L. De Libero, Lettera all’avvocato Armando Riccardi, 1975.
Di una poesia così brusca e terribile è il Pinocchio di Gian Carlo Riccardi, […] la geniale “questione” che mantiene stretto col teatro sino a farne un motivo inesausto che scava in quell’inaccessibile “terra di nessuno” che resta tuttora l’uomo […]. Non credo di sbagliare se affermo che è il solo oggi che stenta e ricrei in tutte le sue dimensioni il valore obiettivo del “gesto” significante il perentorio e atonale orgasmo durante lo svolgimento delle azioni singolari e collettive che incarnano e incantano i protagonisti e con quel risultato che discrimina il mimo in una accezione del tutto inedita e senza cedere al balletto. Il suo Pinocchio finalmente ha smesso il ruolo del Mentore d’una agiografia educativa ovvero l’interprete d’un mito domestico, una volta per sempre si è scucito di dosso tutti quei rammendi della saggezza finale che lo arricciolavano nel testo letto alla svelta, e non si tratta di una facile dissacrazione, bensì di un silenzio finalmente scritto dall’autore non Collodi.