Andrea Sala
Vincenzo “l’americano”
Legno, piombo, vetro, neon. Si fa con tutto. Stoffa, argilla, plastica, catrame.
Per vocazione, per mestiere, per necessità. Ogni scusa è buona per fare arte. Per noia, per imitazione, per soddisfazione personale.
Quanti mezzi, quante forme, quante possibilità.
Tutta colpa di un francese, come spesso capita quando si parla di vicende dell’animo umano, se oggi siamo sommersi da centinaia di linguaggi artistici. Stanco di utilizzare ancora colori ad olio e pennello, nel 1912 Georges Braque pensò bene di incollare un ritaglio di giornale su di una tela: era il primo collage della storia dell’arte. Dato il via, le cose degenerarono in fretta.
Non passò molto tempo prima che un altro francese, Marcel Duchamp, arrivasse a fare di un orinatoio una fontana e del cerchione di una bicicletta una scultura. Per quanto se ne intendano di rivoluzioni, rimane un mistero cos’abbiano i francesi nel sangue per sovvertire ogni ordine e ogni tradizione in maniera sempre così radicale.
Una risposta a questo è riuscita a darcela proprio un altro transalpino, stavolta scrittore, con le sue parole graffianti come note di violino per la loro esattezza. Scrive Ferdinand Céline, in Viaggio al termine della notte, riferendosi ai suoi connazionali:
“Noialtri abbiamo l’abitudine di dire il sentimento più grosso di quel che è in realtà”
Se è vero che a ogni lingua corrisponde un modo diverso di intendere e di guardare il mondo, allora non esiste osservazione più appropriata per il parlar francese. Quale modo più ampolloso, enfatico, inutilmente teatrale del francese per parlare di idee e sensazioni?
Analogamente che per la lingua, questa riflessione vale a maggior ragione per qualsiasi altra forma espressiva e linguaggio artistico di quel luogo.
Continua poi lo scrittore nel suo romanzo:
“Con gli americani è il contrario, anche se non osano capirlo, ammetterlo”
Touchè.
Vincenzo e la sua arte sono molto americani, in questo senso. Lui è uno di quegli artisti che preferiscono lasciar parlare le proprie opere al posto loro. La retorica delle parole, nei titoli e nella presentazione dei suoi lavori, è del tutto superflua e inadatta per cercare di dare un’interpretazione formale alla sua creatività. E’ un po’ come cercare di catturare le farfalle con una canna da pesca invece che col retino: allo stesso modo i discorsi altisonanti non rappresentano lo strumento adatto per parlare dei suoi assemblaggi, e nemmeno un silenzio contemplativo e quasi religioso rappresenta l’approccio ideale alla sua arte. I primi, perché la schiettezza di queste opere non ha bisogno di veicoli troppo complessi per arrivare intatta, nelle forme e nel significato, ai nostri occhi; il secondo perché creerebbe e accentuerebbe una distanza tra noi e loro che non ha senso di esistere.
Dico ciò perché l’arte di Vincenzo si compone di elementi tanto freddi e distaccati per loro natura, quanto palpitanti e inaspettatamente umani e comunicativi una volta modellati e assemblati. Questo piccolo prodigio è straordinario tanto quanto la creazione di una nuova lingua, dove il lessico di base è la conoscenza attenta dei materiali usati, la morfologia il senso estetico.
Il filo logico conduttore della sintassi, nonché la linfa vitale di tutte le sue creazioni, è invece la sua indole di attento e critico osservatore della contemporaneità. Una indagine visiva del quotidiano, niente di più, è sufficiente a gettare le basi per la costruzione di un immaginario artistico che affonda le sue radici in quei materiali che del presente rappresentano, fisicamente, i “pilastri” portanti.
Questi assemblaggi, descrivendo fedelmente il nostro tempo, raccontano in maniera inevitabile di ciascuno di noi. Sono opere universali e trasversali, che racchiudono un frammento dell’esistenza di ogni persona per il semplice motivo che si compongono di quegli stessi elementi che costituiscono, su scala globale, qualsiasi realtà urbana globalizzata.
Rimane da capire quale differenza ci sia tra gli assemblaggi di Vincenzo e i semplici materiali presi nella loro natura industriale. Per rispondere è necessario però prima interrogarsi su un’altra questione.
L’arte è una cosa inutile (ma non troppo)
Non è facile capire perché ancora oggi si faccia arte. Siamo onesti: in fin dei conti l’arte è cosa inutile. Sappiamo tutti che potremmo andare avanti facendone tranquillamente a meno. Non la usiamo per curarci, non ci serve per muoverci, non la si può mangiare, non la possiamo nemmeno indossare. E sono allo stesso modo creazioni superflue la letteratura, la musica, la danza. Musae non dant panem, lo sapevano anche i latini che di sole arti neppure si sopravvive. Perché allora continuiamo a interessarcene, perché ci ostiniamo ad aver bisogno di loro?
