D.ssa Marisa vescovo
Percorsi di viaggio
Marisa Vescovo
I lavori pittorici di Fabio Milani ci mostrano sottovoce un'aura che brilla non su un oggetto bensì su un "segno", quasi sempre corposo, lanciato su uno sfondo "infinito", così da conquistare la consistenza di cosa, un fatto che ci rivela quel segno come frammento di linguaggio, ma anche come frammento di realtà immaginata, che la materia fluida, o in arioso rilievo, muta in energia cromatica e luministica. Una materia che oscillando tra il proprio peso e il proprio impulso di velocità, cerca l'incontro con l'Altrove.
Attraverso questo movimento del tracciare il gesto si apre , si arresta, si scinde, accoglie dentro a sé, e intorno a sé, un nucleo di vuoto inusitato, da leggere come nostalgia dell'origine e del mito.
Il mito è un'odissea che inizia col descrivere le cose di questo mondo, per dire poi come queste cose abbiano origine nell'aldilà, e quindi ci fanno solo ascoltare la risonanza dei vertiginosi e silenti spazi da cui provengono.
Le storie pittoriche narrate da Milani sono da intendere quale "racconto" aniconico, che appartiene anche a una dimensione di "oltremondo", esse azzardano fulminee l'abbordaggio di nuove forme,e di nuovi universi.
E' come se l'artista ci volesse donare speciali sensori per farci accedere ad uno spazio pluridimensionale, nel quale è possibile dilatare, deformare, le nostre percezioni, passare magari per un varco, scavato nella viscosità della materia, per raggiungere "l'immensa distesa del possibile": un'insperata opportunità a cui affidarci per uscire da quello spazio conosciuto e ingordo che su di noi hanno incurvato millenni.
Tutto questo si configura quindi come un discorso sull'esserci , non senza le sue contraddizioni, carico di dislivelli temporali e di punti di fuga, che ci conducono in quei territori dove si scoprono piste avventurose da attraversare.
L'insieme delle forme diventa l'unità dinamica di un grumo emotivo e concettuale in metamorfosi. Questi grovigli si segni e di macchie, che si annodano, si invaginano, e si sciolgono, ci fanno intravedere, in filigrana, la sinuosa danza a cui ci costringe la vita odierna, ma ci fanno anche rivivere l'antica vicenda cosmogonica.
Viene detta con leggerezza la lontana epopea del caos, che cerca nervosamente la forma e il suo mistero, in cui sono poste le radici della nostra coscienza. Qui voglio citare il quadro: "Arcadia #4" che ci fa vivere un mondo senza gravità, senza vita, sul quale non possiamo non proiettare il pensiero di un fantastico ammasso di scorie espulso dalla terra verso altri siti.
Quando guardiamo invece un quadro come: "Il console e la cortigiana", ritroviamo l'idea del movimento nella permanenza, la forma elicoidale della chiocciola (la memoria corre anche a Mario Merz) costituisce un simbolo universale della temporalità, della permanenza dell'essere attraverso le fluttuazioni del cambiamento, quindi dell'evoluzione della vita. Il colore oro, che troviamo in questo, e altri lavori, ci suggerisce stati di elevazione, di sacralità, e di luce spirituale, l'argento invece ci lega al movimento leggero, al suo brio freddo, al cangiante lume della luna, e rivitalizza l'idea del grigio, il blu invece conduce alla profondità dell'infinito, all'incontro con il trascendente.
Anche le forme guizzanti flessuose, serpentine, sottolineate dall'oro di un quadro come : "Battito Cardiaco" si infossano in profondità mutevoli che vanno dal viola, colore di vaghi mondi legati alla sensibilità estetica, carichi di attrazione e di seduzione, al rosso, cromia di energie deflagranti, dell'impulso vitale e dell'energia psichica. Queste curve ripetute ci parlano di un "continuum" del movimento, del vertiginoso rimescolio delle apparenze, l'apertura del possibile e dell'alterità da recepire.
Particolarmente interessanti sono soprattutto i lavori su carta ( carte sia a trame larghe e rilevate sia porose e grezze ) che evidenziano terre ( un humus materno per l'uomo, ma ora in fase di "perdita" ) , residui di continenti, in rapida metamorfosi, che affiorano da un tessuto liso e trasparente o più compatto e fangoso. Si tratta di "paesaggi-limite", che il disastro ambientale ci indica come possibilità reale di una terribile morte della natura, il che significa pure scomparsa della nostra stessa vita . Questi frammenti di forme aspre e inconcluse ci ricordano i resti di un naufragio materico, e ci offrono la sensazione di un "altrove" remoto nel tempo trascinato fino a noi per mezzo di invisibili correnti. Un paesaggio frammentato e desertificato , in dissoluzione, che si presenta allo spettatore in una malinconica prospettiva di definitivo allontanamento, dove però il silenzio vibra drammaticamente quale metafora di un nulla immaginabile.
L'artista, dal centro di questo fluire di complessità, cerca di immedesimarsi col divenire frammentario e centrifugo delle cose, si abbandona alla ricerca dello stato potenziale dell'arte come contenitore di conoscenza ed espressione di sapienza.