Giorgio Di Genova

PAOLO PASOTTO, OVVERO DEL CONIUGARE IL COLORE

Nelle mie peregrinazioni di oltre cinquant’anni ho potuto mettere a fuoco la diversità dei linguaggi pittorici, che, pur essendo molto variati, possono essere suddivisi in due versanti, cioè quelli propri ai temperamenti grafici e quelli propri ai temperamenti cromatici. Al primo versante, tanto per fare qualche nome esemplificativo, appartengono Toulouse-Lautrec, Klimt, Schiele, Modigliani, al secondo Renoir, Monet, Bonnard, Poliakoff. Naturalmente ciascuno, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di artisti, estrinseca il proprio temperamento, sia coniugando il rapporto tra disegno e colore, sia declinando le modulazioni cromatiche, in modi personali.

La pittura di Paolo Pasotto appartiene al secondo versante, anche in quei momenti in cui egli ha utilizzato soluzioni grafiche, appunto affidate alle mutazioni cromatiche, per lo più a due colori, com’è in Ombre del 1948 ed in diverse composizioni degli anni Sessanta (e penso a Comp. B994 del 1960 e soprattutto a Comp. C009 del 1964). Ed è proprio per tale afflato che Ombre si differenzia da quanto Sergio Lombardo nei primi anni Sessanta faceva con gli smalti su tela della serie Gesti tipici. Contrariamente alle silhouettes del pop romano, alquanto bloccate nel nero, le Ombre di Pasotto sono un vero e proprio precipitato di colore. E lo sono anche quando egli usa il colore come percorsi lineari, cioè con intenti grafici, com’è in Comp. C009, tanto che si può asserire che egli disegna col colore, come stanno a testimoniare diverse altre sue opere, tra cui mi sembra in tal senso molto pertinente Rosa rosae… del 1967, olio su tela in cui nella soffusa atmosfera pittorica affiorano per segni cromatici celesti, rosa e rossi un volto femminile e una rosa, appunto. Insomma l’ottica di Pasotto era così immersa nel colore che in esso veniva fagocitato ogni impulso disegnativo, ricondotto a pura eco cromatica.

Ripercorrendo l’intera produzione pittorica di Paolo si percepisce pienamente quanto il colore sia stato fondamentale per lui, ed a tal punto che esso indubbiamente è sempre stato tutt’uno con la sua immaginazione.

Ogni dipinto di Pasotto è una sorta di discesa negli inferi della coscienza, coscienza che negli anni Sessanta ha coinciso con le viscere di quella Carne Universale evocata dall’artista bolognese sulla base del suo radicato misticismo. Anzi, proprio su tale base si può, a mio avviso, affermare che per Pasotto il colore è stato il Verbo, ovvero, fuor di metafora mistica, il verbo con cui egli - dipinto dopo dipinto - ha coniugato i modi del suo indicativo presente. Di qui provengono le oscillazioni del suo coniugare il cromatismo, ora con forti tendenze al monocromo, ora con amalgami di differenti colori, anche fluidamente modulati, ed ora addirittura con evocazioni di fantasmatiche imago, tutto sommato trasparenti, ottenute con l’aerografo, in cui è fondamentale il concorso della luce, sempre declinata assieme al colore in soluzioni varie e variegate, fino alle esplosioni cromatiche, tra cui citerei Trasparenze del 1999, a cui tante altre più o meno simili composizioni di colore-luce sono seguite.

Queste oscillazioni sono tutte tappe della sua anabasi verso il colore-Verbo, che negli ultimi anni ha raggiunto la sua piena maturità nella cospicua serie di olii su tela, anche di grande formato, nonché su quelli su cartone cm. 100x70, seguita dalla più tarda serie degli olii su carta cm.50x30.

Con questi lavori, a mio parere frutto delle estasi del suo misticismo, Pasotto ci ha lasciato una sorta di testamento pittorico. Un testamento tipico di un visionario del colore, seguace dell’antroposofia steineriana, quale egli è stato senza soluzione di continuità. In ottemperanza a tale visionarietà negli anni Settanta l’artista era riuscito a far riaffiorare nella sua immaginazione scene da Campi Elisi. I suoi Campi Elisi, ovviamente. Ovvero visioni popolate da fantasmatiche immagini di adolescenti, donne e famiglie, che nel dicembre 2015 volli documentare. Mi riferisco alla mostra a tema Scenari dell’Imagerie, da me curata a Vibo Valentia in occasione della VII edizione del Premio Internazionale Lìmen Arte, mostra che, essendo Pasotto scomparso un mese prima, volli dedicare a lui.

In essa avevo appunto inserito la sua aerografia su tela del 1970-71 Figure, che, dopo aver parlato del suo approdo alle varie visioni dei Campi Elisi, definii: “La più significativa di tali visioni in linea col suo misticismo è senza dubbio il gruppo di eteree Figure, che si aggirano nella impalpabile e diffusa luce ultraterrena qui presente”, precisando poi: “Figure appartiene agli anni precedenti la svolta, che portò Pasotto a smaterializzare le sue visioni e pertanto affidarle alla sola modulazione dei colori in opere di lirismo assoluto. Del resto per lui la corposità era solo un rivestimento momentaneo della Materia, come nel 2003 asseriva in un brano del suo opuscolo Logica plausibilità rivelazione: ‘La tanto conclamata magnitudo della Materia si riduce, pertanto, a morto materiale da costruzione che da solo, al massimo, arriva a cristallizzare; e, quando si dà come Energia, si rivela essere solamente nuda forza che se ne fugge dal di sotto: la Vita, la Crescita, la Rigenerazione, idealità che incontriamo già nei vegetali, non appartengono affatto all’Idea-Materia. E l’Idea ‘pentola’ - idea fisica – è lontana dalla Materia anche se ne è rivestita’”.

In questi assoluti di Materia, Energia, Rivelazione, Idea “pentola” si condensa tutto il misticismo di Paolo Pasotto, da lui trasferito nel colore e nella luce dei suoi dipinti. Soprattutto nelle carte estreme, lasciateci come testamento, in cui riaffiorano talora gli echi delle grafie cromatiche e delle fluidità dell’esistere, che spesso, parafrasando il grande Ungaretti, s’illuminano d’immenso.

Giorgio Di Genova