Volendo tralasciare per un attimo tutte le valenze simboliche, ascetiche e ideali che si potrebbero attribuire a queste manifestazioni dello spirito umano, si deve render loro conto di un innegabile merito: quello di testimoniare e spiegare, con efficacia e con originalità (anche se non sempre in maniera chiara e comprensibile), tutte le sfumature del loro presente.
L’arte di Vincenzo in fin dei conti non si allontana poi così tanto da questa posizione. Quasi affatto, direi. Come già detto, i suoi assemblaggi si compongono di ciò che costituisce la nostra quotidianità: vetri, metalli, legni, plastiche. Ne sono uno specchio fedele sotto la bella veste di opera d’arte.
La trasformazione di queste materie prime, in fin dei conti, altro non è che una rielaborazione di ciò che già il mondo ci fa vedere ogni giorno, ma in una forma diversa che la nostra mente non riesce a percepire immediatamente. Quando perciò ci troviamo di fronte a uno di questi lavori abbiamo la chiara sensazione di riconoscere ciò che già conosciamo, anche se non sempre siamo in grado di creare un collegamento immediato con la nostra esperienza. E’ solamente una questione di attimi prima che il nostro cervello cominci a scomporre l’assemblaggio e ad attribuire a ciascun elemento la propria valenza. A cosa ci porta tutto ciò?
Guardar fuori, guardar dentro
Notoriamente gli artisti sono persone che prestano un’attenzione diversa dagli altri al mondo in cui sono immersi: con un occhio guardano fuori, con l’altro osservano dentro se stessi. Il principio è un po’ quello cui inneggiava lo psicologo Carl Jung (seppur riferendosi a tutt’altra disciplina): “Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia”.
E’ ormai chiaro come le opere di Vincenzo traggano origine da quei materiali, umili e largamente diffusi, che sono le “fondamenta” del nostro tempo. Quello di cui però non si è ancora parlato è che cosa comporti il processo di trasformazione e assemblaggio.
L’impulso artistico di Vince ha anzitutto una finalità estetica. Fedele al mantra per eccellenza dell’arte, ossia che fare arte significhi prima di tutto creare cose belle, il suo intento primario è quello di ottenere un risultato che sia gradevole agli occhi dell’osservatore.
I materiali che lui utilizza sono prodotti dell’industria, grezzi e antiestetici per loro natura. Il primo passo della creazione artistica consiste quindi nel privare questi elementi della loro origine industriale e della loro valenza edile, per trasferirli in una sfera diversa da quella per cui sono stati creati. Soltanto dopo aver fatto ciò può avere inizio la ricerca di un assemblaggio che soddisfi le esigenze di armonia visiva.
Dato questo proposito, si può quindi asserire che nelle opere di Vincenzo la forma preceda l’idea.
Dietro l’ostinatezza di questa ricerca estetica, si nasconde però un sottobosco di significati e di scopi ulteriori della sua arte. Se quindi per certi versi si può pur affermare che l’arte di Vincenzo coincida essenzialmente con la sua forma, dall’altro bisogna essere cauti nel conferire tanta leggerezza apparente alle sue creazioni. Anche perché di leggero, qui, non c’è un bel niente.
Amo definire l’arte di Vincenzo come una ars gravis. Non tanto perché il latino sia un inutile sfoggio di bravura dello scrittore o perché serva a nobilitare un concetto, quanto piuttosto perché questa locuzione rappresenta una sintesi estremamente puntuale del lavoro dell’artista pistoiese.
Gravis racchiude in sé da un lato la pesantezza materica degli assemblaggi, dall’altro la greve sfida di riassumere in un’opera d’arte un frammento del mondo e della vita di ciascuno di noi.
Qualcuno potrà ipotizzare che le opere di Vincenzo ci invitino a riflettere sulla gravità delle cose, come il tempo e gli affetti; qualcun altro dirà che rispecchino l’aridità d’animo dell’uomo moderno; altri ancora che siano una critica al mondo industrializzato e urbanizzato. Tutto è vero, tutto è falso.
Non è possibile attribuire a queste creazioni (come del resto a nessun lavoro artistico) una interpretazione univoca che escluda tutte le altre. Di contro, non perderà mai di validità la seguente affermazione:
ogni epoca ha la sua bellezza, e noi abbiamo il dovere di comprenderla.