Vittorio Sgarbi
Una delle critiche più ricorrenti rivolte alla pittura non figurativa del Novecento - l'Avanguardia, come è noto, è stata anche figurazione, e non certo irrilevante - è quella di non avere fondato linguaggi di larghissima diffusione presso quella sterminata massa di pittori che produttivamente costituisce la grande base della piramide dell'arte. È una critica non immotivata, anche perché la pretesa di pervenire all'esito opposto è esistita. Se oggi la maggior parte degli artisti "di base" continua a essere figurativa, qualcosa ha fallito, e non è certo imputabile a chi di certe novità espressive avrebbe dovuto essere il primo beneficiario. Ma esistono anche artisti proprio come i non figurativi del Novecento avrebbero auspicato. Claudio Rossetti è uno di questi. Maneggia l'astrattismo informale con la naturalezza con cui altri dipingono nature morte o marine assolate, quasi fosse un linguaggio imparato e praticato dai tempi dei banchi di scuola. Non ci si dovrebbe sorprendere: a pensarci bene, è più naturale un modo di esprimersi come il suo, privo di una referenza precisa al di fuori della pura creatività, di uno che si proponga di raffigurare il mondo in tutta la sua complessità. Rossetti conosce bene i bambini, con cui ha imbastito percorsi didattici di estremo interesse, volti anche al recupero dei più problematici. Ebbene, da bambini, quando abbiamo cominciato a fare i nostri primi scarabocchi, tutti siamo stati astrattisti informali. Poi qualcuno ci ha detto che si doveva fare in una certa maniera, e allora anche noi abbiamo iniziato a rappresentare l'apparenza del mondo. Nella storia dell'arte, invece, il cammino sembra invertito: prima, quando ambiva a vivere secondo natura, l'uomo ha cercato di riprodurla come mimésis, imitazione; poi, quando la cultura ha preso il sopravvento, determinando nell'arte un forte processo di intellettualizzazione, l'uomo ha provato a dimenticare la mimésis, giunta nel frattempo, con la scoperta della prospettiva scientifica, a livelli di estrema sofisticatezza, per recuperare espressivamente la verginità infantile, giungendo al punto di far dichiarare al maestro più noto e rappresentativo del Novecento, Picasso, che il suo massimo obbiettivo era di riuscire a dipingere come un bambino. È per questo che ci siamo abituati a considerare una pittura "bambinesca" come quella di Rossetti frutto di un'acquisizione intellettuale, al contrario di chi dipinge frutta e marine più o meno come si faceva prima di Picasso. Ma Rossetti ci chiarisce le idee una volta per tutte: se in lui c'è intellettualismo, è tutto ridotto alla conoscenza di quello altrui, appunto l'astrattismo informale sviluppatosi nel secolo scorso, del quale si sono fatti propri tecniche e metodi, dal tachisme a tocchi regolari alla virulenza materica dell'espressionismo astratto, nella sacra combinazione fra gesto e segno, dal gusto per il pattern, la composizione organizzata secondo uno schema regolare, a quello per la texture, l'ordito ottenuto attraverso la ripetizione di uno stesso modulo. A tutta questa grammatica, applicata con diligenza kandinskijana nel sostenere l'analogia lirica fra pittura e partitura musicale, ma anche con il piacere di prendersi, di tanto in tanto, licenze inattese alla regola, Claudio Rossetti aggiunge un contenuto di particolare spessore, non connesso scontatamente all'astrattismo informale, ritenuto spesso laico, se non agnostico: la religione. Ogni opera di Rossetti è un cantico biblico, una laude francescana in cui sorella luce e fratello colore concorrono a meglio onorare la maggior gloria di Dio. Eccola un'altra scoperta di Rossetti, l'astrattismo come rappresentazione dell'irrappresentabile, emanazione diretta dello spirito nel suo anelito all'assoluto divino. L'avessero capito anche i preti, le chiese moderne sarebbero piene di informale, invece che di tanta mediocre figurazione. Favorendo in maniera decisiva la sua affermazione come linguaggio artistico dei più, non di pochi.