Luigi Masala

NOVITA’ E TRADIZIONE NELL’OPERA DI VINCE. VITALITA’ E CONTROLLO NELLE SUE ISTANZE DI LIBERTA’

Esistono dei casi nel variegato mondo delle arti figurative che inducono ad una singolare riflessione per l’originalità e il merito in cui riescono ad imporsi all’attenzione di una non distratta sensibilità verso i destini di ciò che contribuisce a definire un certo concetto di valore nei controversi e non poco dibattuti linguaggi dell’arte contemporanea. Ad iniziare proprio da questa definizione che, proprio perché permette di concentrare una fin troppo densa e poco chiara area di inclusione verso un qualcosa che ormai, traguardando trent’anni e oltre un tempo non ancora definitivamente storicizzato, fa della sua ambiguità il suo momento di forza, pur celando forse, per un’altrettanta propensione all’equivoco, il suo momento di debolezza. Perché se è del tutto evidente pensare alla contemporaneità in arte come ad un referente significatamente improntato ad una sostanza di libertà spacciata come istanza anticonformistica in virtù della esaltazione di quel sovra stimato valore che è la spontaneità espressiva, forse sarebbe meglio soffermarci su quelli che un tempo nella cultura francese delle arti figurative venivano chiamati i “valeurs”, gli elementi di sostanza e di spessore intorno ai quali si definisce un’opera d’arte in quanto tale, un qualcosa che attiene ad un momento creativo di per se significante il raggiungimento di un qualche livello di qualità indiscutibile, che sia in grado di imporsi, di per se, autonomamente senza bisogno di apparati, sovrastrutture ideologiche preordinate a veicolarne le alterne fortune. Cosicché, tanto per indurci brevemente ad una considerazione che di riflesso viene spontanea, sarebbe bene, per le stesse ragioni, ripensare il concetto stesso di originalità dell’opera d’arte contemporanea, recuperando il tempo e il valore del giudizio intorno alla resa qualitativa dei risultati, resa che dovrebbe indurci a rivalutare, così come in un certo senso è stato fatto almeno fino agli anni ’50 del XX secolo, il peso della qualità intorno ad un panorama artistico che da quegli in poi è stato, come dire, centrifugato, fagocitato in quella che potremo definire “la tradizione del moderno”, la sovrastimata affermazione di fattori estranianti, dissociativi del rapporto uomo natura – almeno nelle accezioni terminologiche del nostro tempo - , quali sono stati l’azzeramento figurale, un certo minimalismo, l’invasione del portato sociologico dei comportamenti massivi nell’arte.

Pericolo questo, come vorrà dimostrare questo catalogo, paventato e in larga parte evitato da Vince, esempio abbastanza raro di come si possa cercare una propria strada nel non facile e insidioso panorama dei linguaggi artistici, privilegiando, è il caso di dire, una ricerca di equilibrio che sappia far emergere, assieme al valore delle concezioni costruttivistiche e artigianali delle sue opere, la qualità di una raffinatezza in divenire del tutto controllata entro la natura stessa dei materiali da costruzione. Dato questo ancor più incredibile, più di quanto non sembri apparire, se si pensa al suo percorso iniziato solo apparentemente quattro o cinque anni fa, come lui stesso ci ha rivelato, così da farmi privilegiare in quest’avverbio tutto un condensato di considerazioni che andrebbero sviluppate oltre i limiti di questa presentazione, ma che non mi impediscono di considerare il suo lavoro alla stregua di una meditazione solitaria, intimamente maturata dopo anni ed anni di esperienza lavorativa intorno a quei materiali che solo “apparentemente”, appunto, viene voglia di ribadire, sono entrati da poco tempo in empatia con il suo fare artistico, tanto li aveva da tempo interiorizzati, scoperti nelle loro potenzialità, al di là dei loro limiti funzionali, così da misurarne giorno per giorno, in un periodo non certo limitato ai suoi quattro/ cinque anni di percorso artistico, le vocazioni espressive guidandone con la sagacia del suo sguardo interiore, i possibili apparentamenti con il colore, con le proporzioni, con gli assemblaggi meta figurativi, meta formali. Il risultato che se ne ha, così bene testimoniato in questo primo catalogo della sua opera, credo possa ricollegarsi a quanto venivamo considerando all’inizio di questa presentazione: la volontà e l’impegno di un nuovo protagonista nelle arti figurative pistoiesi capace di smuovere monadi, certezze, convenzioni più o meno omologanti su cosa si debba definire arte nel nostro tempo, rivendicando questo sì, a suo merito, un’istanza di libertà e di concretezza qualitativa che debba far comprendere come un’opera d’arte, per dirsi vera e autentica, non debba illudersi di affidarsi unicamente alle gabbie dell’originalità conformante, ma che debba, altresì, guardare, così come Vince sembra aver compreso, a quel dialogo ininterrotto con quell’orizzonte di qualità inteso come tensione vivificante, didattica operativa di un lavoro che sappia considerare la storia dell’arte come unicum inconcluso, non di converso segmentato, circoscritto da quella sorta di infedeltà costrittiva rappresentata da una certa idea di avanguardia spesso concepita per generare al suo interno tensioni, un certo propendere verso una qualche forma di accademismo mascherato, quale quello in cui purtroppo viviamo, regno incontrastato di ectoplasmi quali il gigantismo delle opere, l’insistita contrapposizione tra significato e significante portata all’esasperazione di un nichilismo capace solo di confondere i mezzi con il risultato.