fissandoli e fotografandoli nello stesso istante in cui nascono. Per questo la pittura è più immediata rispetto alla scrittura. Troppa coscienza e ragione falsano i normali meccanismi del vedere; ogni artista deve evitare quando opera gli eccessi di coscienza, se vuole salvaguardare il bacino di utenza dell’immaginario del quale trae le sue visioni. Esso racchiude delle vene aurifere di immenso valore; ma che sono fissate nella roccia, nella materia pesante e inarrivabile che giace nel nostro profondo. Vincenzo e tutti coloro che fanno scelte ed operano nell’arte in solitudine sono niente altro che cercatori d’oro che possono trovare valori inestimabili nella miniera che si nasconde dentro di loro. E lo fanno cercando cose povere, quei minima minimalia che il mondo aborrisce: cose gregarie, che nascono proprio per avere un carattere di sussidiarietà. Di Piazza si compiace di usarle, mostrarle e fondarle insieme.

E quelle cose, che nella vita reale ci dimentichiamo di osservare, acquistano attraverso questa attenzione una loro nuova dignità. Vincenzo le celebra nel loro rinnovato valore, e noi le celebriamo con lui, per servire le cose che ci servono e per apprezzare ciò che ci facilita il vivere, rivedendo e mettendo a nudo la nostra idea del bello, che talvolta è falsa o superata dai tempi. Bello è ciò che usiamo di più; e ciò che usiamo e ci facilita l’esistenza ha sicuramente più titolo delle cose vane, e delle inutili vanitas che ci circondano, ed appartenere a quanto può rappresentare nell’arte il nostro tempo e noi stessi. Vincenzo Di Piazza ha capito questa grande verità, e la mostra con orgoglio.