Filomena Locanto

COME CORPO OGNUNO E' SINGOLO, COME ANIMA MAI.

Il lavoro fantasmatico di un'immagine non si risolve in un punto isolato, ma, come dice Warburg, nella “dinamografia” della totalità della sostanza immaginante. Le incarnazioni rinascenti della Ninfa (e questa è, evidentemente, una Ninfa) e della sua dualità non hanno molto da dirci sullo stato di una “sessualità” che esse stesse non “riflettono” ma trasfigurano. In compenso offre allo sguardo un dono ben più generoso: osa mostrarci il suo scivolamento progressivo, la sua caduta maestosa e toccante dal ruolo freddo e distaccato dell'icona verso la poeticità di un reale contingente. Direi che il suo stato di clinamen ne risulta sempre rinnovato. Cosa si può intendere per clinamen? La parola latina significa due cose: denota, da un lato, il movimento di reclinare fino a cadere, l'inclinazione di un corpo. Illustra, pertanto, l'asse fenomenologico della caduta analizzato da Ludwig Binswagner riguardo al sogno, e che la Ninfa traccia, nel quadro, con la grazia del suo scivolamento contemporaneo verso il basso alle sue radici e l'ascendenza verso il suo personale empireo sognato che si rispecchia soltanto in sé stesso. Il latino ha ripreso la parola greca clinè per indicare il campo privilegiato di questo movimento corporeo: è la terra il suo talamo. D'altra parte, il clinamen denota la deviazione del movimento: Lucrezio ne ha ricavato la sua teoria della creazione dei corpi e della materia. Si scopre così che il movimento della caduta, semplice e senza deviazione (in quanto tale, bisognoso di una comprensione fenomenologica), mostra tuttavia un insieme di biforcazioni possibili dove, improvvisamente agiscono forze in conflitto, tensioni deviate. Pertanto, una struttura di sintomo, una figurabilità, una deviazione (bisognosa, in quanto tale, di una interpretazione di tipo analitico). Tanto la caduta della Ninfa si rivela con evidenza, altrettanto questa evidenza comporta l'avvio di un “lavoro” di tensioni e di compromessi, di condensazioni e di spostamenti (un altro modo di intendere clinamen, in quanto dinamica di biforcazioni). Romanticismo? Sì, a condizione d'ammettere che tutto il pensiero moderno; formalismo, strutturalismo compresi, derivi da lì. A condizione di condividere ciò che Baudelaire scrisse meglio di chiunque altro: “L'immaginazione non è la fantasia; non è neppure la sensibilità, benché sia difficile pensare ad un uomo dotato di immaginazione che non sia sensibile. L'immaginazione è una facoltà quasi divina che coglie immediatamente, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie. Gli onori e le funzioni attribuiti a queste facoltà le danno un valore tale […] che un uomo colto privo d'immaginazione sembra un falso colto, o almeno un colto incompleto.” Le parole di Baudelaire riferite ad Edgar Allan Poe ed alla sua poetica dell'immaginazione, “Ogni certezza è nei sogni”, permettono di capire meglio il progetto fondamentale che sta dietro all'opera, la mia “scienza senza nome delle immagini”. In conseguenza gettano luce sullo stato euristico di Ninfa, la paradossale eroina del mio Nachtleben. Scopro, allora, Ninfa: fantastica e nebulosa. Le genealogie s'incrociano ovunque, si interrompono e riappaiono dove meno me lo aspetto. L'indagine per la quale avevo così tanto aperto gli occhi sfocia in una complessità di ordine nuovo: un punto non conduce ad un altro, secondo un ordine casuale standard. Ogni strada si biforca (e qui i loro capelli) e persino scompare sotto terra, per ricomparire altrove nel suo doppio. Sento che non bisogna più parlare in termini iconografici; Giuditta da un lato, Salomè dall'altro come definiva Panofsky una volta per tutte, ma che occorre cogliere questa configurazione nella sua mobile globalità, nella sua relativa indeterminazione (dovrei dire nell'inaccessibilità della sua sovra determinazione) e da qui i suoi attributi contrastanti: la loro falsa specularità, le conchiglie/ombrelli cinesi a celare per proteggere ma anche come strumento dialogico che invadono le figure... Ed allora chiudo gli occhi: lascio ritornare a me, in blocchi associativi e fantomatici, le immagini. Lascio risalire i rapporti intimi e segreti, le corrispondenze e le analogie. In breve io immagino le une con le altre, più precisamente monto le immagini le une con le altre: appaiono configurazioni, secondo una logica che, in un primo tempo, sfugge. Immagini raggruppate al di fuori di ogni determinazione diretta, e anche “al di fuori dei metodi filosofici abituali” per ritornare a Baudelaire. Tutto questo ha un nome: Mnemosyne. Per portare alla luce una funzione così cruciale, così antropologicamente formatrice, delle immagini occorre aprire gli occhi su tutto ciò che passa, secondo il precetto benjaminiano dello “storico straccivendolo”... Ma occorre anche chiudere gli occhi per lasciar venire a noi i blocchi di relazioni, le condensazioni, gli spostamenti, le genealogie inosservabili ed occhio nudo. Nell'arbitrio individuale di questa immagine, vista come la sopravvivenza di antiche Ninfe che, addirittura, osano rialzarsi e rinascere è lanciata un'ipotesi sulla necessità collettiva, culturale, di chiedere all'immagine di assumersi “il compito d'interpretare i sogni” (die Aufgabe der Traumdeutung) ed allora si deve accettare che l'interprete diventi parte ricevente andando oltre l'incommensurabilità del reale e vivendo l'immagine come un onirico assoluto a cui tendere; è l'intensità del “sentire” e dell'osservare (ben altra cosa del “vedere”) che va oltre il tangibile e crea speranza di un “oltre” sognato e, forse, condiviso.