Biografia

Nasce il 17 aprile 1924 a Montalbano Jonico (paese della Basilicata) in Italia, da Carmine e Grazia Simeone, primogenito di 9 figli. Le modeste condizioni economiche della famiglia impongono a Matteo di lavorare sin da giovanissimo come pastorello al seguito di una mandria di buoi. Nelle lunghe e solitarie giornate al pascolo, Matteo si dedica al disegno utilizzando qualsiasi supporto utile ad esprimere l'irrefrenabile bisogno di riprodurre il suo mondo genuino e semplice.

Una pietra, una roccia levigata, una pozzanghera riarsa dal sole, una corteccia, il vecchio muro di una fornace abbandonata... ovunque ritrae le sue figure, i paesaggi, i panorami essenziali, i volti rugosi di contadini schivi e donne "infazzolettate" che recitano il rosario.

Solo un lapis, gelosamente custodito e pochi ma preziosi fogli di quanto restava di un quaderno delle elementari, costituivano in quei difficili anni, il suo misero corredo artistico.

Il servizio di leva lo vede marinaio a Taranto, poi pompiere a Matera, fino a quando la prematura scomparsa di suo padre, lo richiama a casa per occuparsi dei tanti fratelli ancora molto piccoli.

Si impegna in ogni lavoro possibile al soddisfacimento dei bisogni primari della famiglia, fino a quando incontra il maestro Angelo Moramarco di Roccanova, che ne intuisce le capacità artistiche e lo avvia alla decorazione e alle pratiche della pittura.

Sono gli anni del colore, assetato di conoscenza, carpisce ogni segreto, ogni tecnica allora conosciuta. Scopre le meraviglie dell'impasto, l'affascinante alchimia delle misture cromatiche. Impara a creare i colori con la terra, l'uovo, le bucce essiccate e pestate dei legumi, l'olio d'oliva e di lino, la polveri di ruggine, fino alla più preziosa gomma dammar, le trementine, le resine fossili, d'ambra e le copali che riusciva a reperire solo a Taranto, Bari o Salerno.

Ormai padroneggia il colore con maestria e, le famiglie aristocratiche di Montalbano e dei paesi limitrofi lo reclamano per impreziosire le loro dimore gentilizie.

Cosi', prima a piedi poi con l'ausilio di una semplice bicicletta, percorre tortuose e difficili mulattiere. Giù "d'appiett" (ripida discesa) fino a "l'isch" (orti e giardini). Qui, per abbreviare il tragitto, è costretto a guadare "a-jumar" (fiume Agri) o piu avanti a "frascarossa" percorrere l'unico ponte per raggiungere Tursi, Rotondella, Nova Siri...fino a Rocca Imperiale o Nocara. E dal versante opposto, per recarsi a Pisticci, Bernalda e a volte anche a Matera, attraversa il Cavone togliendosi calzoni e scarpe per non bagnarli.

L'arciprete Giuseppe Lomonaco alla fine degli anni cinquanta, gli commissiona i restauri della Chiesa Madre di Montalbano "Santa Maria dell'Episcopio", dove tra l'altro l'ormai famoso "maestro" Matteo Lerose esegue stucchi ed affreschi alle volte absidali, del transetto ed al colonnato. Usa fogli di oro zecchino per la doratura di cornici e rosoni ancora oggi ben visibili e conservati nella chiesa.

Ed è proprio durante quei lavori che nota tra le altre, l'avvenente signorina Maria Scolastica Fattorini, che presto diventerà sua moglie e madre dei suoi quattro figli.

In quegli anni avvia anche la sua attività di vendita al dettaglio di colori, vernici e belle arti, attività cui già dagli anni del fidanzamento, Maria, spigliata ed intraprendente, si dedicherà con entusiasmo e senso degli affari.

Le cose vanno bene, tanto che Matteo per i suoi spostamenti, pur non essendo patentato acquista una delle prime autovetture del paese - una Fiat millecento - e ingaggia un autista personale. In quegli stessi anni, contribuisce generosamente per maritare le due sorelle Filomena e Domenica ed inizia la costruzione della sua nuova e moderna abitazione di Via Napoli.

E' un periodo pregno e gratificante, ma Matteo Lerose non trascura affatto la sua arte. Così tutte le volte che può, anche a tarda sera, sebbene stanco, trova sempre il tempo per dedicarsi alla sua vera ed inesauribile passione, dipingere.

La solida base economica gli consente ora di approvvigionarsi di tutto quanto occorre alla sua pittura. Compra cavalletti, tele, spatole e pennelli di qualità, pigmenti, tinte basi e solventi, senza farsi mancare le migliori cornici che lui definiva, le "ruffiane" dei quadri. Sostenendo che ogni tela si esalta e si esprime solo se nella giusta cornice. Quest'ultime le richiedeva su misura a fidati e sapienti artigiani salentini.

