Prof. Franco Cardini (storico)

Dal momento che si tratta di un artista ancora giovane – per quanto dotato ormai di una ricca produzione alle spalle – è evidentemente presto, e sarebbe comunque imprudente, attribuire a Giuseppe Castelli “modi”, “maniere”, “periodi”, col rischio d’inchiodarlo nel recinto di una qualche strategia qualificatrice e definitrice o di riferirlo a una “scuola”.

Certo, è un artista inquieto, che studia, che osserva, che indaga: che non si accontenta di “far vedere” o di “raccontare”, ma che vuole “dire”. In altri termini, un artista che si impegna per sviluppare un proprio linguaggio espressivo. È partito d’impeto, affidandosi alla spontaneità. Quel che c’era in principio erano l’occhio, i segni e i colori, magari l’illusione naturalistico-verista e l’attrazione per la pittura naïve, che a dir la verità – a parte alcuni grandi maestri – pochissimo ha in sé di totalmente spontaneo. Ben presto, hanno prevalso altre istanze: sino a una forte attrazione per un simbolismo tentato dall’astrattismo, magari fino ai limiti della pictura-poësis fatta di segno geometrizzante, con qualche eco dell’ art nouveau e di parole scritte, un genere che ha una vita e una preistoria lunghissime (fino dal medioevo) e che il futurismo ha saputo raccogliere, ridefinire e reinterpretare.

 E sono senza dubbio ispirati a suggestioni e modelli e di tipo futurista e cubista, seppur rivissuti alla luce di un geometrismo onirico e postmoderno, gli acrilici su tela riprodotti su questo catalogo. Sono opere che parlano il linguaggio d’una percezione visuale tradotta in termini di viaggio spazio-temporale. Come nel dipinto Il giardino sul retro dove alberi cubizzati – “strutture vegetazionali” si sarebbe tentati di definirli, come dicono gli architetti – si elevano, trasformandosi in nubi sideree anch’esse di forma cubica, verso un firmamento di stelle dorate e quadrate che ricorda l'orizzonte notturno d’una megalopoli dalle finestre che si vanno spegnendo (o buie che si vanno accendendo?). O come ne Il mare sul retro III e IV, dove le familiari onde, gli ovvii ombrelloni, le solite sedie, il cielo tirrenico al momento o quello notturno, appaiono minacciati dall’invasione acquea o aerea di nuvole – o, forse, improbabili astronavi – che insistentemente ricordano l’implacabile geometrismo delle forme viste attraverso i microscopi nucleari, quelli che rivelano la struttura profonda delle cose.

Ed eccoci al dunque: un timido insistente, quasi ossessivo “rifugiarsi nel retro delle cose” che si trasforma in un avventuroso viaggio alla ricerca del loro dentro, del loro significato intimo. Il “dietro” – la Rü̈ckfigur, come lo definirebbero i critici dotti con una parola amata dal romanticismo tedesco – come alibi, o meglio forse come occasione e strategia, per accedere all’intimo. Aggiramento come psicoanalitico descensus ad inferos: ch’è poi ricerca del Centro interiore. Un linguaggio arduo, impegnativo, difficile: ma rigoroso, che non si accontenta. Cercare non vuol dire necessariamente trovare, e non è per nulla detto che chi cerca trovi. Ma Giuseppe Castelli ha capito che chi non cerca non troverà mai.

Un’avventura espressiva, la sua, che vale la pena essere continuata.

 

Franco Cardini

Firenze, novembre 2011