Gianfranco Labrosciano - Critico

Risalta, nell’opera di Grazia Savelli, una sostanza pittorica generata da una materia corposa, raggrumata ed epidermica, di una tattile consistenza ma quasi impalpabile, evanescente e labile, addirittura sfuggente, adombrata com’è di una mobile immaterialità che svapora, come i sogni che non lasciano traccia.

Si tratta di un quid assolutamente contraddittorio, a mio avviso, fra l’impiego della materia pesante e ciò che essa stessa traduce, che sfalda la materia medesima e la rende quasi inconsistente risolvendosi in un velo, un’ atmosfera che copre la una realtà sottostante, la quale non si manifesta nelle immagini e rimane nascosta, segretamente rinserrata in una sottostante irrealtà che tuttavia è quella che ci accoglie, ci attira, ci risucchia addirittura, come fossimo parti di quella sorta di verità inamovibile, più immanente dell’apparenza che vediamo, più profonda e severa, come si trattasse dell’apparenza nuda ma assolutamente necessaria e ineliminabile di noi, un territorio nel quale, osservando le opere, vorremmo immetterci correndo.

L’opera, in effetti, si palesa come un palcoscenico interiore in cui ogni gesto, ogni azione rappresentata è colta nella quieta, silenziosa immortalità del tempo sospeso, come si trattasse di brani o sequenze di eventi raccontati nel novero di un’esperienza lenta, tutta psicologica, che volge all’interiorità senza lasciare spazio o echi di rumore esterni. Eppure in questa lentezza l’opera stessa si consuma e l’immagine rappresentata si risolve, alla fine, in quella di un attimo, un istante passeggero che svanisce e fugge come un’ombra in una nebbia che dirada. Espressione, forse, di moti interiori, di intermittenze del cuore, direbbe Marcel Proust, attivanti la memoria involontaria o il ritmo ripetuto dell’abitudine, che segna il tempo della nostra vita senza che noi ce ne accorgiamo, che è quella dei nostri gesti e dei nostri passi sulla strada del vissuto quotidiano.

Un’atmosfera melanconica, quindi, forse di una tristezza sfinita, permea queste immagini, che si manifestano di un crudo realismo anche quando evocano o prospettano scene paradossali al limite del surreale che ci sprofondano in vertigini improvvise.

Così, forse perché i tagli prospettici delle composizioni, delle scene stranianti, delle fragili, illusorie, istantanee rappresentazioni colte nell’imprinting di una raggelata e immobile, rarefatta essenzialità, sono date dagli arditi scorci a volo d’aquila, ci capita di arrestarci sulla soglia di scale o di profonde voragini dove principiano i nostri labirinti oscuri, di una ghiacciata, fredda, monocroma necessità, e ci sentiamo come incollati davanti a queste immagini, come sprofondati nel fondo di pozzi artesiani nei quali vorremmo, inconsapevolmente, sostare oltre il tempo che ci è consentito.

Sul piano squisitamente artistico mi pare ci siano due tendenze opposte che si conciliano e si bilanciano.

Da una parte un fare rapido,veloce, quasi informale che traduce un’esigenza passionale e la vis di una pulsione emozionale originaria e irrazionale, dall’altra una lucida tendenza di un segno figurativo, orientato al disegno narrativo, capace di circoscrivere il dato naturalistico.

Una felice combinazione, dunque, che a tratti sfora in un eccesso di lentezza nell’insieme di brani rapidi e veloci che contraddice l’unità linguistica, ma che in generale obbedisce al progetto estetico, che è quello, forse, di appuntare delle istantanee in movimento sul vestito consumato, a volte troppo grigio della vita.


Gianfranco Labrosciano