Biografia
Maria Grazia Di Biase, vive e lavora a Pescara, sua città natale.
Pittrice e poetessa, in cui l’esplorazione della parola ,dell’ immagine
e del colore segna un cammino parallelo.
Come poetessa ha pubblicato una raccolta di liriche “Per i sentieri
della mia Anima” con presentazione di Mario Falcucci: “I confini
dell’anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade: così profondo
è il discorso che essa comporta. Questo frammento di Eraclito calza
perfettamente il logos rivelatore della poesia di Maria Grazia Di Biase”.
Come pittrice giunge, dopo varie ricerche, nella bottega d’arte di
Gianni Massacesi.
Qui amplia la sua ricerca artistica che nasce da una profonda e incontenibile
esigenza personale di espressione, legata ad una forte
personalità e risulta evidente la consapevolezza che l’espressione
artistica emerge da un attenta meditazione: un viaggio nei sentieri
più nascosti del proprio essere, all’esplorazione di quel mondo
misterioso che il razionale offusca per coglierne le vibrazioni più
segrete, le suggestioni più profonde. Ha partecipato a numerose
mostre ottenendo segnalazioni, premi e consensi dalla critica e dal
pubblico.
Il collage introdotto nell’arte da Pablo Picasso
all’inizio del Novecento finì col diventare il
primo passo verso l’emancipazione dall’uso
esclusivo di certi materiali e soprattutto realizzò
il rovesciamento dei criteri della rappresentazione.
Dopo Picasso, il Dadaismo e il Surrealismo
utilizzarono spesso con fine artistico,
non solo carte e stoffe, ma anche oggetti casuali,
apparentemente di nessuna importanza, i
cosiddetti objects trouvés: l’intento era quello di
disorientare la lettura e di sollecitare solo risposte
psichiche ed emozionali.
Oggi si può dire che sia l’uso del collage che
quello degli objects trouvés è un uso accolto
come “classico” e accettato senza alcuna difficoltà
all’interno della comunicazione artistica,
sebbene piegato di volta in volta in maniera
estremamente individuale.
Ed è infatti molto personale e complesso il
rapporto tra Maria Grazia Di Biase e le sue carte,
le sue stoffe. A lei il caso non interessa e
non le interessa disorientare il fruitore: carte
e stoffe sono scelte e accostate in base ad una
delicata ma fitta e ben progettata ragnatela di
corrispondenze che nascono da consonanze
interiori eppure facilmente rintracciabili.
Nel paragonare il tipo di fascinazione che
viene dalla sua arte mi piace citare la concezione
artistica di Joseph Cornell, famoso soprattutto
per le shadow boxes nelle quali accostava
oggetti in modo assolutamente suggestivo e
poetico.
Joseph Cornell, artista che dichiaratamente
non sapeva dipingere, trovava nella scatola
la trama unificante dei suoi oggetti, la scatola
diventava contenitore aggregante del tempo e
del ricordo. Di Biase invece, per rinsaldare il
suo pensiero del tempo e del ricordo si affida
alla pittura di cui conosce bene i fondamenti
e che adopera come poetico ago paziente che
cuce e sorregge.
Di Biase a differenza di Cornell trova i suoi
“oggetti” non camminando per la città ma cercando
nella sua casa o nella casa dei suoi cari
e, una volta scelti con particolare amore, li sottopone
ad una originale manipolazione sulla
tela. Paradossalmente la sua delicata poetica
alla ricerca dello spirituale insegue e indaga
proprio gli oggetti inanimati, destinati altrimenti
all’oblio del rifiuto.
I termini della sua arte potremmo cercarli nei
due concetti prima citati: quello del tempo e
quello del ricordo.
Il tema del tempo è immenso e in un certo
senso disarmante: dall’incapacità agostiniana
di definirlo all’ossessione proustiana del
suo ritrovamento, ripresa e declinata ai nostri
giorni dall’enigmatico Patrick Modiano. Per
Di Biase il tempo sembra essere qualcosa di
relativo all’anima di ogni singolo essere umano,
distensio animi , non ordine misurabile del
divenire legato al succedersi dei giorni e delle
notti, per dirla con Heidegger tempo come
modalità dell’esistenza.
