beppe costa

Giorgio De Cesario. “L’essere che (non) c’è.”

Leggendo con gli occhi del cuore – non certo del critico, quale io non sono e che, spesso, cuore non ha -  sono entrato in punta di piedi incontro alle opere di Giorgio De Cesario e ne ho ritrovata tutta quella forza antica di chi l’arte l’ama (come me) e la rispetta (come pochi).
Ho guardato più volte dentro ogni sua opera notando la cura (di certo interiore) che l’uomo poneva nel non essere altro che sé, l’interno del sé.
Tralasciando per il momento la descrizione formale che ne prevede (o indica) il come e il perché, De Cesario è consapevole che, per potere inventare ed essere diverso dagli artisti che ama, basta amarli (senza farli maestri o santi) e vedere con gli occhi propri gli stimoli, la forza che ogni autore amato ha trasferito nella sua vita, negli studi, nel lavoro e, soprattutto, nell’immaginazione.
Se ama i lunghi colli di Modigliani li fa propri, o le donne ferite di Klimt noi, che con gli occhi guardiamo, lo intuiamo e ne avvertiamo il sapore, l’odore, le linee, i colori. Così come per Mirò, Magritte, Mondrian e tanti altri ancora.
E, dunque, poiché in questo caso l’artista insegna ai giovani studenti, sa bene che l’arte va amata, fatta propria ma, assolutamente, non copiata.
Se aggiungiamo poi quel vivere quotidiano che la maggior parte di chi ha testa e cuore avverte, fatta di stupidari televisivi e di linguaggi d’arte, di  musica e poesia quasi seppelliti, ecco che, il detto prima con quanto si vuole aggiungere adesso: che ognuno proceda poi con la propria cultura ed emozioni.
L’evidenza, per il mio cuore che guarda, è la visione dell’essere umano che Giorgio De Cesario ci indica: figure pallide, apparentemente eguali, prive di espressioni (mentre i colori fanno da sfondo/mondo) a rappresentare  la solitudine dentro e fuori l’essere umano. Come dire: l’Essere e il nulla, ma di un essere che è sempre ‘fuori’ da un’altra parte, da altro di sé.
Così come scrive ed indica perfettamente Maria Cristina Maritati, che al fianco gli vive e gli è, (sembra la medesima cosa, ma, sapete bene che non lo è). Questa necessità “dell’uomo maschera”, infelice dell’essere identificato con l’’Uomo qualunque’, quando qualunque non è, ma che tanto vorrebbe ‘qualcuno’ e spende tutta la propria vita per andare altrove, per avere altro, per essere, non accontentandosi pressoché mai. E questo in parte  sarebbe corretto per ogni essere umano nell’intento però di migliorarsi : “Fatti non foste per viver come bruti”, cosa che invece sembra il traguardo per molti aiutati dallo sciocchezzaio televisivo e dal disastro che specie il nostro paese vive anche e soprattutto a scuola, dove arte e musica la si studia (si fa per dire) solo alla media, unico paese al mondo, quello che indicano come civilizzato.
Quando si tratta di donna il ‘guasto’ che produce alla sua psiche è ancora maggiore.
Mi ricorda anche se non con precisione i versi di Jesus Lopez Pacheco (poeta spagnolo non più edito nel nostro paese) che descrive più o meno così il desiderio di essere altrove:
“…due treni fermi ad opposti binari, dai finestrini ciascuno guarda i volti di chi va in direzione contraria, non volendo andare nella propria…”
Tema ripreso per tutta la vita da Fernando Pessoa  che in poesia fa una sorte di sintesi (dal mio punto di vista) rendendo più chiare tutta la filosofia e la psicologia d’ogni essere umano che si guarda, si vede, si cerca. Senza trovarsi.
E dunque appaiono anoressici ‘mentali’, corpi smussati, squadrati in posizioni e collocazioni assurde (surrealisti), o spezzati in cubi (Picasso, Carrà) ma, tutto con una scrittura assolutamente originale e coraggiosa dove, i volti in argilla escono come mostri (lo siamo) e non come extraterrestri come l’occhio che va di fretta può indicare.
L’isola che non c’è, l’opera che in qualche modo indica il distacco dell’uomo minuscolo dinnanzi all’universo, sebbene sembri di tutt’altro genere (e nello stile lo è), non fa che confermare la solitudine (in questo caso c’è un ‘numero primo’ che è seduto sulla luna) e il bisogno, necessità-dovere di volgere lo sguardo altrove e da lì ritrovarsi.
Molto più semplice nei secoli passati quando il rapporto con la natura non era fisicamente impossibile come lo è adesso.