Germano Beringheli
Grazia Savelli, pittrice e scultrice, ha assunto le lezioni di alcuni maestri della contemporaneità cogliendo dei loro suggerimenti, piuttosto che l’essenziale rigore della pittura o della scultura, i pro e i contro della rappresentazione iconica.
Tuttavia – reinvestendo la figurazione, nel corrente post-moderno, una sorta di riformulazione simbolica dell’esistenziale – ritengo quanto mai opportuna l’attenta considerazione dei suoi quadri al fine di cogliervi quello stesso statuto di dignità creativa e intellettuale che amplifica l’indagine estetica e psicologica, utile alla comprensione di un mondo di immagini silenziose e severe nonché, peraltro, di lucida eloquenza.
I toni bassi (prodotti da un bianco e nero gessoso e pressoché monocromo, fenomeno di derivazione orientale) – che lasciano intravedere, nella materia strutturale dei fondi, il tenue chiaro grigio roseo della luce – contribuiscono, forme primitive e valenze narrative, agli echi sensibili e alle conseguenti analogie poetiche, forse melanconiche, di avvenimenti interiorizzati, più evocati che raccontati, o di azioni che rivengono alla memoria.
Il filo conduttore dei suoi lavori pittorici focalizza, perciò, alcuni accadimenti noti e lo sguardo indagatore (il quale ricorda, detto per inciso, il “blow-up” di Antonioni) si sposta per sequenze verso il significato simbolico che ricalca l’esperienza emozionale e spirituale della realtà sino alle deformazioni incisive e drammaticamente riflessive degli Espressionisti (Pascin, per esempio, o Soutine o, persino, il Kubin, disegnatore ma anche scrittore attento a quei fantasmi che rivelano e confermano la realtà)
Proprio lo slancio espressionista – svariato e commisto, nei quadri della Savelli, anche alla densità materiale del ductus pittorico – rimanda a una tradizione figurativa che “mette in scena” il ritorno alla storia, anche a quella minima quotidiana e individuale che ci coinvolge, altrettanto complessa, quanto quella universale.
L’immagine ferma, quindi, il nucleo veritiero dell’essere e contorna, disegnata, i limiti consueti tra soggetto e oggetto (per esempio una bimba che gioca correndo) e l’estensione naturale del suo aspetto visivo.
Frequentemente, di una vicenda, risulta, nel dipinto, una figura o un’ombra calcinata dentro la ristretta banda dei bianchi, cromaticamente grave, proiettata in nero, su una improbabile strada o sull’ipotetica parete di una casa; un’apparizione di rilievo, segno significante singolarmente coinvolto anche da esiti achisti o informali fondati sull’accordo delle forme e sull’impasto dei colori, su ruvido e screpolato intonaco. Quello, il segno significante, ha, peraltro, sollecitazioni stilistiche colte, originate, tutte o quasi, dalla semplicità emotiva che fu di quei neo-figurativi che volsero in pittura, attorno agli anni ’50 del Novecento e per analogia, la cruda dimensione esistenziale dell’uomo.
Che è, poi, nei dipinti della Savelli, il motivo ricorrente con cui essa affida alla materia-colore e alla propria icasticità espressiva la necessità ontologica di trattare, nella rappresentazione e con forte carattere emotivo, un avvenimento coinvolgente in relazione al vissuto.