L’altro termine è quello del ricordo, parola
che contiene il latino cor-cordis, cuore. Ricordo
e non memoria perché quest’ultima oggi
richiama immediatamente la memoria non selettiva
di un computer che tutto immagazzina
non differenziando. Il ricordo sembra invece
aver acquistato una accezione più soggettivamente
selettiva: ricordiamo solo le esperienze
che maggiormente ci hanno coinvolto da un
punto di vista affettivo, in senso lato.
Arte di ricordo, dunque, quella di Di Biase
perché richiama nel cuore e nel sentimento
qualcosa che non è più qui, almeno non nella
sua forma originale e che però, per il solo tornare
in cuore, rivive - non come fantasticheria,
ma come concreta presenza artistica.
Questa sua ultima suggestiva produzione
inizia dopo un evento dolorosissimo, con una
sorta di trittico dedicato alla luna : I mille volti
della luna uno, I mille volti della luna due
e I mille volti della luna tre. Probabilmente la
rimarchevole rinuncia alla rappresentazione
della quarta fase della luna sta nel fatto che nel
novilunio, la luna, pur continuando ad esistere
non è per noi terrestri visibile.
In verità chi non c’è è
Stato solo nascosto ai nostri occhi
Ma la sua presenza respira l’aria.
Come noi respiriamo l‘attimo del ricordo.
Insieme siamo l’impossibile presente che
Torna indietro mentre gli andiamo incontro
…
Il ricordo è un modo d’incontrarsi,
Mi porta lontano.
(Kalhil Gibran)
In queste opere l’artista cerca di riportare
l’affastellarsi del sentimento entro uno spazio
dominabile e quantificabile; così, rigido e preciso
si stende il colore in bande luminose che
non riescono comunque a trattenere il viluppo
intricato delle carte e la sgocciolatura del pennello.
La scelta della luna come soggetto, oltre a legarsi
ovviamente attraverso le sue fasi al concetto
di tempo, ci riporta subito ad una grande
significazione psicologica.
La luna è principio femminile ed è tutta arte
al femminile quella di Maria Grazia Di Biase
che evidenzia una funzione simbolica e archetipa
della manualità capace di riportare in vita anche ciò che per altri è solo avanzo o rifiuto.
Già dall’analisi di questo primo trittico appare
evidente che i suggerimenti presi dalle cose
reali servono però solo nella misura in cui arricchiscono
la visione interiore dell’artista che
si traduce sulla tela in un continuo mutare di
ritmi e in una continua rielaborazione di materia
dando vita in modo originale alla sempre
taumaturgica esperienza dell’arte.
Segni sedimentatisi nel nostro inconscio
come archetipi imprescindibili si accompagnano
a quello della luna: la spirale che a seconda
di come la si consideri può indicare un
movimento verso l’interno o verso l’esterno e
per questa sua plurisemanticità viene messa
in relazione sia con l’idea della morte sia con
quella della rinascita e, raddoppiata, appare
anche nella struttura del DNA. Ma anche la
conchiglia che partecipa del simbolismo della
fecondità propria dell’acqua; il suo disegno e
la sua forma ricordano l’organo sessuale femminile:
in latino concha significava ugualmente
conchiglia e vulva: per i cristiani la conchiglia è
anche un’immagine della tomba che racchiude
l’uomo dopo la morte in attesa della resurrezione.
E esplicita personificazione della morte
è nello scheletro a cui Di Biase l’accompagna.
Il germoglio invece cristianamente simbolo di
vita perenne ricorda l’albero trattenuto per le
radici alla prosaicità della terra e rivolto verso
la spiritualità celeste attraverso lo slancio e la
direzione dei suoi rami.