La sua creatività deflagra in centinaia di dipinti. I tramonti, dove i rossi della campagna meridionale esplodono di una intensità che grida, si fondono al cobalto del mare Jonio, l'ocra delle zolle di una terra arida emerge dai filari confusi di ulivi secolari dai tronchi contorti, custodi di storia e di sofferenza, metamorfosi antropologica di corpi ricurvi e anchilosati di ostinati ed irriducibili contadini. E sullo sfondo distese di grano maturo, impastate "dentro" le argillose colline materane, che digradano e si trasformano nelle sagome ordinate di sbiadite case coloniche, epopea e nemesi della Riforma Fondiaria. Donne canute, dall'incedere dondolante di cesti sulla testa e ossa malate, sedie di paglia intorno a tavole miseramente imbandite a testimoniare la povertà di una Lucania indolente e rassegnata. Ma anche così bella e fragile, amata e difesa. Protetta da irti muri di pietra e subito, al di là dell'arco svelata, nelle viuzze strette, gelosamente custodite nella "terra vecchia", dove ogni balconcino "spia" nella finestra dirimpetto. Dove i pati abbandonati, infiorati di parietaria occhieggiano il rosso vivo di arditi papaveri in fra i mattoni, anch'essi rappresentazione di un sussulto silente, di un riscatto promesso e mai compiuto.

Così' Lerose, ripesca nella memoria e trasfigura bicocche dirute, con il coraggio, ancora, di credere al ritorno dei figli partiti, nelle sagome geometriche di grigi opifici fumanti, dove migranti nostrani attratti dallo zimbello industriale, già celebrato nella "Civiltà delle Macchine" del Sinisgalli, consumano delusi e stanchi un veloce pasto che sa di diossina.

E dalla tela si leva l'urlo di raccolta, l'ultimo segnale per ritornare, per "salvarsi". Un appello senza appello alla vita, alla semplicità della natura, autentica e scontata della sua terra dove, il sole si tinge del sangue che nutre le membra vigorose dei padri e dei nonni lucani rimasti nei campi e, nella morbida luce di avvolgenti crepuscoli, li accompagna lenti al paese, afferrati alla coda del mulo o della giumenta gravida e scarna. La, dove i colori sono schiacciati sulla tela da spatole rabbiose di esprimersi e di comunicare, toni e gradazioni unici ed irripetibili di una tavolozza portentosa.

La produzione è tanto copiosa che l'intuito della moglie Maria, suggerisce di allestire le prime personali ed a partecipare a prestigiose collettive in ambito nazionale ed estero.

Il successo è immediato, le tele di Matteo Lerose piacciono e si vendono.

Tanto facoltosi notai ed avvocati, dottori e farmacisti quanto più modesti imprenditori o semplici impiegati, diventano suoi collezionisti.

I quadri di Lerose, vengono presto premiati, non si contano i riconoscimenti importanti e le onorificenze. Viene annoverato tra i membri dell'Accademia dei 500 e dell'Accademia Tiberina, Vince il Premio Andrei Sacharov, ottiene la Quecia d'Oro a Roma, etc etc...

Agli inizi degli anni settanta, lavora fianco a fianco come restauratore di preziosi reperti greci, con il prof. Dinu Ademenesteanu presso il Museo Nazionale della Siritide di Policoro. L'esperienza, se pur densa di soddisfazioni, si esaurisce in pochi anni in quanto gli acidi ed i solventi usati gli arrecano i primi problemi respiratori.

Nell'estate del 1974, sposta la sua residenza a Scanzano Jonico, già frazione di Montalbano dove realizza una galleria permanente delle sue opere. Nell'anno successivo, si aggiudica il concorso indetto dalla neo amministrazione, per lo studio e la realizzazione dello stemma civico.

Sul finire degli anni ottanta, dopo la "reazione" che gli eventi del terremoto pure hanno avuto sulla sua produzione (mirabili alcuni quadri raffiguranti le macerie e la solidarietà della ricostruzione), l'evoluzione artistica del maestro Lerose, volge le sue opere alle "nuove luci", filone pittorico da lui stesso così definito.

Buchi neri e pianeti in orbita nello spazio vengono raffigurati con nuove tecniche. Il dipinto non si esaurisce nella dimensione di una singola tela, ma esso seppur autonomo nella sua specifica identità, riesce a "connettersi" e dialogare con altre opere fino a formare un puzzle interminabile che sublima nell'arte della pittura l'infinito dello spazio. Le tinte decise, sapientemente graduate, riescono a dare calore alle gelide profondità degli abissi siderali e con discrezione stimolano nell'osservatore ormai rapito l'eterna domanda, del perché della vita,... ed esso, immerso nei colori viene risucchiato dai vortici della materia, si eleva e volge il suo sguardo a Dio.

Notevoli i consensi e gli attestati di benemerenza che le "nuove luci" hanno ottenuto, un rinnovamento artistico del maestro Matteo Lerose, che sempre alla ricerca di tecniche inesplorate, ha segnato la sua lunga carriera nella impareggiabile padronanza del colore, lontano da mode e tendenze commerciali.

Le troppe sigarette ed il continuo uso di solventi ed agenti chimici che ha respirato, gli hanno causato un enfisema polmonare le cui complicazioni lo hanno spento nella sua abitazione di Via G. Leopardi n. 1.

Erano circa le 20,00 del 31 agosto 2015, la mia mano teneva la sua. Era mio padre.

giugno/2016, Davide