Prof. Pasquale Matrone
La robustezza e la plasticità delle figure sono, ad una prima e sommaria indagine, le note dominanti della pittura di Vincenzo Empireo; ma, al di là di esse, esistono e si manifestano, con insolita efficacia, elementi di ben altro spessore che, nell'insieme, forma un universo complesso e problematico la cui esplorazione va fatta per gradi, e, soprattutto, evitando di cadere nell'errore di voler ricercare, ad ogni costo, i punti di riferimento artistici ben precisi, o un qualsivoglia tipo di etichetta, richiamandosi a questa o a quella corrente pittorica più o meno contemporanea.
Di un dato, in ogni modo, si può essere assolutamente certi: Vincenzo Empireo non è un improvvisatore. Dietro la sua pittura ci sono anni di studio e di ricerca, c'è una tecnica ben appresa attraverso un lavoro paziente e artigianale, c'è la padronanza piena del colore a cui egli affida la dolcezza quasi impalpabile di sentimenti profondamente umani e autentici.
In un sapientissimo gioco di luci e d'ombre, i personaggi se ne stanno inchiodati in un'esasperante staticità, a fissare orizzonti lontani e indefinibili, coi loro corpi che sembrano scolpiti più che dipinti: tozzi, muscolosi, michelangioleschi, misteriosi. Tutti i volti si somigliano; sono, anzi, un solo volto, tragico, forte, rassegnato.
In esso è racchiuso il male di vivere, la durezza dell'umana condizione, l'ineluttabilità del destino, l'inesorabile e spietato scorrere di un tempo scandito dalla solitudine e dalla totale incomunicabilità.
Il pittore, pur essendo tormentato da una profonda ansia metafisica e da una visione dolorosa della vita, riesce sempre ad esprimersi con virile impertubabilità: non ama, infatti, mettere completamente a nudo la sua sofferenza: una sorta di strano e delicato pudore lo frena al momento giusto e rende il suo linguaggio addirittura rasserenante, quasi a voler significare che, alle innumerevoli e spietate ingiurie della storia, ogni essere vivente ha la possibilità di opporre la forza smisurata della propria volontà di non arrendersi e di non soccombere mai.
Nei quadri di Vincenzo Empireo ogni cosa ha la sua ragione di essere: le donne in fila alla fontana, gli emigranti, gli uomini che lavorano con lo scalpello e il martello, la madre col figlio tra le braccia, la donna allo specchio, i ragazzi che si arrampicano sul muro a rubare la frutta o che pongono barchette di carta in luridi rigagnoli d'acqua piovana sono brandelli del suo passato, che continuamente riemerge dai luoghi lontani della memoria per porsi finalmente sulla tela, in una dimensione, però, che certamente supera ogni angusto limite spazio-temporale, per trasformarsi in una vera e propria categoria dello spirito.
Vincenzo Empireo non ama parlare; è schivo, timido: forse le parole non gli bastano a raccontarsi, a narrare la sua storia, ad elencare i suoi sogni, ad esprimere con chiarezza a se stesso e agli altri la sua voglia sconfinata di mettersi in contatto con la gente. Ha paura di non essere capito. Teme di essere frainteso. Gli artisti, quelli autentici, sono fatti proprio così. Sanno descriverci, in maniera mirabile, l'Universale, ma non ne hanno la consapevolezza. Ed è questa la loro dannazione o, forse, il loro straordinario ed ineffabile privilegio.
Di un dato, in ogni modo, si può essere assolutamente certi: Vincenzo Empireo non è un improvvisatore. Dietro la sua pittura ci sono anni di studio e di ricerca, c'è una tecnica ben appresa attraverso un lavoro paziente e artigianale, c'è la padronanza piena del colore a cui egli affida la dolcezza quasi impalpabile di sentimenti profondamente umani e autentici.
In un sapientissimo gioco di luci e d'ombre, i personaggi se ne stanno inchiodati in un'esasperante staticità, a fissare orizzonti lontani e indefinibili, coi loro corpi che sembrano scolpiti più che dipinti: tozzi, muscolosi, michelangioleschi, misteriosi. Tutti i volti si somigliano; sono, anzi, un solo volto, tragico, forte, rassegnato.
In esso è racchiuso il male di vivere, la durezza dell'umana condizione, l'ineluttabilità del destino, l'inesorabile e spietato scorrere di un tempo scandito dalla solitudine e dalla totale incomunicabilità.
Il pittore, pur essendo tormentato da una profonda ansia metafisica e da una visione dolorosa della vita, riesce sempre ad esprimersi con virile impertubabilità: non ama, infatti, mettere completamente a nudo la sua sofferenza: una sorta di strano e delicato pudore lo frena al momento giusto e rende il suo linguaggio addirittura rasserenante, quasi a voler significare che, alle innumerevoli e spietate ingiurie della storia, ogni essere vivente ha la possibilità di opporre la forza smisurata della propria volontà di non arrendersi e di non soccombere mai.
Nei quadri di Vincenzo Empireo ogni cosa ha la sua ragione di essere: le donne in fila alla fontana, gli emigranti, gli uomini che lavorano con lo scalpello e il martello, la madre col figlio tra le braccia, la donna allo specchio, i ragazzi che si arrampicano sul muro a rubare la frutta o che pongono barchette di carta in luridi rigagnoli d'acqua piovana sono brandelli del suo passato, che continuamente riemerge dai luoghi lontani della memoria per porsi finalmente sulla tela, in una dimensione, però, che certamente supera ogni angusto limite spazio-temporale, per trasformarsi in una vera e propria categoria dello spirito.
Vincenzo Empireo non ama parlare; è schivo, timido: forse le parole non gli bastano a raccontarsi, a narrare la sua storia, ad elencare i suoi sogni, ad esprimere con chiarezza a se stesso e agli altri la sua voglia sconfinata di mettersi in contatto con la gente. Ha paura di non essere capito. Teme di essere frainteso. Gli artisti, quelli autentici, sono fatti proprio così. Sanno descriverci, in maniera mirabile, l'Universale, ma non ne hanno la consapevolezza. Ed è questa la loro dannazione o, forse, il loro straordinario ed ineffabile privilegio.