La capacità tecnica dell’artista di manipolare
le carte e ridurle a vortice indistricabile, alternato
con eleganza alle gettate di colore, è verificabile
ne La Farfalla in cui ancora il tema del
divenire e del modificarsi costante dell’essere
umano è ribadito attraverso l’idea di viaggio.
Il viaggio non è quello che ci porta necessariamente
in luoghi diversi, attraverso sentieri più o meno
familiari. Il vero viaggio di scoperta non consiste
nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi
(Marcel Proust).
Allora il viandante di Di Biase, vestito del
viola usato nelle liturgie di Avvento e di Quaresima,
rappresenta la vita e in un certo senso
la morte di tutti coloro che hanno occhi nuovi
e che spiritualmente sanno crescere, cambiare,
mutare e ugualmente sentire che anche tutto
il resto del mondo cresce, cambia e muta. La
bellezza della farfalla, simbolo per eccellenza
della trasformazione e come tale soggetto preferito
dei pittori simbolisti, trae origine proprio
da più fasi di mutamento.
Stupisce la maestria nell’adoperare colori forti
e nell’accostarli disinvoltamente. Spesso questi
colori tagliano la tela creando linee di orizzonti
sovrapposti e polisemici: spesso torna anche
il viola declinato con lucentezza affascinante:
il viola è composto in ugual proporzione di
rosso e di azzurro è quindi equidistante dalla
terra e dal cielo, dai sensi e dallo spirito, dalla
passione e dall’intelligenza, dall’amore e dalla
saggezza. Così questo colore è lo sfondo ideale
per Dialogo in cui le parole non dovrebbero essere
quelle della tolleranza ma piuttosto della comprensione, della vicinanza, dell’amore, del
mettere in comune per sempre al di là di una
definita dimensione cronologica.
Negazione del tempo cronologico pare anche
il divertente I quotidiani meglio non leggerli. I
quotidiani, sfogliati, smembrati e adoperati in
questo caso come elementi fondanti dell’opera
sono per Di Biase lo specchio, a volte, neanche
tanto fedele, di una società che chiassosamente
e superficialmente discute dei suoi numerosi
e crudeli mali e che sembra aver perso l’idea
stessa della bellezza.
Adoperando frammenti dei quotidiani, l’artista
dà il suo ordine equilibrato alla tela in
modo tale che nulla possa essere modificato
degli accordi di colore e delle proporzioni della
figura: antidoto ai mali del mondo la pittura
per l’artista non è affatto riproduzione della
realtà fenomenica ma nuovo universo armonico
che vibra e trova risonanze nel suo animo
e in quello di chi guarda. Particolarmente significativa
della sua delicata poetica è Una rosa
per te.
L’esuberanza klimtiana dell’oro nella parte
superiore della tela è mitigata dal bianco quasi
argentato nella parte inferiore ma ugualmente
l’oro riesce a trasfigurare la realtà e a fissare
l’immagine della donna quasi in una eterna
trascendenza. Il fitto intreccio di colori, elegante
e ornamentale trama, rende infatti ambigui
i contorni e dà invece risalto al volto e
alle mani.
Creatura delicata e minuta, questa figura
femminile vive nello sguardo non del tutto occultato
dal volume del turbante. Lo sguardo è
tenero e diretto e la bocca carnosa e perfetta:
bellezza dell’animo ricercata nella forma. La
mano destra è quasi evanescente, la sinistra è
tesa in un gesto di offerta del fiore. Quest’opera
è l’opera del dono che appalesa il desiderio
dell’artista di far abbeverare alla bellezza
dell’arte . Attraverso il dono si creano legami
indissolubili: non si tratta di un solo passaggio
da una mano ad un’altra poiché regalare
qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa
di se stessi e in un certo senso del proprio
spirito. Maria Grazia Di Biase non ha perso, in
un mondo diventato ostile all’armonia quale è
il nostro, la speranza della condivisione della
bellezza che attraverso la sua arte si sforza di
raggiungere e donare.